PSICOANALISI
(XXVIII, p. 455; App. II, II, p. 627; III, II, p. 516; IV, III, p. 83)
Nelle ultime due decadi la p. è stata ricca di fermenti e di mutamenti così insoliti che per essa si è parlato di profonda crisi e d'incerto futuro. Tale interpretazione è come minimo esagerata, ma che la p. contemporanea sia diversa da quella che si era abituati a conoscere è un fatto: oggi essa si professa ''postfreudiana'' proprio per indicare che, pur mantenendo la continuità col pensiero del suo fondatore, le teorie che coltiva, l'attività che svolge, l'immagine che ha della sua collocazione disciplinare non sono più quelle tradizionali. Tratteremo perciò in particolare di tale diversità e dei fattori che hanno contribuito a produrla.
Un primo carattere distintivo rispetto al passato riguarda la fisionomia generale della comunità psicoanalitica: quella compattezza con cui essa si era sempre presentata all'esterno è scomparsa per lasciare il posto a un pluralismo di tendenze che accorda la sua fiducia a teorie diverse e spesso competitive tra loro. Si è venuta così a dissolvere la famosa ortodossia, fonte di tante accuse e originata a sua volta dal carattere di ''movimento'' con cui Freud indicava i suoi proseliti, convinto che la p. non fosse soltanto una procedura d'indagine scientifica e un metodo terapeutico, ma anche un insieme di verità sulla condizione umana troppo disturbante per non trovare costante opposizione da parte di chi non la provasse direttamente su se stesso.
L'abbandono di questo atteggiamento può essere ben esemplificato dal modo in cui nel 1974 si esprimeva H. Loewald, uno dei più influenti psicoanalisti nordamericani: "Non sembra che Freud abbia riconosciuto a sufficienza che la realtà della scienza di cui parlava non è altro che una forma di realtà che è la stessa mente umana a organizzare e che perciò, contrariamente a quanto lui riteneva, essa né rappresenta la vetta ultima dell'umanità né tanto meno è in grado di assurgere a criterio assoluto di verità". È indubitabile che queste parole riflettevano le critiche che erano nel frattempo intervenute nel modo di concepire la scienza: in particolare nella sua immagine di sintesi di una conoscenza accumulata in maniera oggettiva, cioè indipendente dall'idiosincrasia personale o dallo sfondo culturale e tradotta in formulazioni isomorfiche con la struttura del mondo, meritevoli perciò dell'appellativo di verità.
L'immediato ascolto che ricevevano dichiarazioni del genere trovava ampio riscontro nella crescente insoddisfazione che si avvertiva verso il tessuto esplicativo freudiano. Nello stesso periodo a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta anche gli psicoanalisti che, a fianco di H. Hartmann e D. Rapaport, si erano maggiormente adoperati nella sistematizzazione del modello pulsionale-strutturale, ne stavano ora denunciando anacronismo e inconsistenze; alcuni di loro proponevano addirittura di accantonare la teoria generale, la metapsicologia, come l'aveva chiamata Freud, e di lasciare che la p. restasse una disciplina conclusa nella sua teoria clinica.
Più che il fatto in sé, destava sensazione la provenienza delle critiche: già da tempo infatti concetti basilari come il transfert e il controtransfert, l'Es e la neutralità analitica erano fonte di discussioni e di proposte revisioniste. Adesso erano però analisti della più stretta ortodossia a dire apertamente che la fedeltà a Freud procurava più costi che vantaggi. C'era inoltre da considerare che le ''resistenze'' del mondo esterno, poste a giustificazione dell'isolazionismo dei pionieri e della coloritura politica dell'istituzione psicoanalitica, ormai da tempo non esistevano più: la p. aveva avviato uno dei dibattiti più significativi del secolo, la cui importanza nessuno metteva in dubbio; anche gli oppositori, per es. U. Neisser, riconoscevano che "oggi non possiamo non dirci freudiani". Essa aveva proposto una concezione della condizione umana che aveva permeato la cultura sociale, specie quella a tradizione protestante. In Nordamerica molti dipartimenti di psichiatria e psicologia erano diretti da psicoanalisti e le nuove leve consideravano il training una tappa obbligatoria per l'affermazione professionale. In tale situazione era dunque inevitabile accogliere ed elaborare il flusso di idee che scaturiva da dibattiti svolti per lo piú fuori della comunità psicoanalitica, che non aveva perciò alcun controllo su di essi.
L'allentarsi della rigidità nell'adesione ai padri fondatori rientrava del resto nel generale clima di democratizzazione di quegli anni, con la relativa trasformazione dei rapporti d'autorità che lo caratterizzava. Uno degli effetti, quasi obbligatorio, di quel clima fu rappresentato dalla riconsiderazione che ricevevano contributi, come quelli di S. Ferenczi, O. Rank, H.S. Sullivan, K. Horney, precedentemente combattuti od ostracizzati e dalla concessione di spazi maggiori ad altri, come quelli di M. Klein, M. Balint, J. Lacan, D. Fairbairn, tenuti fino allora ai margini della corrente principale. Indicativa fu la rapidità con cui nei primi anni Settanta guadagnò popolarità la teoria relazionale della British School: essa era nota e apprezzata da quasi tre decenni ma, essendo fondata su principi motivazionali completamente diversi da quelli del modello pulsionale-strutturale, allora egemone, la sua diffusione era sempre stata stentata; adesso invece si esplicitavano le conseguenze che essa comportava per la teoria eziologica e l'attività pratica e si studiava il modo di integrarla con la concezione classica. Sarà anzi opportuno soffermarsi su questo punto perché dai dibattiti che ne nacquero si sono poi sviluppate molte delle tendenze presenti nella p. odierna.
A partire dalle Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie (1905), nel sistema di Freud il fondamento motivazionale − ciò che dà origine all'azione umana e ne determina oggetti e scopi − era costituito dalle pulsioni, forze endogene che esprimono una richiesta di lavoro alla mente, concepita come attivata solo dietro la loro spinta e come funzionante secondo il principio di piacere, sul bisogno cioè di liberarsi dell'eccitamento da esse prodotto mediante l'investimento su un oggetto che perciò è gratificante.
L'introduzione del concetto di narcisismo e dell'ipotesi strutturale aveva alquanto complicato questa semplicità iniziale e diminuito proporzionalmente, a vantaggio dell'Io, la specificità della pulsione ma non aveva modificato il principio che ogni azione umana, dalle manifestazioni emotive più elementari a quelle della psicopatologia della vita quotidiana e dei sintomi neurotici fino alle più elevate creazioni artistiche, proviene da quelle forze. In una tale concezione l'oggetto del soddisfacimento non era dunque un oggetto specifico, perché soltanto il bersaglio della pulsione era adeguato a ridurre la tensione, né d'altra parte poteva essere un qualsiasi oggetto, dato che solo certi oggetti sono in grado di proporsi con identità di percezione rispetto a quello adeguato. Una teoria, come si vede, assai aderente ai principi fisicalisti della scienza dell'epoca di Freud, destinati a soccombere di fronte a quelli che cominciarono a imporsi dagli anni Cinquanta in poi.
Viceversa, nel modo di vedere che iniziò a delinearsi con M. Klein e si sviluppò con M. Balint e D. Fairbairn, la pulsione non era considerata come pleasure seeking (ricerca di piacere) ma object seeking (ricerca di un oggetto), intendendosi con questo che essa era programmata a dirigersi verso l'oggetto d'adattamento, il seno, la madre, che perciò non era investito perché capace di ridurre la tensione ma in quanto fonte stessa dell'''amore primario''. Gli esperimenti di H.F. Harlow del 1958 avrebbero poi dato conferma decisiva a questo punto di vista, mostrando che il neonato antepone la ricerca di calore e protezione a quella del cibo, che non sembra quindi essere il veicolo principale dell'investimento affettivo. D'altro canto già prima di quegli esperimenti D. Winnicott aveva lanciato il suo motto "non esiste un bambino ma solo un bambino con sua madre", col quale invitava a spostare l'unità d'analisi dell'approccio psicoanalitico da una base monadica a una diadica.
In apparenza, il suggerimento di sostituire il presupposto freudiano del bambino asociale − concluso nel proprio narcisismo e aperto al mondo solo quando ve ne è costretto dalla tensione da bisogno −con uno fondato su una relazione duale autonoma, rappresentava un revisionismo di pari significato di quello apportato dalla ''psicologia dell'Io'' quando aveva affermato l'autonomia della Ego conflictual-free sphere (sfera dell'Ego libera da conflitto), rispetto alle altre funzioni dell'Io coinvolte nel conflitto con l'Es e il SuperIo. In sostanza invece la portata delle due revisioni era assai diversa perché quella avanzata in terra britannica prevedeva un setting analitico e una teoria dello sviluppo mentale, epperciò dell'eziologia, molto divergenti da quelle freudiane. La psicologia dell'Io, che si era mossa nell'intento di fare della p. una psicologia generale, aveva sì mitigato la sperequazione precedentemente esistente tra funzioni cognitive e affettive, ma non aveva affatto intaccato il primato delle pulsioni nelle scelte delle azioni umane. Nel campo della pratica clinica aveva anzi rafforzato l'impianto oggettivante −della separazione tra l'osservatore e l'osservato, tra l'illusione dei desideri rimossi e la realtà catturata dalla ragione − che costituiva l'elemento qualificante dell'assetto interpretativo freudiano.
Anche a proposito degli aspetti sociali, traeva in inganno la somiglianza esistente tra la formula usata a New York, di ''ambiente mediamente prevedibile'' e quella londinese di ''ambiente facilitante'': l'''ambiente'' della prima espressione è una dotazione naturale indispensabile per una crescita epigeneticamente determinata che procede indipendentemente dal modo in cui quel mondo, pur con le sue contraddizioni, si propone al soggetto. Al contrario, la ''madre-ambiente'' di Winnicott era passiva soltanto nella sua componente di astenersi dall'interferire nei processi maturativi − dove però la passività è solo apparente perché si traduce in un'attiva ricerca del reciproco adattamento, come avviene nel gioco o nella danza.
L'enfasi su una relazione primaria improntata sull'andare insieme interferendo il meno possibile (che diventerà poi una saliente caratteristica della condotta analitica) modificava notevolmente l'immagine che la p. dava del bambino. Freud lo aveva tolto dal limbo in cui si trovava, portando prove al detto che "il bambino è il padre dell'uomo"; mostrando che lo si poteva conoscere, aveva dato un decisivo impulso alla laicizzazione dell'allevamento infantile e indicando quanto fossero determinanti i primi anni per la vita successiva, aveva sollecitato l'attenzione dei genitori verso il tormentato ondeggiare dei figli tra l'istintiva ricerca del piacere e la dura accettazione delle norme sociali, le quali dovevano però infine prevalere sulla primitiva animalità. In questa sua ricostruzione, che rispecchiava così bene le concezioni razionaliste e le aspirazioni progressiste della sua cultura, l'evento cruciale era il conflitto edipico, con la dolorosa rinuncia all'oggetto d'amore, che era da assecondare con fermezza.
Nella concezione relazionale che si stava affermando, in un'epoca diversa e in una cultura che era cambiata, quell'evento non era più considerato così fisso e immutabile (la ''psicologia del Sé'' affermerà che esso può addirittura procedere gioioso se tutto è andato bene prima): il suo decorso era infatti influenzato dalle vicende ''preedipiche'' nelle quali fermezza e razionalità contano poco a confronto del holding e del handling, della comprensione intuitiva e dell'abilità di chi alleva il bambino. Senza queste capacità la mente infantile non è in grado di svilupparsi: le sue innate potenzialità restano abortive e sono compulsivamente portate a esprimersi in comportamenti aggressivi rivolti alla ricerca di surrogati e all'autosufficienza.
Su questo punto la scuola britannica aveva molte affinità con quella interpersonalista di Washington: H.S. Sullivan, F. Fromm-Reichmann, O. Will e J. Searles curavano i loro pazienti borderline e schizofrenici del Chestnut Lodge Sanitarium di Rockville secondo una teoria che assegnava primaria importanza al bisogno di sicurezza del bambino. Anch'essi collocavano lo studio della personalità all'interno del contesto relazionale ed erano convinti che lo sviluppo mentale è concepibile solo entro la diade madre-bambino "che si soddisfano a vicenda". A differenza però di costoro, che a quel tempo erano in aperta polemica con la p. freudiana, la scuola inglese vi restava saldamente inserita: rifiutava l'idea che "ciò che sta in superficie è complesso e profondo almeno quanto ciò che sta nel profondo"; vi vedeva una minaccia alla prerogativa maggiore della p., lo studio dei processi e dei conflitti inconsci. La proposizione freudiana della dinamica edipica e delle funzioni difensive dell'Io rimaneva per essa pienamente valida; vi si doveva solo aggiungere tutto ciò che Freud non aveva sufficientemente studiato, le relazioni dei primi due anni di vita. Pertanto se vi sono state privazioni precoci, l'esperienza impoverita e distorta che ne risulta non va confusa con quella che si manifesta a seguito di rimozioni che ne hanno risospinto il più e il meglio nell'inconscio e fuori del dominio della persona, e dunque fuori di significative interazioni col mondo: l'impoverimento in questo caso si deve a una mancata dotazione di mezzi per entrare nel mondo e comunicare con esso.
Si profilavano dunque due psicopatologie differenti: a quella tradizionale e intrapsichica se ne affiancava una difettuale da carenza interpersonale. Anche il metodo di trattamento si diversificava: il setting basato sulla neutralità e l'astinenza andava bene per le varietà neurotiche e caratteriali, ma per i disordini narcisistici e borderline questi aspetti si rivelavano sterili o controproducenti e dovevano essere sostituiti da un atteggiamento più empatico e interattivo, in grado cioè di supplire alla mancata facilitazione ambientale sì da poter stimolare la ripresa di un processo evolutivo arrestatosi. Qui importava più la comunicazione non verbale che l'interpretazione, le aspirazioni del Sé più del modo di funzionare dell'Io.
Com'è stato accennato, fino agli anni Settanta le serie difficoltà che venivano sollevate sul piano teorico da questa coesistenza di due concezioni di sviluppo infantile, di patogenesi e di metodo di trattamento diverse non vennero dovutamente affrontate e si continuò a pensare che l'osservazione di una più estesa gamma di disturbi comportasse necessariamente qualche nuova formulazione clinica, a sua volta motivo di qualche correzione teorica, senza scompaginare la struttura esplicativa. In effetti i contributi di E. Jacobson, di M. Mahler e di J. Sandler andavano in quella direzione. Un vero confronto non era tuttavia possibile perché non erano soltanto i dati clinici a essere diversi ma anche il modo di raccoglierli, i campi osservativi, le influenze culturali. Nella patria della psichiatria dinamica, laddove l'attività psicoanalitica vi si mescolava, lo psicoanalista ''diplomato'' comprovava anche l'autorità che l'Istituzione esercitava sulla sua pratica; inoltre il lavoro di ricerca veniva svolto presso le università con progetti sistematici a lungo termine, si trattasse sia di ricerca clinica a base comparativa, come quella svolta nella Temple University e nella Menninger Foundation, sia di impronta sperimentale, come quella della Columbia University. In Gran Bretagna invece le esperienze, oltreché nella stanza d'analisi erano effettuate in sedi più disseminate, sul campo. Analisti come M. Balint, D. Fairbairn, D. Winnicott lavoravano a contatto con pazienti gravi da una parte e dall'altra con colleghi impegnati nel servizio sanitario o con analisti che operavano in istituzioni, come la clinica Tavistock dove portare la p. fra il pubblico contava di più che conservarla nella purezza del metodo e della coerenza scientifica.
Gli eventi bellici prima e il piano Bevan poi avevano avuto un forte peso in quell'atteggiamento. Le psicoanaliste inglesi deputate all'assistenza di bambini orfani e sfollati avevano potuto constatare direttamente i dannosi effetti della privazione genitoriale e la peculiare solidarietà autarchica che si creava tra quei bambini, tanto diffidenti e ostili verso gli adulti che pure cercavano di proteggerli. Molti analisti, assegnati alla riabilitazione, avevano dovuto affrontare le sindromi da burn out (''da rifiuto'') presenti nei campi militari durante la snervante attesa dello sbarco. Com'è noto fu lì che nacquero la psicoterapia di gruppo a opera di W. Bion e S.H. Foulkes e le prime esperienze di comunità terapeutica che T. Main attuò, negli anni immediatamente successivi, al Cassel Hospital. Sempre dal servizio sociale bellico E. Jaques, T. Wilson, H. Bridger avevano tratto le premesse per una ''socioanalisi'' applicabile alle organizzazioni istituzionali e aziendali. Pure nel generale interesse per i nuovi fenomeni evidenziatisi in quel periodo, in particolare per quelli della privazione infantile, e nel quadro del programma dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, presero origine le indagini di J. Bowlby sull'attaccamento, che tra l'altro riprendevano un progetto di ricerca sugli affetti che anni prima S. Rado e A. Kardiner avevano avviato senza molto successo al Columbia University Psychoanalytic Center: stavolta il progetto andò avanti fino a raggiungere risultati di grande importanza per la psicologia evolutiva e per il cognitivismo odierni e questo perché Bowlby si era servito dei nuovi approcci dell'etologia e della teoria dei sistemi di controllo.
Difatti con gli anni Sessanta questa disseminazione di interessi conoscitivi e terapeutici si era pienamente sviluppata, embricandosi su aree di ricerca limitrofe e dando luogo a campi di attività autonoma e in competizione con quelle originarie. Nuovi itinerari di studio si erano affacciati: il parallelismo esistente tra i meccanismi vitali che, incorporando l'esperienza dei progenitori, programmano la loro adattività ambientale e i calcolatori inventati dall'uomo proponeva la sostituzione del paradigma energetico con quello informazionale. La rivoluzione cognitiva che ne era scaturita spostava l'indagine della personalità dall'ambito delle motivazioni e affetti a quello dei ''costrutti personali'' di cui ogni individuo fa uso per dare un senso al mondo e a se stesso. La teoria dei sistemi, applicata alle scienze comportamentali, stava dimostrando che le azioni umane non possono essere comprese se non nel contesto in cui si situano, che la mente non è conclusa nei confini del soggetto, ma si estende in una rete organizzata di interazioni sociali e di sedimentazioni di significati che si autodefiniscono con essa; e che la mente di chi la osserva ne è parte integrante.
Questa era appunto la strada battuta dalla teoria relazionale ed era per questo insieme di fattori che adesso il confronto non poteva più procrastinarsi. A complicare le cose c'era anche il cambiamento culturale sopraggiunto: in campo scientifico esso si esprimeva attraverso la tendenza ad abbandonare le grandi versioni universaliste, troppo noncuranti delle variabili locali, delle dinamiche del mutamento e del flusso del tempo, così determinanti invece nella configurazione dei fenomeni che esse pretendevano di spiegare; la concezione freudiana rientrava indubbiamente fra queste.
Nell'ambito sociale i nuovi orientamenti si manifestavano nella sistematica denuncia della collusione tra scienza e potere dove anche la p. era accusata di aver abbandonato il suo spirito rivoluzionario, di essersi accademizzata e di aver omesso di applicare anche a se stessa il suo metodo di ''smascheramento della coscienza''. D'altra parte gli stessi atteggiamenti che ne intaccavano il prestigio valorizzavano anche, con la loro enfasi sulla soggettività e la libertà interiore, il contributo conoscitivo ed emancipatorio che la p. aveva dato e diffondevano nella cultura sociale la tendenza a considerare la psicoterapia una via per sfuggire al disagio e raggiungere le più autentiche aspirazioni del Sé. In conseguenza di questa diffusione, non solo cambiava la natura della domanda di psicoterapia ma si sollecitavano inoltre gli enti governativi e le società d'assicurazione a interferire direttamente sulla pratica terapeutica, a porre limitazioni nella durata e frequenza dei trattamenti e a richiedere una più trasparente aderenza ai tradizionali criteri medici della validazione e della metodica individuazione dei fattori curativi.
Questi mutamenti ponevano in seria difficoltà la comunità psicoanalitica, per la quale era stata sempre ben chiara la considerazione che se l'esercizio terapeutico, quasi sempre privatistico, le era necessario per sopravvivere nel quotidiano, il suo futuro riposava invece sulla capacità di seguitare a mostrare le potenzialità euristiche del suo metodo, che non potevano che coincidere con l'osservazione di casi seguiti secondo le procedure standard. Adesso la prospettiva di una p. diluita in attività psicoterapeutica diventava concreta, specie per i più giovani, attratti da una pratica meno canonica ma più protetta benché meno remunerata. Inoltre la domanda non era soltanto aumentata e meno discriminata, era anche diversa: le depressioni e i malesseri che giungevano all'osservazione apparivano sempre meno circoscrivibili nelle loro determinanti intrapsichiche e sempre più connessi ai micro e macroambienti d'adattamento. La ricetta freudiana, di evidenziare desideri irrealistici legati a fissazioni infantili e pagati con paralizzanti sentimenti di colpa e menomanti disadattamenti non risultava facilmente prescrivibile a chi considerava proprio l'essersi adattato la fonte dei suoi disturbi. Un mondo sociale che prevede mobilità, aleatorietà della familiarità, linguaggi sempre più sofisticati e lontani dalla comunicazione primaria, che, per usare l'espressione di L. Trilling, assiste al ''crollo della sincerità'', può di per sé alimentare difese narcisistiche caratterizzate da un'accondiscendenza di facciata − lo stare al gioco − unita alla contraffazione dei sentimenti, generativa di incertezza sul Sé autentico, su chi siamo e cosa ci proponiamo in rapporto agli altri, tipicamente un compito adolescenziale, che si prolunga in tal modo nell'adulto. La ''coerenza del Sé'' era appunto il traguardo terapeutico che si proponeva la psicologia del Sé che in pochi anni aveva attirato un forte numero di analisti nordamericani. H. Kohut (v. in questa Appendice) fondava appunto la sua teoria del narcisismo su una sottostimolazione che il bambino di oggi riceve in famiglia: non entrando in rapporto con le competenze dei genitori, che sono distanti e, quando presenti, troppo intrusivi, il suo Sé autentico resta scisso e inaccessibile al resto della personalità. Notevole era, su questo punto, la vicinanza di queste tesi con quelle del ''falso Sé'' di Winnicott.
Quei problemi pratici e queste dispute in campo teorico avevano indotto l'International Psychoanalytical Association a organizzare, nella seconda metà degli anni Settanta, una serie di convegni proprio sul tema dell'''identità dello psicoanalista'' a cui ne seguirono poi altri dedicati al ''terreno comune''. Oltre alle interferenze esterne c'era infatti il pericolo interno rappresentato dalla molteplicità delle correnti teoriche che, dopo che il centro d'attrazione freudiano aveva perduto la sua forza, erano in aperta competizione tra loro.
Che il terreno comune e il richiamo alla stessa pratica quotidiana potessero essere un buon collante contro la possibile frammentazione era stato in quegli anni dimostrato dall'accalorato dibattito, al quale avevano partecipato analisti di ogni tendenza, attorno alla contesa tra O. Kernberg e H. Kohut sul trattamento dei disturbi narcisistici e borderline. Sulla base di prove del genere erano stati istituiti periodici workshops fondati sul metodico confronto tra il materiale clinico e i sistemi interpretativi facenti capo alle varie scuole: la psicologia dell'Io, la kleiniana, la lacaniana, l'interpersonalista, la relazionale, la psicologia del Sé. Si era potuto così evidenziare che l'eterogeneità dei linguaggi non era arrivata al punto da paralizzare il dialogo critico, che si era in grado di rilevare la distanza spesso esistente tra ciò che l'analista, di qualsiasi tendenza, pensava di fare e ciò che in realtà faceva, che si potevano puntualizzare le aree che necessitavano di un'approfondita riconcettualizzazione.
Per es. nell'area motivazionale era acuto il contrasto tra kleiniani, psicologi dell'Io e lacaniani, più innatisti, che privilegiavano il punto di vista genetico e l'esperienza intrapsichica, e interpersonalisti, relazionali, psicologi del Sé, che poggiandosi sul presupposto evolutivo, sottolineavano invece l'esperienza reale del bambino e la sua capacità di valutare e interiorizzare i comportamenti adulti: un punto di vista al quale la Infant Research e la teoria dell'attaccamento con i suoi internal working models stavano portando validissimi contributi empirici. Questo tipo di opzioni si rifletteva poi nel campo terapeutico, dato che il punto di vista genetico privilegiava l'insight, la confrontazione e la responsabilizzazione dei fantasmi inconsci e dei contenuti rimossi, laddove quello evolutivo poneva in primo piano il valore comunicativo del rapporto duale, l'esperienza affettiva e la costruzione dei significati che ne deriva. Si evidenziava pure l'insostenibilità teorica dell'utilizzazione di due eziologie diverse, quella conflittuale e quella dell'arresto evolutivo, per due psicopatologie diverse, la neurotica e la narcisistica. Infatti per i pazienti ''classici'' l'attività analitica doveva intendersi quella fondata sull'interpretazione verbale di ciò che accade nelle loro menti; per quelli più disturbati invece, dove il coinvolgimento sarebbe inevitabile, l'interpretazione rifletterebbe un evento relazionale, fatta salva, mediante l'indagine del controtransfert, la possibilità di scandagliare meglio il contributo rispettivo dei due partecipanti all'evento stesso. Vista in questo modo, la questione non riguardava più quale teoria eziologica fosse quella più soddisfacente né quale sistema interpretativo il più efficace, insomma quale terapia per quale paziente. Il problema si spostava invece sul piano epistemologico: che tipo di conoscenza assicura la p., di che natura sia l'attività di chi la esercita, a quali ''fatti'' essa approdi, dove questi vadano collocati nel dominio generale della conoscenza.
Secondo la prospettiva classica, che risente ancora dell'originaria impostazione positivistica, l'interpretazione è un enunciato sufficiente, compendiante una conoscenza derivata da una popolazione di casi e diretta a un mondo personale concluso nella mente del soggetto, la quale è il punto focale dello studio: una mente i cui elementi sono dati come ricostruibili dal momento che, per assunto, le determinanti motivazionali di un ambito d'esperienza, per numerose e complesse che siano, sono finite e specifiche, dunque rintracciabili, comunicabili e tali da condurre all'insight.
Nella seconda prospettiva, che è invece orientata da un presupposto sociocostruttivistico che si rivolge più olisticamente alla persona, quelle determinanti sono polisemiche, ambigue e filtrate dai limiti della narratività per cui l'interpretazione non può che cogliere la prospettiva del momento interattivo, il cui significato resta aperto. Qui la metafora archeologica dello scavo in profondità perde ogni senso, l'insight non è il traguardo, è soltanto un ''nuovo'' sempre destinato a rimettersi in discussione nella tappa successiva; la relazione è una joint venture piena d'incertezze in cui si oscilla di continuo in un moto immaginativo tra realtà e fantasia fino a giungere a significati che rappresentino una realtà coerente e condivisa.
Avviandosi su questa strada dove l'esperienza estetica della natura umana sopravanza quella razionale, la p. si arrende all'indeterminatezza dell'osservabile e non può più considerarsi come metodo d'indagine volto a giungere a proposizioni transculturali sulla natura umana ma tutt'al più come portavoce di formulazioni locali di atteggiamenti che riflettono l'andamento di una cultura. Un punto di vista che va assai d'accordo con molte tendenze affermatesi nel campo delle scienze umane, quali le nuove teorie letterarie, il programma della scuola delle ''Annales'', il costruttivismo sociologico, con la sua enfasi sul Sé ''distribuito'' nel contesto in cui si muove.
La corrente ermeneutica che si è raccolta attorno ai nomi di R. Schafer e D. Spence si inserisce perciò in una tendenza culturale che opta per un Sé che si organizza e trova la propria autonomia nelle strategie adottate nelle sue partecipazioni sociali. Poiché questa organizzazione non risiede soltanto nell'esperienza da comprendere ma anche nel modo di agire di chi la comprende, allora vi sono molti modi possibili di comprendere, tutti potenzialmente legittimi, fatto che è poi alla radice dell'ambiguità che caratterizza la nostra esistenza. Tutti passiamo la vita a riraccontarci, anche mentre dormiamo, e a stabilire un Sé al quale raccontare: ciò che fa la differenza è l'affidabilità e la competenza del narratore e dell'ascoltatore che sono in noi. Compito dell'analista è aiutare i pazienti a raccontare le loro storie e a riformularle così da rendere pensabile e possibile un cambiamento del loro porsi al mondo.
La maggioranza degli analisti però, pur riconoscendo che è contributo indelebile del pensiero freudiano quello di aver indicato la polisemia e la contraddittorietà della vita mentale, e adottato un metodo critico dell'intellegibilità della coscienza umana, respinge il divieto filosofico di poter raggiungere una realtà, preformata e unica, presente nel soggetto. L'inevitabilità dell'interferenza dell'osservatore e l'esistenza di più sistemi interpretativi che portano a ''verità'' diverse − essi rispondono − sono ostacoli insormontabili solo per la scienza quale la intendevano Freud e i suoi contemporanei. Oggi né crediamo più che il metodo analitico consenta di giungere a dati certi e inequivoci né che esso possa far da solo; la vasta disputa provocata in proposito da A. Grünbaum ha fatto chiarezza su questo punto. Del resto la p. oggi non possiede più l'esclusiva di postulare gli stati mentali inconsci come base esplicativa dei comportamenti: sia il funzionalismo mentale che la scienza cognitiva si articolano sull'elaborazione inconscia e sulle proprietà mentali ''emergenti'' come responsabili della coerenza dell'esperienza. Inoltre, la teoria dell'attaccamento, nata pur sempre dalla p., è giunta ai suoi positivi risultati nel campo della predittività umana in quanto partita dal presupposto, comune a Darwin e Freud, che ogni azione procede da una motivazione volta a uno scopo. J. Searles ha convincentemente osservato che, applicato all'uomo, questo presupposto dissolve la tradizionale incommensurabilità tra cause e motivi, tra psicologia dei meccanismi e psicologia dei significati, nel senso che i processi elettrochimici che sostanziano l'attività cerebrale sono inseriti nel contesto dei desideri, intenzioni e pensieri che da essi nascono e su di essi si riflettono. Allora la storia che emerge nel paziente di un trattamento analitico non può essere un racconto qualsiasi. Per quanto utile, coerente e credibile, essa dev'essere una storia che, senza pretendere di riferirsi all'inconoscibile, per es. all'esperienza soggettiva del bambino piccolo, è circoscritta nei limiti delle teorie corroborate da osservazioni sistematiche, provenienti sia dalla p. che da altri settori disciplinari.
La ricerca psicoanalitica attuale è diretta in questo senso, sia sul piano dei confronti sperimentali della Infant Research, sia nelle comparazioni tra i vari metodi di trattamento o con le analisi a più osservatori dei trascritti, interi e/o segmentati, degli eventi relazionali, sia nel metodico studio del processo di cambiamento. Tutto questo, insieme alle dispute sulla cui natura ci si è soffermati, spinge a concludere che anche nella cultura attuale, e non solo in quella di Freud, anche nell'attuale fase di transizione, e non solo in quella del tranquillo successo degli anni Cinquanta, la p. non cessa di essere la disciplina problematica, per sé e per gli altri, che è sempre stata.
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