Psichiatria
La psichiatria è il settore della medicina che ha per oggetto lo studio clinico e la terapia dei disturbi mentali e dei comportamenti patologici. Gli stati di sofferenza che la psichiatria prende in considerazione differiscono tra loro per origine, qualità, entità e durata delle manifestazioni: nel suo ambito d'interesse rientrano infatti sia gli stati che esprimono una compromissione delle facoltà intellettive, sia i processi che disgregano la personalità. La delimitazione nosografica delle singole forme morbose risulta particolarmente ardua per la frequente impossibilità di fare riferimento a dati di fatto sufficientemente incontrovertibili. Se questa labilità dei criteri discriminativi contribuisce a rendere la nosografia psichiatrica un problema aperto, la ricerca dei meccanismi eziopatogenetici si è sviluppata secondo due correnti fondamentali di studio, dando luogo sia a polemiche contrapposizioni sia a reciproche, fruttuose integrazioni: quella del determinismo biologico e quella dei dinamismi psichici, compresi i dinamismi suscitati da istanze di ordine sociale e culturale.
La persona 'mentalmente malata' non può in alcun modo essere identificata in toto con il suo substrato anatomofisiologico, sia esso noto o supposto. Fu il grande merito (e la grande illusione) della psichiatria della seconda metà dell'Ottocento identificare raggruppamenti costanti di sintomi (le sindromi), collegandoli in modo causale con specifici processi eziologici. Questo metodo 'clinico-nosografico', operante su basi rigorosamente empiriche e dovuto soprattutto all'immenso lavoro di E. Kraepelin (a ragione considerato come uno dei più grandi maestri della psichiatria clinica), è stato molto importante per il suo potenziale di identificazione e chiarificazione. Attualmente però lo stato della nostra esperienza clinica rende impossibile mantenersi aderenti all'impostazione clinico-nosografica sensu stricto, tanto meno ai suoi sviluppi estremi, per es. le nosografie di K. Kleist e di K. Leonhard, e a quelli successivi dei vari manuali diagnostici DSM-III-R e DSM-IV (American psychiatric association 1987, 1993).
Resta d'altra parte il fatto che un'eccessiva relativizzazione del criterio clinico-nosografico conduce o alla negazione di realtà cliniche diverse tra loro, per es. la realtà paranoide, quella melancolica, quella maniacale, com'è accaduto in certe posizioni estremistiche e nell'impostazione esclusivamente sociogenetica, oppure all'assunzione di presupposti teoretici fondati su analogie che solo parzialmente possono essere sostenute. Esempi del genere si ritrovano nella concezione 'organodinamica', che ha trovato in H. Ey il suo più geniale e colto sostenitore. In essa è evidente, e anche suggestiva, l'analogia con la dottrina di J.H. Jackson dei livelli neurologici basata sulla scomparsa di funzioni dipendenti da organizzazioni filogeneticamente più recenti, con conseguente liberazione di moduli funzionali più arcaici.
Questa teoria della struttura della psiche postula un movimento generante il passaggio evolutivo dall'infrastruttura organica alla sovrastruttura psichica, e sottolinea la prospettiva fondamentale secondo la quale la psiche ha uno sviluppo (genetico) e la sua organizzazione è gerarchica (dinamica) ai vari livelli dell'inconscio, dell'automatismo psicologico, della mente conscia, livelli che regrediscono nella malattia mentale. Ciò comporta:
1) la tesi psicologica che la malattia mentale è già implicata nell'organizzazione della psiche, con la ovvia, e ben giustificata, valorizzazione degli studi di psicologia genetica sullo sviluppo mentale del bambino (A. Freud, H. Wallon, J. Piaget) e degli studi sulla stratificazione strutturale della psiche;
2) la tesi fenomenologica che la struttura della malattia mentale è essenzialmente negativa o regressiva, dove la malattia viene intesa come rottura della comunicazione e delle relazioni necessarie per la comprensione interpersonale, con conseguente destrutturazione della realtà;
3) la tesi clinica che le malattie mentali (psicosi e nevrosi) sono forme tipiche di vari livelli di agenesia o di dissoluzione dell'organizzazione psichica;
4) la tesi eziopatogenetica che la malattia mentale dipende da processi organici, con la regressione intesa come causalità organodinamica e con una forte apertura sulle prospettive neuropsicologiche, per es. su quello che oggi viene designato come studio dei fattori cognitivi.
Il significato di quella che possiamo chiamare la teorizzazione positivista della psichiatria passa storicamente attraverso la dottrina della 'degenerazione' di B.A. Morel e la formulazione, da parte di V. Magnan, dello 'squilibrio mentale' (concepito come difetto d'armonia tra le diverse aree cerebrali) e del 'delirio cronico' sistematizzato, sulla cui evoluzione in demenza si fonderà nell'ultimo quarto del 19° secolo il pessimismo di fondo della psichiatria europea, come emerge dalla lettura dell'ancora affascinante Trattato delle malattie mentali (1914) dei due alienisti italiani E. Tanzi ed E. Lugaro. Il culmine si raggiungerà nell'opera di Kraepelin, espressione della psichiatria clinica per antonomasia, con il suo concetto di 'psicosi endogena', cioè di malattia mentale vera e propria, ben distinta dai disturbi nevrotici e caratteropatici, dalle noxae cerebrali acute e croniche, e dovuta a un quid proprio, appunto endogeno, tutto da precisare (v. anche psicosi). Kraepelin distinse due grandi gruppi di psicosi endogene: la psicosi maniaco-depressiva, caratterizzata da fasi più o meno prolungate di melancolia e di eccitamento euforico, intervallate da periodi più o meno lunghi di normalità, e la demenza precoce, che rappresentò a lungo il rebus e il nodo della psichiatria. La demenza precoce è costituita da un gruppo di decorsi e di sindromi (catatonia, ebefrenia, delirio paranoide), con grave compromissione dell'affettività e con evoluzione, in termini più o meno lunghi, in uno stato demenziale sui generis irreversibile.
La nozione di schizofrenia, elaborata da E. Bleuler nel 1911, parte dai concetti kraepeliniani, ma compie un passo teorico di importanza fondamentale sceverando, fra la congerie e il polimorfismo dei sintomi e la varietà infinita delle esperienze deliranti, il 'disturbo fondamentale' (Grundstörung), da cui tutto il resto dipende e psicosemiogeneticamente deriva: l'autismo, cioè il disinteresse per il reale e il ripiegamento in sé stessi, con chiusura al rapporto interpersonale o sua deformazione, dissociazione fra idee e affettività, fra il proprio mondo interiore e il reale, delirio come interpretazione erronea o come nuovo significato della realtà vissuta su parametri non condivisi, alieni. La concezione di Bleuler, che ha dominato per decenni ed è tuttora molto seguita, ha avuto il merito di indurre ad analisi psicopatologiche meno legate al rilievo del sintomo e più puntate verso il 'dietro la facciata', con un enorme arricchimento di comprensione, ma ha di fatto ipostatizzato la malattia mentale con la riuscitissima scelta del nome, schizofrenia, rafforzando, anche al di là delle intenzioni, la tendenza al nosografismo naturalistico e testimoniando della "forza trainante anche ideologica che le parole hanno in sé come portatrici di significati e valori altri da quello che è l'orizzonte intenzionale che le ha generate" (Borgna 1992, p. 97). Inoltre la maggior parte degli studi di alienistica dell'epoca venne condotta su malati ricoverati nei manicomi, per cui alcuni sintomi 'cronici' potevano esser più frutto di istituzionalizzazione che dato naturale della patologia mentale.
Le esperienze provenienti dalla sempre più diffusa demanicomializzazione potranno dire fra alcuni anni qualcosa di più preciso in proposito - fatta la debita tara per gli effetti dovuti ai migliorati mezzi terapeutici -, testimoniando così sulla possibilità patogena o destrutturante di certe situazioni ambientali di sensory deprivation, di isolamento, di monotonia.
Questi apporti fondamentali allo studio della psicopatologia delle psicosi maggiori, nonché gli approcci clinici e dottrinari alle nevrosi, consentono di considerare come nucleo centrale del grande campo psicotico le schizofrenie genuine (senza sintomi somatici specifici e senza scatenamenti psicogeni circoscritti, con prevalenza di fattori genetici e di sovraccarichi biografici) e di costellare questo nucleo con le schizofrenie sintomatiche (nei processi cerebralorganici), con il tipo acuto esogeno di reazione, a sintomatologia schizofrenosimile (alcune psicosi alcoliche, nonché la psicosi da amine simpaticomimetiche e da dietilammide dell'acido lisergico e da altri allucinogeni), con le psicosindromi endocrine schizofreniformi, con le cosiddette schizofrenie reattive, con le psicosi atipiche, con le frequenti sindromi schizoaffettive e, soprattutto, con le schizofrenie pseudonevrotiche o borderline.
Quest'ultimo è il gruppo di gran lunga più importante sia in pratica sia per le implicazioni teoriche, ed è stato oggetto di indagini cliniche, psicodinamiche, genetiche, specie da parte delle scuole statunitensi (Kernberg 1975; Paris 1996). La distinzione di fondo fra psicosi, nevrosi e personalità psicopatiche si è imposta ovunque, ma spesso con notevoli differenze, generatrici di equivoci diagnostici, assai evidenti. Nell'ultimo decennio è apparso necessario ovviare a tale grave inconveniente: estremamente importante a tal fine è il Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM), sintesi di un accurato e prolungato lavoro di coordinazione e di valutazione critica di dati. A questo importantissimo manuale fa riscontro, con qualche piccola modifica e in stesura più succinta, il glossario pubblicato dall'Organizzazione mondiale della sanità (ICD, International classification of mental and behavioural disorders).
La terza e quarta revisione del DSM hanno comportato anni di intenso lavoro da parte di un gruppo di studiosi coordinato da R.L. Spitzer. Il manuale, oggi disponibile in tutte le principali lingue per uniformare gradualmente i criteri diagnostici nei diversi paesi, ha determinato un notevole cambiamento nell'impostazione diagnostico-clinica, specie nell'America Settentrionale, soprattutto per quanto concerne la diagnosi di schizofrenia; è tuttavia attualmente oggetto di numerose critiche per il suo eccessivo riduzionismo tassonomico e nosografico. Forse il tratto più significativo dell'approccio del DSM ai disturbi mentali gravi è la chiara e netta distinzione tra la fase psicotica florida e la fase molto più prolungata in cui predominano i sintomi latenti, cronici, residui e i cosiddetti sintomi di base (Klosterkötter 1988).
La differenziazione esplicita di questi stadi non floridi è di grande aiuto per focalizzare l'attenzione sul problema complesso della ricerca di un equilibrio tra la necessità di mantenere un trattamento farmacologico e la necessità di un più sostanziale approccio psicosociale, ivi incluse le psicoterapie, la riabilitazione, la sollecitazione verso esperienze sociali strutturanti, la creazione di un sistema di sostegni familiari e comunitari. In altri termini, la psicopatologia non è restata soltanto ancorata allo studio descrittivo e genetico (psicopatogenetico e psicosemiogenetico) dei sintomi, peraltro ancora molto fecondo: si pensi agli orizzonti aperti dallo studio fenomenico delle esperienze di depersonalizzazione, di 'fine del mondo', di perplessità, della disposizione d'animo al delirio (Di Petta 1999).
Essa ha anche allargato il suo campo di ricerca, utilizzando diversi tipi di approccio forniti tanto dalle scienze biologiche quanto da quelle antropologiche, con risonanze profonde nella valutazione (clinica e culturale) del sintomo, nell'ordinamento delle sindromi, nella critica della scarsa flessibilità delle nosologie tradizionali sottoposte a revisioni sovente radicali. Tutto ciò è stato reso possibile soprattutto dall'accumularsi di dati obiettivi della più diversa provenienza, dalla neurochimica cerebrale alla psicoetnologia, dall'elettrofisiologia all'antropologia, dalla cibernetica alle scienze religiose e morali.
Proprio questa situazione ricca, sfaccettata, dinamica della psicopatologia attuale ci consente di considerarla a pieno titolo ancora l'asse portante di tutte le discipline psichiatriche. La psicofarmacologia (v. psicofarmaci), in costante sviluppo, ha soppiantato le altre terapie, provocando in modo quasi specifico la scomparsa dei sintomi più gravi e apportando miglioramenti anche nella cura dei casi cronici. Negli ultimi anni del 20° secolo si è tuttavia assistito a una generalizzazione eccessiva dell'uso degli psicofarmaci (si è parlato, e a ragione, di contenzione farmacologica, di lobotomia chimica) con somministrazioni inadeguate e indiscriminate, come è accaduto anche per l'elettroshock, pure al di fuori delle istituzioni; per non parlare della diffusione degli ansiolitici e degli ipnotici. Si ha l'impressione che il poter disporre di tali efficaci farmaci abbia determinato non di rado un diminuito approfondimento dell'indagine psicopatologica del singolo, non sufficientemente compensata dallo studio biochimico dei processi psicofarmacologici e dei meccanismi d'azione delle varie sostanze psico- e neurotrope. Ma un'altra terapia, ancor prima di quella chimica, aveva cominciato ad annunciare nei primi decenni del secolo le sue ricche possibilità psichiatriche: la psicoanalisi.
Prospettatasi dapprima come metodo interpretativo e terapeutico delle nevrosi, la psicoanalisi, specie dopo gli scritti freudiani del secondo periodo, ha proposto una concezione generale dello sviluppo dell'essere umano, non solo del suo comportamento normale e nevrotico, ma anche dei suoi aspetti più alienanti (psicotici), consentendone la comprensione genetica basata sulla regressione a stadi precoci, libidici e oggettuali, che fanno parte dell'evoluzione di ognuno. Si può dire, anche in questo caso, che le ambizioni sono state (e forse sono ancora) eccessive, specie nel campo delle psicosi, dove pure non sono mancati contributi pregevoli; tuttavia si è assistito, soprattutto negli ultimi vent'anni del 20° secolo, a un moltiplicarsi di impostazioni teoretiche e di metodiche pratiche di ispirazione fondamentalmente psicoanalitica o, più genericamente, psicodinamica (di coppia, di famiglia, di gruppo) e di decondizionamento comportamentale.
Accanto agli innegabili vantaggi, come è accaduto per la farmacologia, si sono verificate generalizzazioni indebite e pratiche indiscriminate, favorite anche da movimenti culturali e ideologici non sempre metodologicamente corretti, a volte francamente esagerati o, perlomeno dal punto di vista terapeutico, ingiustificati. Da quanto accennato, si vede come la psichiatria clinica stia avviandosi verso una singolare trasformazione del suo campo, che si apre sempre più alle istanze culturali e sociali, con una notevole tendenza all'aspecificità e al paradosso: accanto alla tendenza a minimizzare l'apporto della psicopatologia c'è quella a estendere indebitamente il campo psichiatrico, con il pericolo di smarrire il limite fra psicologia e psicopatologia. Si tende a negare la patologia dello schizofrenico e magari si psichiatrizzano il bimbo che non ha voglia di studiare e la sua famiglia.
Rappresenta un ambito di fondamentale importanza teorica e pratica, collegato direttamente a quel vasto settore della clinica psichiatrica che studia e cura le numerosissime e frequenti sindromi psicopatologiche dipendenti da alterazioni anatomiche o funzionali del sistema nervoso centrale. Questa branca della psichiatria, di stampo prettamente medico, trae i suoi argomenti dall'anatomia e istologia patologiche (di cui è ben noto il contributo sostanziale allo studio degli stati demenziali, dei disturbi psichici conseguenti ai traumi cranici, alle intossicazioni, alle malattie infiammatorie e degenerative, ai tumori, all'epilessia), dagli effetti delle chemioterapie, dai risultati della neurochirurgia, da diversi dati della genetica e dai modelli generali forniti dalla neurofisiologia e dalla neurochimica, specie dei neurotrasmettitori e dei neurormoni. È un capitolo destinato a un'ulteriore, rapida espansione in rapporto all'estendersi delle conoscenze medico-biologiche e all'approfondirsi delle indagini sui legami tra eventi mentali ed eventi fisici nel sistema nervoso centrale, legami che, malgrado gli enormi progressi compiuti negli ultimi decenni, siamo ancora lungi dall'aver compreso (Moravia 1986).
Anche in questa vasta branca della psichiatria si rivela non solo utile ma necessario lo studio dell'ambiente ecologico, psicosociale e culturale in cui la persona si forma e lavora. Per es., lo studio dell'influenza di noxae genetiche e cognitive sullo sviluppo dell'apprendimento e sulla maturazione della persona, nonché sul rischio, più o meno elevato e prevedibile, di malattia mentale. Si sono accumulate prove precise e convincenti circa le modificazioni e le predisposizioni biologiche nel campo delle psicosi maggiori (maniaco-depressive e schizofreniche), cercandone la correlazione con le determinanti psicodinamiche e sociali, predisponenti e scatenanti, con la disturbata vita familiare, con la privazione di esperienze essenziali per le fasi critiche di maturazione (Lishman 1978).
L'apporto delle indagini psicologiche e psichiatriche effettuate sugli animali non può essere trascurato, in quanto si è rivelato molto fecondo, sia pure evidenziando il rischio sempre incombente della generalizzazione analogica: in tal senso è possibile parlare di una fiorente 'psichiatria sperimentale'. L'analisi dei substrati biochimici in rapporto alle risposte differenziate allo stress e dei substrati biofisiologici per i processi di fissazione e di regressione e per i processi mnemonici e di apprendimento, gli studi sui ritmi, le recenti prospettive aperte dalle indagini sulle relazioni tra esperienza di deprivazione sensoriale e diminuzione del fattore dell'accrescimento nervoso consentono di intravedere prima, e precisare poi, correlazioni neuropsicologiche di estremo interesse, che sono documentabili fin dai primi mesi di vita extrauterina. Lo studio delle correlazioni mente/cervello e mente/persona costituirà la base scientifica della futura psichiatria, il fondamento della sua prassi, anche di quella maggiormente ancorata alla realtà sociale e storica dell'uomo.
Negli ultimi decenni del 20° secolo l'indirizzo fenomenologico ha lentamente condotto a una riformulazione globale delle tematiche di fondo della psichiatria e a un modo radicalmente diverso di essere psichiatri, sia di fronte al sintomo sia di fronte alla persona che lo esprime. Vi è stato un vero e proprio salto di qualità: il superamento delle categorie riduttive biologistiche e psicologistiche; l'accesso al mondo dell'altro-da-sé, al mondo-della-vita (l'husserliana Lebenswelt), all'universo dei rapporti interpersonali come coessenziali alla realtà del singolo, prescindendo da giudizi clinici e da funzionalità operative.
Tale approccio non intende invalidare né le categorie diagnostiche né l'atto clinico, purché con essi non si pretenda di cogliere l'altro nella sua realtà esistenziale. La psichiatria dell'esistenza si considera l'ancella della psichiatria clinica e intende a buon diritto rappresentare un sostegno reale della scienza medica psichiatrica (Binswanger 1942), senza voler con ciò costituire la base gnoseologica dell'intero conoscere psichiatrico; oltre all'organicità, si pensi alla portata conoscitiva dell'inconscio e all'influenza della cultura (Borgna 1992). Il fenomenologo, anche in psichiatria, si sforza di mettere fra parentesi la preoccupazione eziopatogenetica e il bisogno dell'ordinamento nosologico per poter entrare liberamente e senza impedimenta in un immediato rapporto cognitivo-patico con le 'cose'.
La ricchezza qualitativa dell'atto fenomenologico, indipendente dalla conoscenza induttiva e causale, è indubbia, e si comprende come gli aspetti più originali della contestazione psichiatrica (Basaglia 1968) abbiano preso le loro mosse proprio da qui. K. Jaspers fu, specie nella Psicologia delle visioni del mondo (1919), uno dei grandi precursori di questa psichiatria, e la sua Psicopatologia generale (1913), pietra d'angolo della moderna psico(pato)logia, ha educato almeno tre generazioni di psichiatri, contribuendo a preparare il terreno alla numerosa schiera di psicopatologi destinati a recepire e maturare l'influenza di E. Husserl e di M. Heidegger.
Come ha mostrato L. Binswanger, il metodo fenomenologico favorisce in modo davvero singolare la ricostruzione e la comprensione del 'mondo di significato' del paziente. Esso consente il recupero del dispiegarsi intenzionale della vicenda del singolo e una continuità di senso delle sue vicissitudini, cioè un ordinamento strutturale significativo anche là dove lo psichiatra vecchio stampo vedrebbe solo frammenti di senso o addirittura il caos del senso. La messa in parentesi (non la negazione) del naturalismo psichiatrico comporta anzitutto un 'voto di povertà' in materia di classificazioni e di giudizi diagnostici, proprio sulla base della dipendenza del giudizio da criteri esistentivi e culturali.
La diffusione della psichiatria antropofenomenologica, della cosiddetta analisi esistenziale, ha consentito un accesso illuminante a tematiche di solito lasciate ai margini della ricerca psicopatologica e psichiatrica (quali, per es., il coraggio, la solitudine, l'attesa, la speranza, la morte) e ha consentito anche l'approfondimento di tematiche (quali, per es., la colpa, la corporeità, il tempo e lo spazio vissuti, la donazione di senso, la perplessità) colte in precedenza in senso prevalentemente oggettivante. Uno degli ambiti più fecondi dell'indirizzo fenomenologico in psichiatria è quello costituito dall'indagine dei diversi mondi di vita (Lebenswelt), che tanto impegnò l'ultimo Husserl e, subito dopo, A. Schutz per il problema della social reality. L'analisi fenomenologica dei mondi vissuti (Callieri 1985) rivela stili diversi di esistenza e illumina di luce nuova modalità di esperire (anche tradizionalmente psicopatologiche, per es. fobiche, maniacali, schizofreniche) quanto mai autentiche e ricche di rimandi al quotidiano piano coesistentivo. Per questo l'antropologia fenomenologica è una premessa indispensabile per ogni psichiatra che nella sua attività intenda occuparsi dell'uomo-nel-suo-mondo e, soprattutto (come è ben mostrato da A. Tatossian e dalla sua scuola di Marsiglia) dell'uomo psicotico nel suo mondo.
a) Psichiatria e sociologia. Da alcuni decenni ha assunto dimensioni sempre maggiori l'indirizzo sociopsichiatrico, il quale si occupa del singolo nel suo rapporto interattivo con gli altri soggetti (a livello micro- e macrogruppale). È possibile rinvenirne le origini in due filoni, quello sociologico di É. Durkheim e quello intersoggettivo di G. Tarde (Callieri-Frighi 1963), il vasto campo di ricerca che trova nell'antropologia culturale le sue più dirette implicazioni e sollecitazioni psicologiche; qui per 'cultura' si intende l'insieme dialettico dei patrimoni psichici esperienziali individuali che si sono costituiti nel quadro di una società storicamente determinata (conoscenze, credenze, fantasie, ideologie, simboli, schemi di attività, scale di valori ecc.).
I concetti di status, di ruolo, di acculturazione, di socializzazione sono stati profondamente (ma non univocamente) recepiti dagli psichiatri. Si è mostrato che la sociologia è in grado di fornire alla psichiatria un valido aiuto per la comprensione e la classificazione degli stati psichici e dei comportamenti (anche abnormi o devianti) grazie alla reciprocità delle prospettive d'indagine: il collettivo, l'interpersonale e l'individuale, a tutti i livelli degli atteggiamenti e delle realtà sociali, tendono a integrarsi. La psichiatria sociale oggi sembra comunque aver superato l'errore di voler assorbire tutto il mentale nei piani della realtà sociale, dimenticando l'autonoma corrente dello psichismo individuale e cadendo così nell'errore di attribuire esclusivamente alla società l'origine della malattia mentale, quella che Th.W. Adorno ha chiamato 'l'ideologia dell'empirismo sociologico'. Non va infine dimenticato il grande merito di aver valorizzato lo studio epidemiologico e soprattutto lo studio della comunicazione e metacomunicazione fra singoli e fra gruppi, verbale e non verbale (Callieri-Frighi 1963), tanto importante per le ricerche sulla psicogenesi intrafamiliare dei disturbi psichici (si pensi al 'doppio legame', la situazione paradossale ben descritta e indagata dalla scuola californiana di Palo Alto).
Un settore particolare della sociopsichiatria con finalità soprattutto preventive, ma caratterizzato anche da indubbi connotati terapeutici, è costituito dalla cosiddetta psichiatria di comunità. Essa si occupa della formulazione e dell'applicazione di un definito programma di salute mentale a una data popolazione specificata funzionalmente o geograficamente (Paris 1996). Pur basandosi sul modello medico, la psichiatria di comunità utilizza volentieri criteri di salute pubblica per valutare i bisogni psichiatrici di una data popolazione, per identificare i fattori ambientali che contribuiscono alla formazione di disturbi psicosociali e per esaminarne gli effetti sul singolo e sul suo gruppo. Questo modo di vedere determina una concezione molto diversa della malattia e del ruolo della psichiatria, il cui intervento non è più centrato tanto sulla salute del singolo (primariamente assunta) quanto sull'equilibrio del gruppo. È possibile parlare di una vera e propria 'psichiatria preventiva' (Handbook of psychiatry 1982-85), attualmente molto sviluppata nei suoi assunti teorici di base e nelle sue applicazioni pratiche, come per es. la prevenzione del suicidio e degli sviluppi nevrotici a condizionamento ambientale.
Le tecniche della psichiatria di comunità non sono specifiche né originali. Non è ignorata l'importanza dei fattori intrapsichici, tuttavia l'accento viene posto sulle dinamiche di gruppo e sui fattori interpersonali, culturali e ambientali, perfino etnici, che generano, intensificano e prolungano i vari quadri di disadattamento comportamentale. È tuttavia difficile prevedere quale sarà lo statuto di questa ancor giovane community psychiatry: se si inscriverà nell'evoluzione generale del ruolo del medico, o se piuttosto si limiterà all'erogazione di migliori servizi clinici, spostandoli dai luoghi istituzionali a quelli comunitari.
b) Psichiatria e antropologia culturale. Negli ultimi decenni si è pervenuti a un'integrazione dei diversi tipi di indagine della sociologia e dell'antropologia culturale che si realizza in modo abbastanza autonomo in quello che possiamo chiamare approccio psicoculturale, inteso come studio della personalità nel suo ambiente culturale; si possono così meglio comprendere lo sviluppo della personalità e la struttura del carattere e si possono cogliere anche più compiutamente gli aspetti, a volte polimorfi, dell'ordinamento sociale.
È evidente, data la multiformità delle situazioni culturali, l'importanza attribuibile al relativismo culturale nel modellare le diversità dei tipi di comportamento e nello sviluppare quella che da R. Linton e da A. Kardiner è detta 'struttura di base della personalità', cioè il fondo comune al gruppo dei modelli di pensare, sentire, agire, di porsi e risolvere problemi personali e sociali. È ovvia l'importanza dell'approccio psicoculturale per lo studio della funzione della famiglia, dello sviluppo psicologico del bambino, delle sue reazioni affettive alle differenti esigenze dei genitori e dell'ambiente, per lo studio cioè dell'influenza dominante del tipo di socializzazione e della trasmissione del comportamento nevrotico.
Non solo, ma si possono in tal modo meglio comprendere certi tipi di reazione (per es., di gelosia e aggressività) culturalmente determinati e accettati molto diversamente nei vari setting culturali di vita che pongono complessi problemi di intolleranza e di acculturazione (si pensi, per es., all'importanza dell'indagine psicoculturale per le emergenze psichiatriche negli emigranti). Oltre a ciò, le indagini transculturali sono suscettibili di illuminare efficacemente gli studi psicopatologici sulle nevrosi e sulle psicosi. Non per nulla già Kraepelin aveva indicato ai suoi allievi questa via di ricerca.
La psichiatria è senza dubbio fra le tante discipline mediche e psicosociali quella che ha più punti di contatto con l'universo giuridico. Lo stato mentale di chi ha stipulato un contratto, redatto un testamento, celebrato un matrimonio, commesso un crimine, subito un trauma cranico o violenze, implica inevitabilmente il parere del consulente tecnico, cioè dello psichiatra, alla cui formulazione egli (se richiesto) è tenuto per legge. Gli ambiti dell'attività psichiatrico-forense sono andati sempre più espandendosi, anche per la tendenza giuridica ad avvalersi più spesso della consulenza tecnica (per es., nelle questioni relative ai minori e al diritto di famiglia).
L'incapacità di agire, l'incapacità legale, quella naturale, quella giudiziale, l'interdizione, l'inabilitazione, l'infermità o la malattia, l'incapacità di intendere o di volere, come pure la pericolosità sociale e l'affidamento, hanno da sempre costituito e costituiscono tuttora altrettanti capitoli di grande importanza applicativa. Tuttavia i profondi mutamenti sociali intervenuti negli ultimi trent'anni del 20° secolo hanno reso inadeguati taluni disposti che, con le loro conseguenze pratiche, possono provocare sindromi di disadattamento o disturbare il riadattamento sociale di disadattati, specie se minori (Fornari 1997).
Una delle più importanti questioni di principio che coinvolge sul terreno legale la psichiatria, costringendola ad assumere inevitabilmente un connotato giuridico di frequente oltremodo impegnativo, è quella relativa ai trattamenti sanitari obbligatori (TSO). Questa prassi non può non coinvolgere appieno il rapporto fra operatore psichiatrico e operatore del diritto, con numerosi riflessi pratici, di rado chiaramente ordinati, spesso quasi anomici o comunque perlopiù criticabili, sia per le modalità sia per i tempi consentiti. Lo psichiatra forense è stato ed è ancora chiamato in causa per tutti quei soggetti che sono stati condannati per crimini ma, su suo parere, sono stati riconosciuti o considerati 'malati'. Qui l'istituzione carceraria lombrosianamente trapassava, e trapassa tuttora, nel manicomio criminale, secondo un'inesorabile logica di esclusione spesso tanto inumana quanto assurda, logica che non è stata toccata dalla riforma del maggio 1978. L'ospedale psichiatrico giudiziario resta, e anche peggiorato, perché la riforma ha ridotto la possibilità di revoca anticipata delle misure di sicurezza ai cosiddetti prosciolti folli mediante la dichiarata cessazione della pericolosità sociale e il contemporaneo invio del soggetto (se realmente ammalato) in ospedale psichiatrico (v. ospedale).
È la cattiva coscienza della psichiatria, necessaria perché la conoscenza non divenga cattiva. In realtà le vicende dell'antipsichiatria sono - per usare un'espressione di G.W.F. Hegel - assai più note che conosciute. L'inizio londinese negli anni Sessanta del 20° secolo, che si delinea con la psicosociogenesi della follia aprendo il discorso della psichiatria 'radicale', esprime in realtà una crisi e compiutamente la rappresenta, quando da un lato si pone contro la violenza della psichiatria intesa come strumento di repressione sociale e dall'altro crede profondamente nella forza del determinismo costrittivo dell'organizzazione sociale. La critica della psichiatria classica è tutt'altro che eccentrica o meramente ideologizzante: essa denuncia chiaramente i termini delle sue contraddizioni, richiamando la potenziale conflittualità del rapporto società e individuo (Cooper 1967).
Il comune denominatore delle diverse contestazioni, delle scelte di difendere il folle contro la società, della ricerca di uno spazio nuovo per la follia, è, a parere di chi scrive, profondamente clinico, nel senso proprio del termine: è infatti più facile parlare di psicosi (classificando in senso tassonomico) quando non si è disposti a lasciare parlare lo psicotico (riducendo al minimo l'accostamento dialogico). L'invito a cambiare radicalmente modello, facilitato e sollecitato dalla scissione fra natura ed esistenza in atto da molto tempo in psichiatria, fu formulato da R.D. Laing, D. Cooper e A. Esterson, con la fondazione della Kingsley hall e di altri centri chiamati 'comuni' (households), dove era assente ogni tratto istituzionale, ruolo, terapia, regola di vita, in modo che il singolo potesse vivere appieno la sua metanoia, la sua crisi di trasformazione.
In Italia, F. Basaglia, partendo nel 1965 dal piccolo manicomio di Gorizia ma, ancor prima, dalla fenomenologia esistenziale, riuscì a coagulare attorno al suo progetto anti-istituzionale energie riformatrici e rivoluzionarie invero notevoli, costituendo con numerosi psichiatri e con il movimento di Psichiatria democratica la premessa che in pochi anni condusse alla riforma della legislazione psichiatrica (1978); fra entusiasmi accesi e critiche aspre, fra perplessità e ostilità, adesioni critiche oppure incondizionate, Basaglia riuscì a imprimere uno scossone salutare alla sonnecchiante e torpida psichiatria italiana. Il polimorfo movimento psichiatrico francese già da molti anni aveva preceduto il discorso anglosassone, forse anche superandolo e integrandolo fino al punto in cui le esigenze della pratica (non della prassi) stabiliscono un limite.
È tuttavia l'opera di Esterson (soprattutto Esterson 1970) che assunse grande importanza per le sue dimensioni autenticamente fenomenologiche e sociopsichiatriche. Ecco allora che acquista una rilevanza centrale l'insistere di H. Marcuse sul 'diritto naturale alla rivolta', il nonsenso del parlare di reificazione e alienazione fuori del punto di vista della soggettività, ossia della coscienza della propria situazione esistenziale. Ed ecco, infine, la domanda di fondo, anch'essa marcusiana, che permea di sé tutti i molteplici movimenti antipsichiatrici e li lega a una contraddizione forse irresolubile: è possibile, e come, tenere insieme i due poli della tensione, liberazione e progetto, liberazione dal mito della malattia mentale (Szasz 1961) e progetto terapeutico?
Va dunque (paradossalmente) ricercato proprio nell'antropofenomenologia, teoreticamente ateorica, nella fenomenologia di derivazione husserliana e nell'analisi esistenziale heideggeriana di Binswanger il nucleo della psichiatria radicale, polo estremo di quella tensione oppositiva tra natura ed esistenza di cui la psichiatria ha ormai preso piena coscienza. L'obbligatorietà della cura durante la crisi acuta conduce il soggetto alla cronicità; qui l'antipsichiatria si fa anche progetto politico che denuncia il ruolo repressivo delegato dalla società e dalla famiglia allo psichiatra, ruolo fondato ideologicamente sul sapere medico.
L'oggettivazione del malato (parlare di psicosi) conduce a trascurare il suo discorso (non lasciar parlare la psicosi), che non è solo sprofondamento (breakdown), cioè crollo delle usuali categorie di comunicazione, ma anche penetrazione (break-through), cioè illuminazioni improvvise di squarci di irrazionalità. Negli Stati Uniti, a parte l'ingenuità e la paradossalità di certe posizioni, va riconosciuta un'indubbia utilità alla contestazione che è mossa dalla radical psychiatry, in quanto essa è riuscita a provocare un esame più approfondito delle posizioni dell'establishment psichiatrico e a correggerne molti errori. Attualmente l'antipsichiatria appare a molti votata all'insuccesso, o meglio, destinata a sboccare in una nuova forma di psichiatria. Considerare lo psichiatra, per sua propria natura, un aiuto-poliziotto, un sadico, un ciarlatano, non giova né al suo difficile e spesso frustrante lavoro né al paziente.
Recentemente è cresciuto l'interesse per gli aspetti di rilevanza etica nel campo della salute mentale. Stanno sempre più emergendo, come esigenze di indagine, le nuove professionalità dello psichiatra, gli impegnativi compiti della deistituzionalizzazione, la psicogeriatria, gli usi impropri della psichiatria. Prevale negli studi la sensibilità rivolta agli interessi e alle necessità dello psichiatra nell'esercizio della sua pratica: ineludibile, fra tutti, il compito di valutare lo stato mentale di un'altra persona per decidere se privarla della libertà nell'interesse della sua salute mentale. Dal campo strettamente concernente la sofferenza del paziente, la sua patologia, a quello delle dissonanze culturali e del coinvolgimento di mete sociali fondamentali, i problemi che interessano lo psichiatra sono molti e ricchi di implicazioni spesso fortemente contrastanti.
Sono qui da ricordare le tematiche legate alla manipolazione fisica del cervello (psicochirurgia) e alle tecniche di condizionamento, gli aspetti della terapia sessuale e il delicato campo della sessualità nel rapporto paziente-terapeuta, il capitolo sul trattamento dell'omosessualità e del transessualismo, quello relativo alla pedofilia, e, soprattutto, la vasta e difficile tematica concernente il cosiddetto consenso informato. Ampia è l'attenzione rivolta all'utilizzo di farmaci che sopprimono la libido nei sexual offenders e alla delicatissima questione della deprofessionalizzazione dei servizi di salute, come pure fondamentali sono le implicazioni etiche del trattamento coatto della malattia mentale (Psychiatric ethics 1981). Si fa più forte la consapevolezza della carenza di specificità del codice etico, mentre cresce la complessità di ogni normativa.
Numerosi e pressanti sono i problemi afferenti al segreto professionale, specie nell'attuale organizzazione sociolavorativa e assicurativa, al trattamento dei pazienti socialmente pericolosi, alle dimensioni etiche della psichiatria infantile, della psicogeriatria, della 'morte dignitosa' e, soprattutto, della psichiatria forense.
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