Psiche
L'etimologia del termine psiche (dal greco ψυχή, connesso con ψύχω, "respirare, soffiare") si riconduce all'idea del 'soffio', cioè del respiro vitale; presso i greci designava l'anima in quanto originariamente identificata con quel respiro; in questo senso, la storia del concetto di psiche viene a coincidere con quella del concetto di anima. Nella psicologia moderna (e anche nell'uso comune) la psiche è intesa come il complesso delle funzioni e dei processi che danno all'individuo esperienza di sé e del mondo e che ne informano il comportamento.
l. Psiche e soma
"I confini dell'anima (ψυχή) non li potrai trovare - afferma Eraclito - quando pur li cercassi per ogni via, tanto profondo è il suo λόγος". Tale profondità è forse la caratteristica che più distingue, nel pensiero filosofico greco, l'essenza dell'anima da ciò che invece viene riferito al corpo e alla materia, contraddistinti, al contrario, dalla categoria del limite. La differenziazione tra corpo e anima affonda le proprie radici negli albori della cultura dell'Occidente se, già in Omero, ψυχή viene considerata come l'alito vitale che spira dalla bocca (oppure dalla ferita) di colui che muore per unirsi agli altri fantasmi (immagini dei defunti) nel regno di Ade. Si può notare ancora, sempre nel linguaggio omerico, come anche gli organi del corpo vengano descritti separatamente e non come parti di un tutto che li unifica. La parola σῶμα, infatti, che si riferisce all'intero corpo, lo definisce in quanto privo di vita. Così anche le funzioni psichiche vengono considerate come distinte in ψυχή, appunto, θύμος, "emozioni", e νοῦς, "intelletto" (Snell 1946).
Tale molteplicità delle funzioni viene ricondotta da Platone a un'unitarietà sotto forma di un principio, chiamato sempre ψυχή, cui si attribuisce tuttavia non più il significato di soffio collegato a un corpo vivente (da cui può appunto allontanarsi con la morte), ma di essenza trascendente il corpo stesso (e quindi da allora tradotto come anima) in quanto partecipe di una realtà sovramondana solo temporaneamente imprigionata nei limiti della corporeità. Nel Fedone Platone osserva, che fino a quando noi siamo in possesso del corpo e la nostra anima resta 'invischiata in un animale siffatto', non raggiungeremo mai ciò che 'ardentemente desideriamo', ossia la verità.
Tale scissione ontologica dell'anima dal corpo attraversa tutta la storia dell'Occidente dal momento che la concezione platonica finisce per assorbire, nella visione cristiana (e in particolare paolina), il principio ebraico per il quale il male non è nel corpo ma nella separazione dell'uomo da Dio, identificando, per citare la ricostruzione fattane da U. Galimberti (1979, p. 95), ruah (spirito divino) con l'anima, in quanto partecipe dell'essenza immateriale divina, e nefes (indigenza) con lo stato di limite e di bisogno collegato alla realtà corporea.
Ben diversa è la posizione di Aristotele, per il quale - nel trattato De anima appunto - non si può parlare di un'esistenza della stessa in quanto separata dal corpo, dal momento in cui tutte le sue affezioni (coraggio, dolcezza, audacia ecc.) si producono come fenomeni collegati al corpo e alle sue modificazioni. Delle molteplici accezioni attribuite dal filosofo alla ψυχή (principio vitale del corpo, principio della sua possibilità di movimento e di realizzazione) particolarmente interessante appare quella che la identifica come forma del corpo (μορϕή σώματος), un principio cioè che implica la corporeità stessa da cui promana e che nello stesso tempo la trascende come elemento unificante e significante.
Ψυχή è quindi la forma di un corpo vivente, il principio che ne sottende tutte le attività e, in quanto 'atto primario', è inscindibile dal corpo, contrariamente al νοῦς che, in quanto puro intelletto, può concepirsi come distinto da questo e di carattere sovrapersonale. È interessante osservare infatti come questa singolare parola, psiche, evochi tuttora nelle nostre menti tutta la pregnanza dell'eterno quesito che a essa si associa: la stessa rappresenta infatti il 'complesso' delle funzioni psicologiche degli individui, come si può leggere nei vocabolari, ma anche quel principio, pur connesso al corpo vivente, che in qualche modo se ne distingue fino ad assumere (o a dare l'impressione che così sia) una propria autonomia dallo stesso. La dialettica tra queste due impostazioni, quella monistica che concepisce la psiche come espressione mentale della realtà corporea e quella dualistica che la concepisce al contrario come entità collegata ma pur concettualmente distinta dal corpo stesso, rappresenta il fulcro del dibattito filosofico e scientifico più acceso sui temi della conoscenza e dell'identità dell'essere umano (Di Francesco 1996).
Da quando l'uomo ha preso a interrogarsi su sé stesso si è confrontato con il quesito relativo al dove risiedesse la sede della propria identità e della capacità di pensare, e al come potessero operarsi le meraviglie dei propri processi di pensiero. Le risposte a tali complessi interrogativi si sono evolute generalmente in collegamento con altri modelli funzionali che via via l'uomo andava scoprendo. Solo per restare nella tradizione dell'Occidente, ci imbattiamo in un vizio di partenza relativo a un errore compiuto da Aristotele il quale, osservando come una gallina fosse in grado di muoversi e di camminare pur essendo stata decapitata, ne arguì che la sede più importante del principio vitale non fosse il cervello ma il cuore. L'autorevolezza del filosofo sopravvisse sotto diverse forme sino in età prescientifica, nonostante le argomentazioni assai più consistenti di Galeno fondate su esperimenti di compressione del cervello in animali domestici e sugli esiti di traumi cranici dei gladiatori di cui era medico a Pergamo.
La concezione predominante in epoca ellenistica era che tutti i viventi partecipassero di un unico flusso vitale, il πνεῦμα, che, assunto attraverso gli alimenti e passando attraverso il fegato e il cuore, giungeva infine nelle cavità vuote del cervello, i ventricoli cerebrali. Qui si trasformava in 'spirito animale' per giungere a tutti gli organi attraverso microscopici tubicini contenuti nei nervi. Al fine di verificare tale impostazione, anche Leonardo da Vinci si adoperò nello studio attento sia dei nervi sia degli stessi ventricoli, avanzando l'ipotesi che il primo ventricolo fosse deputato al senso comune, il secondo al ragionamento e il terzo alla memoria. Il primato del cuore sul cervello sopravvisse nel Seicento a Vesalio, che pure descrisse in modo dettagliato tutto il sistema nervoso centrale e periferico, e anche a W. Harvey, che dimostrò la teoria della circolazione del sangue.
Anche laddove gli uomini di scienza non si appellavano più a entità metafisiche, quali l'anima e lo spirito, per legittimare i poteri della mente e del libero arbitrio, veniva ciononostante invocato in ogni caso un intervento di realtà astrali o di 'spiriti vitali'. Con il succedersi delle scoperte di N. Copernico, G. Galilei e I. Newton la visione spiritualistica del cosmo lasciò posto a una concezione fondata sulle leggi fisiche intrinseche alla materia. La meccanica, che in quei secoli polarizzava la grande attenzione della scienza, venne invocata quale modello per spiegare i meccanismi, appunto, della mente.
La 'pascalina', prima macchina in grado di svolgere operazioni matematiche progettata da B. Pascal, venne presa quindi a modello delle operazioni svolte dal cervello. Già G.W. Leibniz, tuttavia, contestava il fatto che il cervello, immaginato come un gigantesco mulino pieno di ingranaggi, potesse produrre una percezione, cioè un'esperienza sensoriale collegata a un vissuto personale. Al primato della meccanica successe nell'Ottocento quello dell'idraulica e dell'elettricità e anche queste discipline vennero invocate per spiegare il funzionamento della mente. Mentre sul modello idraulico S. Freud appoggiò molte delle sue metafore relative alla teoria degli istinti e delle pulsioni (blocco, congestione, canalizzazione, scarica ecc.), le stimolazioni della corteccia cerebrale con deboli scariche elettriche consentirono in effetti di compiere le prime mappature del sistema nervoso centrale, individuando le prime aree deputate a funzioni specifiche.
La scoperta e lo sviluppo del telegrafo e del telefono offrirono ovviamente un nuovo modello analogico che ipotizzava il cervello come un'intricata centralina alle prese con miriadi di connessioni interneuroniche (Oliverio-Oliverio Ferraris 1989). Il modello che in età recente si è proposto con più forza è quello computazionale (Churchland-Sejnowski 1992). Il sistema nervoso sarebbe cioè assimilabile a un potentissimo computer in grado di svolgere operazioni che, seppure più complesse di quelle usualmente eseguibili con i computer, non se ne discosterebbero in linea di principio.
Con il suo sbalorditivo numero di neuroni e soprattutto di connessioni sinaptiche il cervello non può essere paragonato che in modo assai riduttivo a una centrale telefonica o a un computer per quanto potente. Al di là del dato quantitativo, il modello computazionale utilizzato negli studi sull'intelligenza artificiale implica infatti che un computer sia dotato di un hardware, o struttura portante, e di un software, o programma operativo, che gli consentano di svolgere le sue funzioni. Sia l'uno sia l'altro sono, tuttavia, programmati dall'uomo e svolgono quindi una funzione esecutiva di compiti, mentre, almeno allo stato attuale, non sembra che un computer possa essere dotato della prerogativa più distintiva dell'essere umano identificata nell'intenzionalità, ossia la capacità della mente di essere soggetto dei propri agiti e non solo risposta a stimoli esterni.
Quale che sia il modello invocato dal mondo della fisica e della tecnologia, resta irrisolto il quesito di fondo: se cioè le funzioni del sistema nervoso possano essere ricondotte alle leggi della fisica e della biologia o se non si debba invece ipotizzare un elemento che in qualche modo le trascende sotto il profilo qualitativo. A tale quesito, come è noto, R. Descartes cercò di dare una risposta avanzando una concezione dualistica contraddistinta da una componente biologica, denominata res extensa, distinta da una componente spirituale, denominata res cogitans, tenute in comunicazione da un anello di congiunzione identificato nella ghiandola pineale. Tale organo, situato nel centro dell'encefalo, è in realtà deputato a tutt'altra funzione: quella neuroendocrina, di produzione di melatonina. Cerchiamo adesso di delineare, seppur sinteticamente, alcune prerogative di questa sofisticatissima macchina sulla quale, a mo' di guidatore, si instaura la facoltà della coscienza.
I neuroni del cervello umano adulto, le cellule cioè che costituiscono la struttura portante del sistema nervoso centrale, sono nell'ordine di svariati miliardi. Ai neuroni si affiancano le cellule gliali che svolgono una funzione nutritiva e di supporto. Il numero dei neuroni è già praticamente completo alla nascita e non è quindi suscettibile di aumento se non (come si è dimostrato di recente) nel corso di processi riparativi. Il numero dei neuroni, tuttavia, rappresenta solo un aspetto che incide sulla complessità del sistema nervoso. L'altro elemento sono le sinapsi o connessioni tra i neuroni stessi. Il numero di queste, valutato attorno a un milione di miliardi, rende ragione del fatto che nessun calcolatore attualmente disponibile è ancora in grado di assemblare l'insieme delle funzioni che un cervello è capace di svolgere. Il peso del cervello alla nascita rappresenta solo un quarto del peso che raggiungerà nel periodo tardoadolescenziale allorché raggiungerà la sua piena maturità funzionale.
A livello di circuiti cerebrali e quindi di arricchimento del bagaglio della memoria, dell'esperienza e dell'elaborazione dei concetti, il cervello potrà ovviamente continuare a evolversi, magari a spese di altre competenze che con l'età tenderanno a essere meno valide, quali la memorizzazione di eventi recenti, le abilità motorie, le acuità sensoriali ecc. (Manuale di neuropsicologia 1996). L'immaturità dell'encefalo alla nascita, seppure comporta un handicap per il neonato nella sua condizione di incapacità di provvedere ai propri bisogni essenziali, rappresenta una condizione indispensabile per garantire la complessità delle funzioni che in seguito sarà in grado di svolgere. Soltanto una parte delle connessioni tra i neuroni dei vari circuiti nervosi è infatti predeterminata da un programma genetico alla nascita. La maggior parte delle connessioni si costituirà nel corso delle tumultuose fasi di crescita della prima infanzia e, con un ritmo meno frenetico, in quelle successive, allorché l'individuo verrà esposto a stimoli adeguati in grado di rendere operanti le connessioni predisposte a livello potenziale.
La massa dei geni necessaria per predeterminare tale infinita rete di connessioni risulterebbe infatti un bagaglio insostenibile per i complessi meccanismi che sono legati alla trasmissione del patrimonio genetico (esposto oltretutto a possibili errori di mutazione nei processi di replicazione). Il ruolo determinante svolto dall'apprendimento, e quindi dallo sviluppo delle connessioni intersinaptiche, rispetto alla trasmissione genetica è anche all'origine dell'ampia diversità individuale riscontrabile nell'uomo rispetto alle altre specie animali (Oliverio 1995). Il volume medio del cervello umano è di circa 1300 cm3, tre volte più grande di quello dei Primati più evoluti che, assieme ai Cetacei e ai delfini, rappresentano gli animali con maggiore massa cerebrale relativa. 'Relativa' in quanto il volume assoluto è ovviamente collegato alla massa corporea nel suo insieme. Un elefante è dotato infatti di un cervello di dimensioni quattro volte superiori a quelle dell'uomo, ma va detto che, in proporzione, sono le specie più piccole di Mammiferi ad avere un cervello con più alto peso percentuale rispetto alla massa corporea. Questo, sempre nell'uomo, corrisponde al 2%, mentre nei ratti, nei pipistrelli e in altre specie più piccole di Mammiferi può superare anche di dieci volte tale percentuale (Martin 1995).
Dove i Primati superano gli altri concorrenti nella scala filogenetica è tuttavia nella dimensione encefalica durante lo sviluppo fetale che rappresenta il 12% del peso corporeo nei confronti del 6% della media degli altri animali, evidenziando in tal modo il maggior peso svolto nei Primati dai processi di apprendimento rispetto alla dotazione di competenze innate (Schatz 1992). Tornando ai rapporti tra i Primati e l'uomo, è noto come il cervello di quest'ultimo abbia raggiunto le attuali dimensioni a seguito di una progressiva crescita lungo le diverse fasi dell'ominazione. È stato valutato infatti che la dimensione cerebrale media in Australopithecus africanus fosse di 440 cm3 (paragonabile a quella delle grandi scimmie attuali come il gorilla), di 640 in Homo habilis, di 940 in Homo erectus, e di 1230 in Homo sapiens.
Enigmatica resta la questione relativa alle dimensioni maggiori riscontrate in Homo neanderthalensis, dal momento che nel corso degli ultimi 20.000 anni, periodo in cui più vistosamente si è espresso il processo di civilizzazione dell'uomo, si è determinata un'inversione di tendenza nel rapporto tra crescita della massa cerebrale e sviluppo delle potenzialità intellettive. Inevitabile, a questo punto, è interrogarci su quali siano stati verosimilmente i fattori che hanno portato allo sviluppo del neopallio, di quella parte dell'encefalo cioè che, a partire dalle strutture più arcaiche, come l'archipallio e il paleopallio, consente le funzioni intellettive e associative più sofisticate.
Un primo collegamento sembra potersi stabilire con il tipo di alimentazione. Anche tra le scimmie, infatti, quelle che si cibano di risorse alimentari più povere e facilmente procacciabili, come le foglie, sono dotate di masse cerebrali inferiori a quelle che si cibano di frutti e di insetti. L'apporto alimentare più ricco e diversificato si accompagna inoltre alla formazione di gruppi più ampi e all'intrecciarsi di una più complessa gamma di interazioni sociali. Il territorio di caccia, poi, tende a essere più vasto e questo comporta l'esposizione degli animali a una maggiore messe di stimoli e quindi all'apprendimento di maggiori abilità di adattamento all'ambiente.
Con un lento meccanismo a circolo virtuoso, l'andatura bipede, le conseguenti premesse anatomiche per la discesa della laringe, la possibilità di articolare in modo più ricco e differenziato il linguaggio, la progressiva utilizzazione della mano grazie all'opposizione del pollice e quindi l'acquisizione della capacità di fabbricare utensili hanno congiuntamente contribuito allo sviluppo del sistema nervoso e delle sue funzioni specifiche (Barucci 1997). Se il cervello è andato progressivamente sviluppandosi, è evidente che, in una logica evolutiva, si è dimostrato utile allo sviluppo della specie. Tali vantaggi si associano tuttavia a un costo che, in un equilibrio dinamico, non va sottovalutato. Il "partorirai con dolore", che il racconto della Genesi ricorda, rimanda indubbiamente alle difficoltà che le madri della specie umana affrontano più di ogni altra specie nel partorire, considerate le dimensioni sproporzionate del capo nel neonato. E questo nonostante il bambino, al momento della nascita, si trovi in una fase relativamente immatura dello sviluppo, con gli stessi processi di mielinizzazione non ultimati.
Né le funzioni sensoriali né quelle motorie consentono infatti a un neonato di provvedere minimamente a sé stesso, contrariamente a quanto avviene in altre specie laddove il cucciolo è già in grado di mantenere attivamente la vicinanza alla madre per difendersi dai predatori e di indirizzarsi ai capezzoli per alimentarsi. Il cervello del neonato, inoltre, è sottoposto a un frenetico processo di sviluppo: consuma fino al 60% delle risorse caloriche fornitegli dalla madre (Martin 1995). Questa, a sua volta, è costretta a un notevole sforzo alimentare, tanto da non essere, di norma, in grado di nutrire più di un nuovo nato per un periodo di tempo relativamente lungo. Seppure le dimensioni dell'encefalo sono ovviamente collegate allo sviluppo di funzioni intellettive superiori, non è dato tuttavia dimostrare, almeno nell'uomo in assenza di chiare forme di patologia, una relazione diretta tra dimensioni del cervello e prestazioni intellettuali, stando a verifiche sperimentali condotte attraverso i test di intelligenza attualmente disponibili (v. cervello).
Camminiamo per la strada e a un tratto, tra la folla, ci sembra di scorgere un volto conosciuto. La nostra reazione, specie se la persona è significativa per noi, può essere intensa e coinvolgere un insieme di risposte sensoriali, intellettive, emotive e anche corporee. Il nostro passo può inavvertitamente rallentare, il cuore battere più forte e possiamo avvertire un aumento della sudorazione. È anche possibile che spezzoni di immagini si affastellino in fulminee sequenze nella nostra mente. Quel viso, che magari ancora non riusciamo a contestualizzare nelle coordinate di tempo e spazio che ce lo rendono noto, può richiamare sequenze archiviate nella memoria, collegarsi a frasi dette o che potremmo pronunciare in un possibile incontro ed evocare, infine, una reazione comportamentale che ci orienti sulla scelta tra il richiamare l'attenzione di questa persona oppure di far finta di nulla per evitare di incontrarla.
È un esempio, tratto dalla nostra esperienza quotidiana, che ci dà un'idea di come il dato sensoriale, nel nostro caso l'aver scorto un volto conosciuto (ma analogo discorso potrebbe farsi per un odore, un sapore, un suono, una carezza ecc.), non ci perviene in modo isolato, ma si integra già dal suo nascere a un insieme di riverberazioni che coinvolgono sistemi sensopercettivi ed elaborazioni cognitive, i quali rimandano alla memoria, al linguaggio, agli schemi comportamentali e infine ai processi associativi più complessi coinvolgenti il sistema dei valori etici e delle scelte esistenziali.
Contrariamente a una concezione primitiva, detta associazionistica, che ipotizzava la giustapposizione in sequenza dei differenti dati sensoriali relativi a un oggetto percepito, si è progressivamente fatta strada una concezione olistica ispirata alla cosiddetta psicologia della forma (v. forma). Secondo questa impostazione, è l'insieme, la Gestalt, che viene colto fin dall'inizio e non la somma dei suoi elementi costitutivi. La Gestalt 'mela', per fare un esempio, viene attivata nel suo insieme e non dalla sommatoria dei suoi connotati di sapore, colore, profumo, consistenza ecc.
Tale concezione, sviluppata già nel primi del Novecento dalla scuola tedesca di W. Köhler, K. Koffka e altri, ha trovato conferme sperimentali dallo studio delle reti neurali, evidenziate attraverso l'uso di sofisticate metodologie di indagine, prime fra tutte la tomografia a emissione di positroni (PET, Positron emission tomography), che consente di evidenziare i circuiti cerebrali in stato di attivazione grazie alla localizzazione di glucosio radioattivo e in grado, quindi, di impressionare una lastra fotografica a colori. Attraverso tali strumenti di indagine, si è potuto constatare come l'immagine visiva di un oggetto non rimanga confinata a una rete locale di connessioni neuroniche, ma inneschi una serie di circuiti riverberanti di quantità e complessità proporzionate al significato dell'esperienza personale collegata al rapporto con l'oggetto stesso (Freeman 1991).
Studi approfonditi sui processi visivi, i maggiormente studiati, hanno confermato come il processo dell'appercezione sensoriale e del riconoscimento cognitivo, pur coinvolgendo reti neurali diverse (i corpi genicolati e la corteccia occipitale per i primi e la corteccia prestriata per i secondi), avvengano in modo contemporaneo, e quindi parallelo, e non sequenziale. Lesioni della componente deputata alla decodifica simbolica possono dare luogo al mancato riconoscimento dell'oggetto visto, mentre lesioni della componente corticale possono dare luogo alla 'visione cieca'. Il soggetto, cioè, pur essendo cieco e quindi non in grado di cogliere informazioni sensoriali visive, può tuttavia ricostruire in modo inferenziale attributi visivi come movimenti di oggetti in un campo o le diverse lunghezze d'onda collegate ai colori.
Il peso rilevante giocato dai comportamenti legati all'apprendimento nei confronti di quelli predeterminati a livello biologico comporta tuttavia il prezzo di condizioni svantaggiose per quei soggetti che, specie nelle prime fasi della maturazione psicofisica, sono esposti ad ambienti privi dei necessari stimoli evolutivi. Bambini ospedalizzati in età precoce, e che hanno trascorso il primo anno di vita in una culla, mostrano infatti uno sviluppo psicofisico molto più ritardato rispetto ai loro coetanei che hanno goduto di situazioni più stimolanti. Anche lo studio di bambini allevati da animali e fuori dal contesto umano ha evidenziato come le facoltà intellettive e del linguaggio rimangano a uno stadio primitivo mentre, per converso, la velocità nella corsa o nel muoversi a quattro zampe risulti assai potenziata.
Tale svantaggio può venire in parte recuperato nell'uomo grazie alle proprietà di plasticità dell'encefalo, mentre risulta congelato irreversibilmente negli animali che si situano a livelli più bassi della scala evolutiva. In questi infatti il periodo dell'imprinting, scoperto dal premio Nobel K. Lorenz, risulta molto definito e vincolante. Nell'esperienza classica, gli anatroccoli seguono come madre sostitutiva qualunque oggetto si muova davanti a loro, nel breve periodo stabilito geneticamente per l'apprendimento di tale comportamento; una volta che tale periodo sia passato senza un'esposizione allo stimolo che lo rende operante, il comportamento non verrà più appreso. Analogamente un agnellino separato dalla madre svilupperà la cosiddetta sindrome dello stone ship: rimarrà cioè pietrificato e senza possibilità di recuperare le sue capacità di socializzazione all'interno del gregge.
L'importanza degli stimoli ha portato a enfatizzare l'opportunità di offrire ambienti iperstimolanti, al fine di accelerare l'acquisizione di competenze e possibilità di apprendimento. Nell'esperienza forse più nota, quella introdotta da G. Doman fondatore dell'Institute for the achievement of human potential di Filadelfia, i bambini sono esposti a stimoli crescenti a partire dagli 8 mesi di età. Con tale metodo è stato possibile insegnare loro a tradurre dal giapponese all'inglese e a far di conto già all'età di 3 anni (Oliverio-Oliverio Ferraris 1989).
Studi più approfonditi, tesi a verificare la maturazione complessiva dei soggetti, hanno tuttavia evidenziato gli svantaggi di tali metodi di iperstimolazione, in particolare per quanto riguarda la maturazione emozionale. I bambini superdotati infatti risultavano marcatamente dipendenti dalle figure genitoriali e incapaci di assumere iniziative autonome. Analogamente a quanto si sostiene attualmente nel campo della dieta alimentare, la formula migliore sembra essere quella di un ambiente variato di stimoli, senza indurre forzatamente apprendimenti precoci che vanno a scapito di una maturazione più armoniosa della personalità.
"Cantami o diva del pelide Achille l'ira funesta". Con questa invocazione omerica a Mnemosine, la dea della memoria, possiamo dire che si inaugura la storia cosciente dell'Occidente. Che cosa ha caratterizzato infatti il conflitto sotto le mura di Troia se non la traccia lasciata nella memoria collettiva? Gli atti acquistano spessore, tridimensionalità allorché depositano un segno che permane nel tempo, che può essere colto e riconosciuto da altri viventi e rappresentare la premessa di un sapere condiviso, quindi di cultura.
Nessuna prerogativa, come quella della memoria, ci rende unici tra i viventi, dotati cioè di quella caratteristica della conoscenza che, sempre per i greci, la rende divina: capace cioè di comprendere sia la dimensione del presente sia del passato e, a partire da questo, del futuro. La memoria costituisce ancora l'elemento che rende la nostra attitudine al conoscere ineluttabilmente personalizzata. Accanto a un sapere vincolato alla specie, denominato memoria filetica, in nessun vivente come nell'uomo si innesta un sapere connesso all'esperienza personale sotto forma di conoscenza soggettiva e correlata con una storia individuale.
Tale forma di accumulazione del sapere, legata quindi a un processo di apprendimento e non di trasmissione genetica, è resa possibile dalla grande disponibilità di zone associative della corteccia cerebrale e ha la caratteristica di non presentarsi come un patrimonio di conoscenza aperto a un continuo processo di modellamento, in funzione dei vissuti squisitamente personali cui il soggetto si espone nei suoi percorsi conoscitivi. Gli animali che si trovano ai livelli inferiori della scala evolutiva sono dotati quasi unicamente di memoria filetica, quel bagaglio cioè di conoscenze che consente alla specie di adattarsi all'ambiente e di perpetuarsi in modo relativamente uguale a sé stessa nel susseguirsi delle generazioni.
La comparsa della corteccia, che si sviluppa progressivamente nelle specie più evolute, consente capacità crescenti di apprendimento e memorizzazione. Anche nella maturazione del bambino, nell'ambito del cosiddetto processo ontogenetico che in qualche modo ripercorre le tappe del processo filogenetico, avviene qualcosa di simile. Già da prima della nascita il feto è in grado di memorizzare informazioni di qualche tipo, per es. le caratteristiche della voce materna che saprà distinguere, già alla nascita, da voci estranee.
Affinché il processo del riconoscimento diventi consapevole, si richiederanno tuttavia alcuni mesi. Se a 5-6 mesi un bambino sarà in grado di riconoscere il volto di un fratellino, acquisterà di fatto la capacità di rievocarlo solo a partire dagli 8-12 mesi. A questa età si renderanno infatti evidenti le modifiche dell'espressione allorché un volto conosciuto verrà messo a confronto con volti che non lo sono (Oliverio-Castellano 1996). Anche la durata della memoria collegata al riconoscimento di un oggetto, che viene fatto sparire dopo essere stato mostrato, aumenterà progressivamente in misura del processo di mielinizzazione dei neuroni e della loro capacità di intessere reti neuroniche deputate allo strutturarsi di circuiti di riverberazione.
Il presupposto neurobiologico che consente la memorizzazione è la strutturazione di un loop, di un circuito tra diversi neuroni che insieme configurano la traccia mnesica. Diversamente da quanto ipotizzato sino alla metà degli anni Settanta del 20° secolo, quando si riteneva che la memoria riflettesse in una o più cellule il modello dell'impressione fotografica, si è appurato, specie con l'indagine PET, che la memoria è un evento squisitamente connessionale. La strabiliante capacità di ritenzione, archiviazione e richiamo delle immagini può essere spiegata solo in base all'infinito numero di sinapsi che i neuroni intessono tra di loro e non al numero degli stessi che, seppure elevato, è comunque infinitamente più modesto.
La nostra esperienza quotidiana ci dice inoltre che esistono due tipi di memoria: una più labile, che si riferisce a eventi che per il loro scarso significato non lasciano una traccia permanente (e sarebbe un inutile appesantimento del bagaglio informativo se lo facessero), e una più stabile, che può sopravvivere anche all'invecchiamento, a traumi cranici o a scosse di elettroshock che, come è noto, fanno dimenticare eventi passati. Tale distinzione, intuita inizialmente dallo psichiatra italiano E. Tanzi, venne ripresa e sviluppata negli anni Cinquanta da D. Hebb che sviluppò l'ipotesi della cosiddetta doppia traccia.
Secondo questa impostazione, attualmente suffragata da dati sperimentali, un'impressione recente innesca un circuito cerebrale che tende, come l'onda sulla superficie dell'acqua, a esaurirsi entro breve tempo. Se lo stimolo è sufficientemente forte o ripetuto, si verifica al contrario un rinforzo della traccia mnesica sino a produrre cambiamenti strutturali sui collegamenti intersinaptici dei neuroni interessati al particolare tipo di esperienza. La memoria, infatti, investe tutto il cervello potendo interessare dati di carattere sia sensoriale sia cognitivo e motorio (Fuster 1998). Alcune sostanze, denominate calpine, hanno la prerogativa di distruggere e di ricostituire connessioni sinaptiche agendo sugli ioni del calcio attraverso un processo continuo di rielaborazione plastica.
La memoria non è qualcosa di statico e inerte, ma è soggetta a un continuo processo di rielaborazione in funzione delle nuove esperienze alle quali il soggetto si trova esposto. Un'esperienza ricordata come traumatica, e che quindi produce un comportamento evitativo, può infatti essere successivamente rielaborata attraverso una differente prospettiva e quindi integrata dal soggetto sotto una luce che ne modifica le caratteristiche di negatività.
Sulla plasticità dell'encefalo si fonda anche la possibilità di agire attraverso la psicoterapia che, come è noto, contempla un richiamo delle esperienze passate, anche se traumatiche, nella prospettiva di una rielaborazione delle stesse attraverso una possibilità di integrazione in un quadro di riferimento più evoluto e meglio raccordato alla realtà attuale del soggetto.
Un elemento attivatore, nei processi di memorizzazione, è la componente emotiva collegata agli aspetti cognitivi dei vissuti. L'amigdala e l'ippocampo, strutture sottocorticali implicate nei processi emozionali, sono le strutture che danno appunto coloritura emozionale e incisività al processo mnesico e che, se lesionate da traumi incidentali o disturbi della circolazione, maggiormente determinano la perdita di tali capacità. Riguardo all'intensità emozionale non va trascurato il fatto, tuttavia, che un'eccessiva intensità emotiva può giocare un ruolo inibitorio. Per un meccanismo difensivo, infatti, la psiche tende a rimuovere i ricordi dolorosi. In realtà, come la ricerca psicoanalitica ha ampiamente dimostrato, non si tratta di un'effettiva scomparsa dalla memoria dell'evento traumatico, ma di una sua rimozione dalla sfera della coscienza.
Attraverso un graduale - anche se talvolta può presentarsi come subitaneo - dissotterramento dei reperti archeologici (come nella metafora freudiana si usa richiamare) è spesso possibile far riemergere alla superficie della coscienza fatti che la psiche aveva rimosso nelle pieghe del cosiddetto inconscio. La vicenda di Edipo, re di Tebe che si unì alla regina madre avendo rimosso il fatto che l'uomo da lui ucciso potesse essere il padre, indica in modo emblematico l'attitudine della mente a rimuovere fatti traumatici o incompatibili con la nostra coscienza morale. Tali ricordi possono successivamente emergere sotto la pressione di eventi che non possiamo eludere, oppure grazie allo sviluppo di una coscienza più matura e quindi più aperta ad affrontare la ricostruzione degli eventi collegati alla nostra storia passata.
La riappropriazione della nostra storia e quindi la narrazione, a noi stessi e/o ad altri, del filo che collega in una rete di significati plausibili i diversi frammenti della nostra vicenda personale rappresenta forse uno dei momenti più significativi del processo di riconoscimento e di conquista di quell'identità personale unica e irripetibile che contraddistingue l'essere umano.
Pur con infinite varianti legate alle diverse tradizioni cosmogoniche, l'uomo ha da sempre ipotizzato che nulla possa nascere da nulla e che quindi il mondo e l'universo siano scaturiti da un potere primigenio e sovramondano. Si noti come il concetto di evoluzione non faccia parte del pensiero primitivo e come l'ente creatore, considerato generalmente come perfetto, non possa creare che esseri perfetti. Tale idea, detta preformazionista, per la quale il cavallo, creato dal nulla, è già un purosangue e non il risultato di un lungo processo di perfezionamento, si ritrova in qualche modo anche nella nozione corrente di creatività estesa alle attività dell'uomo.
A ben vedere, al contrario, la creazione umana implica sempre una sintesi tra un bagaglio di esperienze e di informazioni precedenti e un quid novi che il genio creativo riesce a innestare sul già noto. In ambito sia scientifico sia artistico possiamo infatti osservare come niente nasca dal niente e come, al contrario, l'atto creativo si definisca come innovativo e quindi evolutivo rispetto a un insieme di premesse che ne rappresentano gli indispensabili presupposti. Analogamente ai processi sintropici osservabili in natura, per i quali da elementi più semplici si passa a elementi più complessi ed evoluti, anche per i processi riscontrabili nella creatività umana sembra realizzarsi, seppure a un livello di maggiore consapevolezza, un processo evolutivo morfogenetico.
La Gestaltung, o processo di evoluzione delle forme, sembra avvenire per virtù propria, quasi servendosi degli esseri umani che vi partecipano analogamente a quanto i geni tendono a riprodursi e a perfezionarsi servendosi degli individui che li veicolano, secondo la teoria evolutiva di Ch. Darwin successivamente ripresa e sviluppata da R. Dawkins. Nel caso di esseri dotati non solo di un patrimonio genetico-biologico ma anche di capacità di elaborare e trasmettere informazioni, Dawkins propone di affiancare il termine di 'meme' a quello di gene. La trasmissione del patrimonio informativo consente cioè il perpetuarsi e il continuo evolversi dei sistemi conoscitivi e quindi dei prodotti che da questi possono derivare.
La coscienza rappresenta forse il Santo Graal della ricerca scientifica, l'oggetto inafferrabile e sempre sfuggente non soltanto per la sua tremenda complessità ma per il fatto stesso di essere, nella sua essenza, il cuore della soggettività stessa. Sappiamo che il metodo scientifico, codificato in particolare da Galileo, consiste nella possibilità di definire correttamente un campo di osservazione nel quale inserire un oggetto il cui studio possa, appunto, divenire patrimonio di un sapere condiviso e oggettivo.
A parte la difficoltà estrema di applicare i metodi dell'indagine scientifica a un oggetto misterioso come la coscienza, emerge il paradosso che ci impone di studiare tale entità all'interno di una nuova categoria, quella appunto della soggettività. Questo sembra essere infatti, al di là della sofisticatezza di alcune funzioni specifiche, l'elemento che distingue qualitativamente il cervello dotato di coscienza da un computer per quanto potente e multifunzionale: la coscienza di sé come soggetto.
Costruito un computer, se ne potrebbero ovviamente costruire infatti molti altri di uguali. Tale evenienza si rende assai più improbabile per l'essere umano che, come abbiamo visto, possiede alla nascita una vasta porzione della corteccia associativa non programmata geneticamente ma esposta a plasmarsi in funzione delle esperienze squisitamente individuali a cui il soggetto sarà esposto. L'elaborazione che a partire dal patrimonio genetico e dalle successive esperienze si svilupperà in termini di concetti, valori, tonalità emotive, spunti creativo-adattativi si configurerà come un originale Sé, Da-sein o modo-di-essere-nel-mondo che, come sottolinea la filosofia fenomenologico-esistenziale, si presenterà ogni volta come unico e irripetibile.
Tale dimensione, tragica e sublime insieme, si accompagna ad altre prerogative che differenziano l'uomo da una macchina. Tra queste l'intenzionalità, intesa da F. Brentano come fenomeno mentale irriducibile ad altri fenomeni della psiche, e da E. Husserl come ciò che caratterizza la coscienza in senso pregnante e come 'capacità di orientarsi in un orizzonte di significati'. La persona - secondo M. Heidegger - è sempre data come esecutrice di 'atti intenzionali, raccolti in una unità di senso'. Le macchine - sostiene anche J.R. Searle (1996) - sono in grado di manipolare simboli, ma non di interpretarli e dare loro un significato.
La mente umana sarebbe inoltre capace di superare una semplicistica logica binaria (del tipo sì/no) propria del computer attraverso una capacità, definita logica fuzzy (sfumata), per la quale le scelte umane hanno più spesso a che fare con le sfumature di grigio che con il bianco e nero; coinvolgono stati cognitivi ed emotivi, come i desideri, il piacere, le credenze (Carli 1997). A questi pensatori si contrappongono teorici come il Nietzsche di Così parlò Zarathustra (con la sua nota asserzione: "corpo io sono in tutto e per tutto e null'altro; e anima non è altro che una parola per indicare una parte del corpo") e altri che sostengono un più radicale monismo orientato a un'impostazione, postfilosofica (intendendo filosofia come campo dell'investigazione prescientifica) e rigorosamente fondato sul tentativo di ricondurre tutti i fenomeni della coscienza a leggi fisico-biologiche, che unicamente rappresentano il fondamento scientifico della conoscenza.
Tutti i fenomeni mentali sono strettamente connessi a fenomeni fisici per J.A. Fodor (1987), che definisce 'fisicalismo' l'impostazione, per la quale tutti gli eventi mentali sono identici a (o composti da) eventi fisici. Secondo D.C. Dennett (1996), il teorico della concezione computazionale della mente che rappresenta forse la punta avanzata di tale orientamento, non esistono una materia spirituale, una res cogitans separata dai nostri corpi, né il cosiddetto hard problem dell'irriducibilità della mente a qualcos'altro. Solo risolvendo i soft problems, cioè gli aspetti meccanici e tecnologici del cervello e della mente, sarà risolto anche il problema della coscienza.
A dimostrazione della stretta interdipendenza tra cervello e personalità viene spesso riferito il caso emblematico di un operaio trafitto da una sbarra metallica che, entratagli a grande velocità dalla parte inferiore dello zigomo sinistro, gli uscì dalla parte superiore della fronte. Lo stesso, pur stordito per il violentissimo trauma, non perse neppure coscienza e anzi cominciò a parlare poco dopo. Con il passare dei giorni i compagni di lavoro si accorsero tuttavia che 'non era più lui'. Pur conservando intatte le sue capacità motorie e sensoriali, da collega affidabile e capace era diventato bizzarro, insolente e irresponsabile (Damasio 1994).
Tra i ricercatori sul tema della coscienza spiccano le figure di scienziati spesso insigniti del premio Nobel in diverse discipline e che si sono dedicati in seguito alle nuove sfide conoscitive sollevate dalle neuroscienze. Per F. Crick (1994), Nobel per la scoperta del DNA nel 1953, la coscienza rappresenta la consapevolezza immediata e soggettiva del mondo e di noi stessi, un fenomeno cioè in cui si combinano attenzione e memoria a breve termine. Coerentemente alla sua visione rigorosamente materialistica egli sostiene che "le vostre gioie e i vostri dolori, i vostri ricordi e le vostre ambizioni, il vostro senso di identità personale e di libero arbitrio, in effetti non sono altro che il comportamento di un gruppo molto numeroso di cellule nervose e delle molecole ad esse associate" (Crick 1994, trad. it., p. 95).
Tali reti nervose, secondo G. Edelman (1987), Nobel nel 1972 per studi sull'immunologia, sarebbero il risultato di un fenomeno di competizione, definito 'darwinismo cellulare', per il quale le infinite connessioni potenziali che si presentano nelle prime fasi dello sviluppo cerebrale si autoselezionano progressivamente in funzione degli stimoli di rinforzo cui un soggetto si espone nel suo impatto con il mondo circostante. Gli infiniti rami (dendriti appunto) che emergono dal tronco del neurone cadranno progressivamente come rami secchi, lasciando spazio solo a quelli che vengono rafforzati dalla linfa rappresentata dall'esperienza e dal suo consolidamento. La tessitura di tali reti sinaptiche costituirà quindi dei circuiti riverberanti, già menzionati a proposito della percezione e della memoria, a cui un altro Nobel, F. von Hayek (in questo caso in economia), ha dato il nome di 'mappe neurali'.
Gli stessi neuroni, infine, si presenterebbero a un'approfondita osservazione come dotati di un'intricata rete di microtubuli proteici, abilitati a trasmettere le informazioni sia all'interno della singola cellula sia, attraverso la rete sinaptica, da una cellula all'altra. Mutuando concetti derivati dalla meccanica quantistica e dal principio di indeterminazione di W.K. Heisenberg, R. Penrose (1989), Nobel nel campo della chimica, sostiene che né la fisica classica, né l'informatica, né le neuroscienze, assunte isolatamente, sono in grado di sciogliere i nodi hard della coscienza.
Tale prospettiva riflette il noto teorema di K. Gödel, il quale sostiene come nessun sistema di assiomi abbastanza complesso sia capace di sostenere la veridicità di un enunciato restando confinato all'interno del proprio orizzonte concettuale di riferimento. Pur ritenendo che l'obiettivo dell'intelligenza artificiale è quello di imitare quanto più possibile attraverso delle macchine, normalmente elettroniche, l'attività mentale umana, Penrose ritiene che si renda necessaria 'una nuova teoria fisica', in grado di fare da ponte tra la meccanica quantistica e quella classica e che 'vada oltre la computazione'. Per rimanere ancorati alle funzioni biologiche dell'encefalo, è interessante riportare il dato sottolineato dall'anestesista S. Hameroff che si riferisce alla perdita della coscienza, che viene indotta appunto dall'anestesia attraverso l'inibizione del movimento di elettroni all'interno dei microtubuli (Horgan 1998, p. 94). Questi, infine, rappresenterebbero la trabecolatura connessionale nella cellula e tra le cellule, analogamente a come un computer, con i suoi circuiti interni, si collega tramite la rete di Internet a un numero potenzialmente illimitato di altri computer sino a formare interconnessioni virtualmente infinite e organizzabili in sottosistemi in un continuo processo di ristrutturazione.
Riprendendo ancora Edelman, in conclusione, pur accettando che la mente è solo materia e coincide con il cervello e rinunciando quindi a ricercare il cosiddetto ghost in the machine, quell'anima immateriale che abiti il cervello, è pur vero che la scienza del cervello e della mente deve necessariamente stabilire delle relazioni con la filosofia, nel senso di una 'comune ricerca di armonie e consonanze' tra concezioni diverse. Pur avendo progettato NOMAD (Neurally organized multiply adaptive device), il primo oggetto non vivente in grado di 'apprendere' dall'esperienza attraverso telecamere, sensori, antenna e collegamento televisivo e radiofonico bidirezionale collegato a un supercalcolatore dotato di un sistema di simulazione del cervello e di reti neurali, con possibilità di operare scelte in funzione di valori dati come istruzioni di base, lo stesso scienziato ritiene che la sua creazione, anche se ulteriormente perfezionata, rappresenti comunque, rispetto all'uomo, un 'falso analogo', dal momento che non potrà identificarsi in una storia individuale, unica e irripetibile, dal momento che la mente non può concepirsi al di fuori del mondo e delle interazioni sociali.
Secondo la teoria biologica della mente di Edelman (1992), un'epistemologia biologicamente fondata non potrà probabilmente dare una risposta alla singolarità dell'individuo, alla sua capacità di creare, di provare emozioni, e di produrre opere artistiche, poetiche, musicali, pittoriche o idee scientifiche, ma certamente 'contribuirà a rendere la nostra vita più ricca'.
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