Pseudo-Dionigi Areopagita
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La pretesa di essere l’ateniese convertito da san Paolo risulta talmente convincente che lo Pseudo-Dionigi gode a lungo di un’autorità pari quasi a quella degli apostoli. L’autore è invece un cristiano di origine siriana, che studia filosofia ad Atene presso Proclo e Damascio. La sua riformulazione della teologia cristiana nei termini della filosofia neoplatonica ha durevole influenza sul platonismo medievale e rinascimentale, come anche sulla successiva letteratura mistica.
L’autore degli scritti (Gerarchia celeste, Gerarchia ecclesiastica, Nomi divini, Teologia mistica, Lettere) che formano il corpus dionisiano, o areopagitico, presenta se stesso come quel Dionigi, membro del tribunale dell’Areopago, convertito da san Paolo durante la sua permanenza ad Atene (Atti degli Apostoli, XVII 16-34). L’identità di Dionigi non è quasi mai messa in dubbio nel Medioevo; tra le pochissime eccezioni, quella del vescovo cattolico Ipazio di Efeso, il quale, nel corso della disputa del 533 tra cattolici e monofisiti a Costantinopoli, manifesta al riguardo forti perplessità. Bisogna attendere in epoca rinascimentale Lorenzo Valla e, sulla sua scia, Erasmo da Rotterdam, perché la leggenda dell’appartenenza del corpus all’età apostolica sia riconosciuta come tale; nonostante l’autorevolezza di questi e altri pronunciamenti, la tesi tradizionale continua tuttavia a godere per lungo tempo di vasti consensi. La situazione comincia a cambiare nel XIX secolo, nel corso del quale finisce per imporsi diffusamente la convinzione contraria. Da allora, e fino ai nostri giorni, i tentativi per stabilire l’identità e la fisionomia culturale del misterioso autore si sono moltiplicati, senza peraltro raggiungere risultati in tutto e per tutto definitivi.
A ogni modo, secondo l’interpretazione più accreditata, che risale alla fine dell’Ottocento ed è confermata da studi recenti, lo Pseudo-Dionigi è un autore cristiano, probabilmente originario della Siria, che ha studiato filosofia presso gli ultimi rappresentanti della scuola neoplatonica di Atene, ossia Proclo e Damascio. In favore dell’origine siriana vengono invocati come prova soprattutto i parallelismi riscontrabili tra la sezione della Gerarchia ecclesiastica che tratta dell’ordinazione del vescovo, del sacerdote e del diacono e le prescrizioni della liturgia siriana promulgate dal patriarcato di Antiochia. Come che sia, è indubitabile che il corpus abbia goduto di ampia fortuna in ambiente siriano, dato che è stato tradotto in siriaco da Sergio di Reshaina prima del 536.
Sulla dipendenza, poi, dello Pseudo-Dionigi da Proclo e – in misura presumibilmente minore – da Damascio, esiste oramai ampio consenso. La dipendenza sembra infatti comprovata da numerosi elementi linguistici e dottrinali; tra questi ultimi, il ruolo centrale della triade permanenza-processione-conversione, la concezione del male come carenza d’essere, le modalità dell’unione mistica dell’anima a Dio, il costante ricorso alla teologia negativa e alla teologia affermativa sul modello dell’interpretazione neoplatonica delle prime due ipotesi del Parmenide di Platone. In base a queste e ad altre considerazioni, è ragionevole indicare per tutte le opere del corpus una data di composizione intorno al 500. Oltre all’influenza degli ultimi scolarchi del neoplatonismo ateniese, è possibile ravvisare con certezza nello Pseudo-Dionigi anche quella di altri esponenti della tradizione platonica (da Platone stesso a Plotino, Porfirio e Giamblico), nonché di Padri della Chiesa, quali Clemente di Alessandria, Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo e Teodoreto di Ciro. Gli interpreti si sono spesso divisi tra fautori della preminenza nello Pseudo-Dionigi del filone neoplatonico o di quello patristico; una contrapposizione, questa, che, se posta in termini rigidi, non rende giustizia all’energia e all’originalità speculative dell’autore.
La Gerarchia celeste, in 15 capitoli, descrive le proprietà e le funzioni dei nove gruppi di angeli nominati nell’Antico Testamento e da san Paolo. I nove gruppi sono suddivisi in tre gradi gerarchici, ciascuno dei quali è a sua volta ripartito in tre ordini. Vi sono, pertanto, il grado inferiore, formato da angeli, arcangeli e principati; il grado intermedio, formato da potestà, potenze e dominazioni; il grado superiore, formato da troni, cherubini e serafini. Gli angeli, di per se stessi, sono intelligenze pure e potenze immateriali, che tuttavia nella Scrittura sono descritti per mezzo di disparati simboli sensibili, dai più umili (come, per esempio, l’acqua o gli animali) ai più elevati (come la luce). Dio ha voluto ciò per venire incontro alle limitate capacità dell’intelligenza umana, ma anche per celare la verità ai profani; e lo sforzo che la mente umana deve compiere è andare oltre i simboli sensibili, interpretando allegoricamente la Scrittura. Oltre ai caratteri posseduti da ogni classe di essenze angeliche, nella Gerarchia celeste sono descritte anche le leggi che regolano i loro rapporti reciproci. L’ordine angelico più elevato riceve la luce che gli conferisce essere, vita e intelligenza direttamente da Dio; quindi la trasmette all’ordine immediatamente inferiore, e ciò facendo lo purifica, lo illumina e lo rende perfetto, in quanto lo inizia ai misteri di Dio (compie cioè su di esso le tre fondamentali operazioni di purificazione, illuminazione e iniziazione). Allo stesso modo agiscono gli ordini intermedi sugli inferiori, e l’ordine più basso della gerarchia celeste sul più alto della gerarchia ecclesiastica. Sembra che la luce divina, nella sua discesa lungo la scala gerarchica, vada affievolendosi, ma in realtà ciò è dovuto non ad una debolezza della luce stessa, bensì alla crescente incapacità degli ordini inferiori a riceverla nel modo adeguato. Analogamente, tutti gli ordini angelici aspirano a rendersi simili a Dio, ma ciascuno di essi realizza questo fine nella misura consentita dalla propria natura.
La Gerarchia ecclesiastica, in sette capitoli, descrive e interpreta allegoricamente i vari riti liturgici (battesimo, eucarestia, cresima, ordinazione, riti funebri), istituendo al contempo un parallelo tra la gerarchia angelica e quella della Chiesa terrena. La Chiesa terrena presenta due serie di ordini ternari, ossia gli iniziatori, che si suddividono in vescovi, sacerdoti e diaconi, e gli iniziati, che si suddividono in purificati (catecumeni), illuminati (popolo di Dio) e perfetti (monaci). I vescovi, che guidano i monaci, esercitano le tre funzioni della purificazione, dell’illuminazione e della iniziazione; i sacerdoti, che sono a capo degli illuminati, esercitano le due funzioni della purificazione e dell’illuminazione; i diaconi, che sono preposti ai purificati, esercitano soltanto la funzione della purificazione.
Nei Nomi divini, che è il trattato più esteso del corpus dionisiano ed è suddiviso in 13 capitoli, sono esaminati gli appellativi di Dio che compaiono nella Scrittura. Considerato in sé, nel suo stato di permanenza, Dio è in realtà del tutto inconoscibile e innominabile. Dio può essere nominato e conosciuto solo attraverso i suoi effetti, ossia attraverso ciò che da lui procede nella realtà: i nomi divini corrispondono pertanto alla processione, alla manifestazione divina nel mondo. Con questi presupposti è interpretata una trentina di termini, tra i quali “Bene”, “luce”, “bellezza”, “amore”, “essere”, “vita”, “intelligenza” ecc. La vera possibilità di accesso a Dio, tuttavia, si realizza attraverso la via negativa, quella cioè che prescrive la progressiva eliminazione di tutti i nomi e gli attributi di Dio che in precedenza sono stati accettati.
Nel breve trattato (cinque capitoli) della Teologia mistica, che riprende motivi centrali dei Nomi divini, la via negativa è messa al servizio di un itinerario mistico che culmina con l’ingresso nella tenebra divina. Dio è in effetti al di sopra di qualsiasi affermazione o negazione, e l’unione con lui trascende qualsiasi esperienza sensoriale e intellettuale. Come è accaduto a Mosè sul monte Sinai, l’entrata nella tenebra significa dunque l’assenza totale di parole e di pensieri; tale è la dimensione dell’unione mistica con Dio, nella quale ignoranza suprema e conoscenza suprema coincidono.
Le dieci Lettere, infine, indirizzate a vari personaggi dell’epoca apostolica, tornano su alcuni dei temi precedentemente segnalati; delle ultime cinque lettere è stata messa in dubbio l’originaria appartenza al corpus.
La riflessione dello Pseudo-Dionigi si incentra sulla natura di Dio, sulla sua azione creatrice e sulle modalità attraverso cui le creature possono conseguire la conoscenza di Dio. L’insieme di questi rapporti è regolato dalla triade permanenza (moné) - processione (próodos) - conversione (epistrophé), di chiara derivazione neoplatonica. Nel primo momento della triade Dio permane in sé, nella sua misteriosa perfezione, la quale trascende il mondo delle forme intelligibili che corrispondono all’Essere. Come l’Uno procliano, il Dio dello Pseudo-Dionigi è pertanto privo di forma e superiore all’Essere, nella misura in cui anche l’essere è una forma; più precisamente, è Essere, infinito e perfetto, superiore a tutte le forme di Essere finito che da lui discendono. Successivamente Dio esce, procede da sé, creando l’Essere; e nell’atto creativo, pur non perdendo nulla della sua potenza e della sua perfezione, dispensa alle creature quei doni grazie ai quali esse potranno tornare a lui nel movimento di conversione.
La natura di Dio nelle fasi di permanenza e di processione è descritta dallo Pseudo-Dionigi in accordo con l’interpretazione neoplatonica, definitivamente codificata da Proclo, delle prime due ipotesi del Parmenide di Platone. La prima ipotesi aveva per oggetto l’Uno che è soltanto ed esclusivamente Uno, e che, come tale, non tollera alcuna attribuzione, compresa quella dell’“è”; per questo i neoplatonici vollero ravvisare in esso l’Uno totalmente trascendente, anteriore persino all’Essere e, come tale, del tutto inconoscibile e ineffabile. L’Uno della seconda ipotesi del Parmenide accoglieva invece tutte le determinazioni che erano state negate all’Uno della prima; e per questo i neoplatonici lo associarono all’Essere-Intelletto, l’ipostasi che contiene le cause archetipiche (le idee) di tutti i possibili aspetti del reale, e che pertanto costituisce il fondamento di qualsiasi forma di conoscenza e di determinazione positive.
La novità dello Pseudo-Dionigi consiste nell’avere associato la prima e la seconda ipotesi al medesimo soggetto, cioè Dio, considerato nei suoi due aspetti di permanenza e di processione, laddove i neoplatonici le avevano riservate invece a due ipostasi distinte, ossia l’Uno trascendente l’Essere e l’Essere vero e proprio. In questo modo, lo Pseudo-Dionigi riduce sensibilmente la distanza che in molte concezioni neoplatoniche intercorre tra il primo principio e l’Essere. Il Dio dionisiano è infatti la causa unica e universale che precontiene, sebbene in forma semplice e indistinta, tutti i suoi effetti; e il creato, di conseguenza, non è altro che manifestazione integrale di Dio, di un Dio che, senza intermediari, crea per un atto di amore e di volontà (non dunque, a differenza dei neoplatonici, per una sorta di emanazione necessaria che si scandisce in gradi ipostatici distinti). Ecco perché è possibile applicare a Dio sia il discorso che procede per negazioni (la cosiddetta teologia o via negativa) sia quello che procede per affermazioni (la cosiddetta teologia o via affermativa), riferendoli rispettivamente, come si è detto, alla sua permanenza e alla sua processione.
Nella fase di conversione, tutto ciò che è proceduto da Dio aspira a tornare alla propria origine, cercando per quanto è possibile di assimilarsi alla causa divina (si riconosce in ciò agevolmente l’antico ideale platonico dell’assimilazione a Dio, enunciato specialmente nel Teeteto e nel Timeo, che molta fortuna aveva avuto anche presso i Padri della Chiesa). Per gli esseri umani, il movimento di conversione è un percorso di purificazione religiosa e di conoscenza che prevede all’inizio l’individuazione e l’interpretazione dei simboli sensibili con cui nella Scrittura si parla di Dio. La presenza di simboli più umili accanto ai più elevati va interpretata come l’onnipresenza di Dio in ogni aspetto del reale, ma anche come un espediente pedagogico per far intendere all’intelligenza umana la differenza tra inferiore e superiore, e quindi la nozione di ordinamento gerarchico, così pervasiva negli scritti dello Pseudo-Dionigi. È questa la fase della teologia affermativa, nella quale a Dio si attribuiscono dei nomi per poi sottoporli a un’analisi allegorica capace di condurre oltre il loro significato sensibile. I vari appellativi sono dichiaratamente tratti dalle Scritture, ma in molti casi si ispirano con evidenza all’analisi categoriale del Parmenide (si pensi, nei Nomi divini, alla discussione riservata, per esempio, a termini quali identico, altro, simile, dissimile, uguale, disuguale ecc.). Lo Pseudo-Dionigi argomenta inoltre che i vari nomi divini, e in maniera più evidente i più generali tra loro, si riferiscono insieme al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo; la pluralità delle ipostasi in Dio deve essere infatti concepita come una distinzione all’interno dell’unione, per cui le tre persone che costituiscono la Trinità hanno lo stesso onore, compiono le stesse opere e, per quanto riguarda i rapporti con gli esseri creati, sono indicate appunto con gli stessi nomi (in questo modo è possibile riservare al Dio cristiano uno e trino un trattamento analogo a quello che i neoplatonici pagani riservano al solo Uno).
In una fase successiva, e di ordine superiore, subentra il discorso per negazioni, la cosiddetta teologia o via negativa, che consiste nella progressiva eliminazione dei nomi e delle descrizioni di Dio precedentemente accolti (in questo senso, possiamo dire, la via negativa ripercorre a ritroso il movimento della processione). La via negativa denuncia per parte sua la parzialità e l’insufficienza delle determinazioni positive di Dio ricavate a partire dalle creature, che pure sono effetti della causalità divina. Seguendo la via affermativa, è infatti lecito attribuire a Dio essere e bontà, in quanto Egli è causa dell’Essere e della bontà che si trovano nelle creature; ma seguendo la superiore via negativa, di Dio non si potrà dire né che è essere né che è bene, dato che né il concetto di Essere né quello di bene, che è possibile formarsi a partire dalle creature, sono in grado di descrivere adeguatamente la sua natura. Giunti a questo punto, occorre negare persino le stesse negazioni, riconoscendo così che Dio è superiore a qualsiasi possibilità di conoscenza e di denominazione. È infatti compito di una via ancora superiore a quella negativa (la cosiddetta via superlativa) condurre al di là delle affermazioni e delle negazioni, per approdare infine al silenzio mistico e alla misteriosa tenebra dell’ignoranza, superiore a qualsiasi forma di conoscenza, che sola conviene all’ineffabile trascendenza di Dio. In ciò, lo Pseudo-Dionigi recupera e rielabora indubbiamente forme tradizionali, patristiche e neoplatoniche, del discorso su Dio; ma il ricorso alla teologia negativa e l’esito extralinguistico del processo di ritorno a Dio sono probabilmente per lui anche lo strumento per destituire di fondamento molte delle secolari dispute conciliari, che proprio sul controverso significato di attributi divini si erano incentrate.
Il carattere più evidente della creazione operata da Dio è quello della stratificazione gerarchica: come i neoplatonici pagani, anche lo Pseudo-Dionigi ritiene che, benché Dio sia presente ovunque, non tutto sia divino allo stesso modo. Il suo, in altre parole, non è un monismo indifferenziato, anche se la differenziazione non è imputabile a un indebolimento della potenza di Dio, bensì all’incapacità del creato ad accoglierla ovunque allo stesso modo. Tra i diversi gradi di realtà, e all’interno degli ordinamenti più particolari da cui tali gradi sono costituiti, sussistono rapporti causali ben precisi, per cui ciò che è più alto in gerarchia possiede potenza causale più estesa (tesi che troviamo enunciata con la massima chiarezza, per esempio, negli Elementi di teologia di Proclo). Si tratta di ordinamenti perlopiù triadici, come abbiamo visto per le gerarchie ecclesiastiche e angeliche, e triadiche sono anche le prime manifestazioni della natura e dell’azione di Dio, a cominciare dal gruppo formato dall’Essere, dalla Vita e dalla Sapienza, vale a dire le determinazioni più generali della bontà divina. Il Bene si estende infatti alle cose che sono come a quelle che ancora non sono (o perché sono possibili soltanto nella mente di Dio, o perché non sono ancora quello che potrebbero essere), l’Essere si riferisce invece soltanto alle cose che sono, mentre la Vita e la Sapienza hanno un ambito ancora più limitato, in quanto si riferiscono rispettivamente agli esseri viventi e ai viventi dotati di intelligenza. Comunque sia, lo Pseudo-Dionigi è sempre attento a precisare (distinguendosi anche in ciò dai neoplatonici pagani) che a questi e ad altri nomi divini non corrispondono ipostasi distinte dotate di sussistenza e di potenza causale autonome, bensì pure e semplici mediazioni dell’unica causalità divina.
La pretesa (o l’espediente letterario) di essere l’ateniese convertito da san Paolo risulta talmente convincente che lo Pseudo-Dionigi gode a lungo di un’autorità pari quasi a quella degli apostoli. Il suo modo di concepire la vita spirituale ha inoltre enorme influenza sulla successiva letteratura mistica, nella quale le espressioni che descrivono l’unione dell’anima a Dio riecheggiano spesso formule dionisiane.
Venendo a una rassegna storica più dettagliata, va ricordato, per cominciare, che la presenza degli scritti dello Pseudo-Dionigi è documentata indirettamente tra il 518 e il 528 da alcune citazioni del vescovo Severo di Antiochia; direttamente, invece, nella già ricordata disputa di Costantinopoli del 533. Intorno al 530 sono inoltre redatte le note di commento (scoli) ai testi dionisiani di Giovanni di Scitopoli (in Palestina), e sempre a quegli anni risale la traduzione in siriaco a opera di Sergio di Reshaina, che favorisce notevolmente la diffusione delle idee dello Pseudo-Dionigi nei centri di cultura cristiana in Siria. Vi sono poi traduzioni in armeno e in arabo, e ci sono prove sicure della presenza dello Pseudo-Dionigi nel mondo islamico. Sul versante cristiano orientale, l’autorità degli scritti dionisiani presso i teologi bizantini è invece assicurata soprattutto da Massimo il Confessore.
È tuttavia nell’Occidente latino che l’influenza dello Pseudo-Dionigi si manifesta con tutta la sua forza. Il corpus giunge in Occidente nell’827, con il manoscritto donato all’abate Ilduino dall’imperatore di Bisanzio Michele II. Degli scritti del corpus Ilduino stesso appronta, nell’832, una prima traduzione (si dubita se completa), che trent’anni dopo serve da base alla traduzione di Scoto Eriugena, il quale, come è noto, subisce molto il fascino del pensiero dionisiano. Una nuova fioritura della fortuna dello Pseudo-Dionigi si registra a partire dal XII secolo, grazie soprattutto a Ugo di San Vittore, Isacco di Stella e Pietro Lombardo. Nel XIII secolo si occupano approfonditamente di lui teologi del calibro di Roberto Grossatesta, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio (l’unico, tra i quattro, che non scrive un commento dettagliato alle sue opere). Successivamente la presenza dello Pseudo-Dionigi è molto accentuata in mistici quali Meister Eckhart o Giovanni Taulero, come anche nello stesso Dante; mentre nel XV secolo la sua eredità spirituale e filosofica viene valorizzata soprattutto da filosofi platonici: Cusano, Pico della Mirandola e Marsilio Ficino. Questa lista, di per sé già impressionante, potrebbe essere integrata ed estesa a piacimento; ma per concludere si aggiungano a essa, a titolo di esempio, soltanto i nomi di Giovanni della Croce, Friedrich Schelling ed Edith Stein: tre pensatori che, in epoche assai distanti e animati da intenti filosofici assai diversi, hanno saputo intrattenere con le opere dello Pseudo-Dionigi un rapporto estremamente fecondo.
Pseudo-Dionigi Areopagita
Gerarchia celeste III 1-2
Gerarchia celeste, cap. III, 1-2
Secondo me, la gerarchia è un ordine sacro, una scienza ed un’attività che cerca di rendersi simile al divino per quanto è possibile e di elevarsi all’imitazione di Dio secondo le proprie capacità grazie all’illuminazione che Dio stesso le concede. E la bellezza che conviene a Dio, proprio perché è semplice, buona e principio di iniziazione, è assolutamente scevra da qualsiasi dissomiglianza, trasmette la propria luce a ciascun essere nella misura in cui ne è degno e gl’infonde la perfezione iniziandolo divinamente, giacché rende simili a sé gl’iniziati in virtù di un processo di trasformazione armonioso ed inalterabile. Lo scopo della gerarchia è quello di realizzare per quanto è possibile la somiglianza a Dio e l’unione con Lui, prendendolo come maestro di ogni scienza e di ogni azione.
Pseudo-Dionigi, Gerarchia celeste, Teologia mistica, Lettere, trad. it. di S. Lilla, Roma, Città Nuova Editrice, 1986
Pseudo-Dionigi Aereopagita
Teologia mistica II
Teologia mistica, cap. II
Preghiamo per trovarci anche noi in questa tenebra luminosissima, per vedere tramite la cecità e l’ignoranza, e per conoscere il principio superiore alla visione ed alla conoscenza proprio perché non vediamo e non conosciamo: in questo consistono infatti la reale visione e la reale conoscenza. Celebreremo allora il principio sovraessenziale in modo sovraessenziale, vale a dire eliminando tutte le cose: allo stesso modo, coloro che modellano una statua bella di per sé eliminano da essa tutti gl’impedimenti che potrebbero sovrapporsi alla pura visione della sua nascosta bellezza, e sono in grado di mostrare in tutta la sua purezza questa bellezza occulta solo grazie a questo processo di eliminazione.
Pseudo-Dionigi, Gerarchia celeste, Teologia mistica, Lettere, trad. it. di S. Lilla, Roma, Città Nuova Editrice, 1986