Pseudo Boccaccio (anche Falso Boccaccio, fin dall'Ottocento)
Boccaccio E così designata un'organica, continuata postilla trecentesca alla Commedia (attribuita in qualche codice al Boccaccio) conservata in una diecina di manoscritti e pubblicata da Lord Vernon fin dal 1846. L'editore dette sic et simpliciter una trascrizione diplomatica del tardo codice Riccardiano 1028 (del 1458), che reca tale attribuzione, seguendolo, oltre che nella grafia, nella divisione delle parole e fin negli errori manifesti e nelle lacune, solo dando in nota, o in apposita appendice, le varianti dell'odierno II I 47 (già Magliabechiano VII 1049) della bibl. Nazionale di Firenze; ne risultò forzatamente un testo lacunoso e scorretto, che il controllo sui manoscritti trecenteschi consente facilmente di migliorare e integrare. La nuova edizione critica (in corso presso la facoltà di Lettere fiorentina) non gioverà, comunque, a modificare in meglio il tono e il carattere dell'opera, che dal punto di vista storico-culturale e interpretativo rappresenta una delle maglie più fragili (anzi chiaramente fragilissima) dell'esegesi trecentesca al poema.
La datazione delle chiose si fonda su precisi accenni del commento: a If X e Pd XXX compare la data 1375; una chiosa a Pg IX è scritta (così dice il testo) il 9 gennaio 1374 (stile fior., dunque 1375); altra chiosa (Pg XXXII riporta (almeno nel codice Magliabechiano citato) al 1 agosto 1374 (stile fior. e comune). L'oscillazione del millesimo potrà dipendere dalla facilità con cui, nella trascrizione, potevano cadere gli elementi finali di una serie uguale; e il 1375 appare come la data più probabile della composizione. Abbiamo computato l'anno secondo lo stile fiorentino: ché sicuramente tale dovette essere l'anonimo autore, com'è suggerito dalla pesante sincerità linguistica (e fin grafica) della tradizione, e come conferma il vezzo di alludere a D., nel corso dell'opera, con espressioni di familiarità cittadinesca (" il nostro altore fiorentino ", p. 336; " il nostro fiorentino Dante ", p. 422; " il nostro altore fiorentino poeta ", p. 475, ecc.).
Questo è quanto si può dire (sul piano esterno) dell'autore; il quale, in clausola al commento di Pd XI, si dichiara fedele di s. Domenico (" e questo fu san Domenicho mio protettore "). Impossibile determinare se questo speciale rapporto si fondasse su ragioni meramente onomastiche; o non piuttosto di professione religiosa; certo che il tono complessivo dell'opera, la sua scarsa ‛ scolasticità ' (nel senso filosofico del termine), il disinteresse (vicino alla sprovvedutezza) per la materia filosofico-teologica del poema, non coincidono davvero con la solidità e la larghezza d'informazione consuete alla cultura domenicana e alle opere che, direttamente o indirettamente, a quella cultura s'ispirano.
Converrà in ogni caso limitare l'entità del rapporto, o quanto meno sottolineare le ristrette dimensioni dell'orizzonte culturale del chiosatore. Il quale (passiamo dall'estrinseco all'intrinseco) pur scrivendo come si è visto intorno al 1375, dunque dopo la grande stagione del commento trecentesco (si pensi alle varie redazioni dell'Ottimo e di Pietro) e in concomitanza con la fioritura - consule Giovanni Boccaccio - delle pubbliche ‛ letture ', non mostra certo di aver assorbito e meditato quella lezione, e non si allinea al livello ormai raggiunto in complesso, per successive stratificazioni, dal ‛ genere '. Non si allude qui tanto alla relativa brevità della postilla ai singoli canti, quanto alla struttura dell'opera, alla scarsa problematicità dell'esegesi globale, ai magri risultati della chiosa spicciola come dei conati di esegesi storico-culturale, e soprattutto alle numerose ingenuità (quando non addirittura vere e proprie balordaggini e cadute d'informazione) che sorprendono un lettore non immemore, appunto, delle conquiste della precedente tradizione. Alla quale, pur rimanendo nel generico, l'autore talora allude: si veda la chiosa sul Veltro (un imperatore, Cristo stesso, un papa?) che rinvia alle " assai oppenioni, e chi tiene una e chi un'altra "; o quella sul gran rifiuto, che alla tradizionale candidatura celestiniana affianca (a norma del Boccaccio, delle Chiose Ambrosiane, di Benvenuto) quella di Esaù, per poi tornare poco dopo, con Pietro nella prima redazione, definitivamente a Celestino; o ancora la chiosa sull'Acheronte, parzialmente derivata dal Lana; o quella sul Messo celeste, che allude (" Assai genti dicono ") all'interpretazione del Boccaccio (un angelo) ma poi opta, con Pietro e Benvenuto, per Mercurio. E si potrebbe continuare. Ma, come abbiamo detto, si tratta di allusioni implicite, non di rimandi precisi; e il commento si muove in effetti, assai spesso, con una libertà fantasiosa che è quanto meno indizio di noncuranza per la tradizione, se non di vera e propria trascuratezza.
Il chiosatore tende d'altronde a una dimensione di commento personale e talora chiaramente solipsistica: se ad es. per le ‛ tre fiere ' si attiene alla consueta identificazione (lussuria superbia avarizia); se l'iniziale dichiarazione di Virgilio (" le sue belle e autentiche ragioni del suo libro il quale egli [scil. D.] studiava ") rimanda alle cosiddette Chiose Selmiane (ma nella postilla al c. II coesiste anche la tradizionale identificazione con " la ragione di Dante "); se ancora nel c. II una chiosa sintetica su Beatrice, Lucia, Rachele, pur con qualche sbandamento si muove nelle linee della precedente esegesi (" E per Beatrice dèi intendere la santa Teologia nella quale Dante istudiò. Per Lucia... la grazia di Dio e lla santa iscrittura. Pe' Rachel... la vita contemplativa, la quale vita regniò nel nostro aultore Dante ") ecco che a If IV inizia un'allegorizzazione stiracchiata e insieme curiosa, poiché per il greve truono esordiale il chiosatore propone di " intendere i detti de' savi e valenti huomini, cioè per le loro iscientie e sentenzie e scritte fatte e libri lasciati per loro ", e se, poco dopo, i quattro poeti classici del Limbo sono considerati obbiettivazione concreta delle quattro virtù cardinali che confortano D. all'opera sua (" E fingie Dante per questi quatro poeti le quatro virtù chardinali... e tutte queste virtù convennono essere nell'altore a volere fare tale impresa e fare ta'libro ").
Anche di questo allegorismo tutto surrettizio e astratto potrebbero esser forniti copiosi esempi, come delle non infrequenti cadute esegetiche (un solo esempio, a Pg XXIV: " Risponde l'altore allo spirito parte d'una canzona ch'egli fecie d'amore, chosì diciendo: ... " i' mi sono un che quando Amor mi spira... " ", ecc.), ma troppo si verrebbe a prolungare quest'analisi, ben oltre la scarsa importanza dell'opera. Gioverà piuttosto indicare, per sommi capi, altri nodi d'interesse ed elementi caratterizzanti. Dal punto di vista ermeneutico, si può aggiungere che il poema è inteso (sulla linea fissata primamente dal Lana) come la storia di un traviamento teologico e filosofico di D. personaggio, e del suo successivo riscatto (si vedano in particolare le chiose a Pg XXX); quanto alla descrizione degl'interessi culturali dell'autore, cospicua, nella tramatura complessiva, appare la presenza di un interesse storico, anzi cronachistico, polarizzato verso la storia fiorentina e toscana, non senza inesattezze, incongruenze, drastiche sfasature di piani anche nei confronti di avvenimenti e personaggi storici non certo remoti, e ben oltre la consueta, medievale romantizzazione dell'antico; così, accanto a notizie di cronaca spicciola su fatti politici e personaggi (si vedano ovviamente le chiose a If VI, X, XIII, XV, ecc., e agli altri luoghi tipici, in questo senso, delle varie cantiche) può occorrere una postilla come la seguente (a Pd XXX): " A questo tempo che fu morto questo Arrigho regniava papa Bonifazio aversario di questo re Arrigho, ed era avarissimo huomo. Ma anchora dicie l'altore che dietro a questo papa Bonifazio de' venire un papa tanto peggiore di lui che ispegnierà e amorterà la fama di papa Bonifazio. E parla qui l'altore e dicie di papa Chimento quinto il quale fu assai peggiore di lui ".
Abbiamo citato questo brano non soltanto per sottolineare la facilità con cui il chiosatore confonde e livella avvenimenti storici successivi e anno fittizio della visione, ma anche per stabilire un'altra connotazione dell'opera, non tenera verso i romani pontefici e anzi chiaramente aperta a una polemica antipapale in chiave pauperistica: già la chiosa sul Veltro concludeva: " E chi tiene che sarà un papa che sarà tanto giusto e santo che questi vitj torrà via da santa Chiesa e che i suoi pastori terranno buona e santa vita, ma io no'l credo "; sintomatiche in questo senso altre chiose a If XIX e Pg XX, in una più che volenterosa adesione al contesto. Anche per quanto concerne la cultura classica e letteraria i risultati dell'inchiesta sono magri: noti all'autore Terenzio, Virgilio, Ovidio, Lucano, Svetonio, Vegezio, Macrobio, Giuseppe Flavio, il Liber Pontificalis, il Phisiologus, il Policraticus, altri testi comuni nell'età di mezzo: ma tutto è usufruito parcamente, come per sentito dire, e non porta frutti concreti all'esegesi. Si aggiunga, non foss'altro che pel problema attributivo, la citazione, in una glossa all'Inferno sulle Arpie, della Genologia: " benché di più si scriva nella Gienelogia del Bocchaccio ". Presente anche qualche rapido ma caldo giudizio di gusto concreto (a If VII 99-102: " Questa si è una bella similitudine convenevole a questi versi "; a If XIII, sulla foresta dei suicidi: " Questa fu bella e nobile fizione, e non potea essere più bella né più propia ") e, a If IV 102, un aperto, elogiativo giudizio di valore: " E per gli valenti huomini si dicie e pruovasi che diciesse vero e che bene sì gli convenne essere il sesto poeta e degno di questo numero de' sei, inperò che non fu mai veruno di senno al dì d'oggi che meglio scrivesse in prosa e in rima che Dante ": prova di un indubbio entusiasmo, non sorretto, in complesso, da altrettanta preparazione.
Bibl. - Edizione: Chiose sopra D. - Testo inedito ora per la prima volta pubblicato [a c. di G.G. Warren Lord Vernon], Firenze 1846. Studi: C. Hegel, Ueber den historischen Werth der älteren D.-Commentäre, ecc., Lipsia 1878, 35-40,; E. Cavallari, La fortuna di D. nel Trecento, Firenze 1921, 209-212; F. Mazzoni, La critica dantesca del sec. XIV, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 295.