provvidenza (provedenza)
In D. designa sia la virtù morale della ‛ previdenza ', o capacità di ordinare le azioni future proporzionando i mezzi al fine, e in tal senso rientra nell'ordine della prudenza; sia l'attributo divino che definisce l'atteggiamento di Dio verso le cose create, e di conseguenza designa l'ordine delle cose quale preesiste nella mente di Dio.
P. è l'equivalente del greco πρόνοια, reso a sua volta in latino con " providentia " o " prudentia " (cfr. Cic. Nat. deor. II 58). Nella cultura greca, la p. è attributo sia degli uomini che della divinità.
Come virtù umana, Aristotele (Eth. Nic. VI 5, 1140a 26-31) ritiene che la p. consista nel saper ordinare i mezzi al bene, considerato come fine della vita umana in generale. Cicerone include la p. tra le parti della prudenza insieme con la memoria e l'intelligenza (Invent. II LIII 160). Tommaso, che ha ben presente Aristotele e Cicerone, scrive (Sum. theol. I 22 1c): " Ratio... ordinandorum in finem proprie providentia est. Est enim principalis pars prudentiae, ad quam aliae duae partes ordinantur, scilicet memoria praeteritorum, et intelligentia praesentium; prout ex praeteritis memoratis, et praesentibus intellectis, coniectamus de futuris providendis ".
Come attributo divino, p. è divenuto termine filosofico con Platone: la ragione universale che, secondo Anassagora, domina il mondo (Platone Phaedo 97c; Arist. Metaph. I 3, 984b 15-20), diviene in Platone un'intelligenza divina che opera nella natura (Tim. 30b " Ex quo apparet sensibilem mundum animal intellegens esse divinae providentiae sanctione "). Nella scuola stoica, il termine, usato in assoluto, serve a designare la p. divina che governa il mondo (il tema è uno dei cardini della dottrina stoica; un trattato sulla p. è attribuito a Cleante, un De Providentia ha scritto Seneca; come si esprime Cicerone, p. è la " mens mundi ": Nat. deor. II 58). Di qui, nel neoplatonismo, p. oltre che una proprietà della prudenza (Macrobio Comm. in Somnium Scipionis, ediz. Willis, I 8 7) passa a indicare la seconda ipostasi divina (Calcidio Comm. in Tim., ediz. Waszink, Londra-Leida 1962, 261).
Quanto agli usi biblici p. occorre nel Vecchio Testamento a indicare un attributo divino (Ps. 65, 7 ss.; 104; 145, 15; 147, 8; Is. 22, 10; 44, 7). Nel Nuovo, invece, esso indica sempre un'attitudine umana (la ‛ cura ' dell'uomo). Nella teologia cristiana, la dottrina filosofica della p. elaborata dai Greci comincia a penetrare con gli apologisti e diventa elemento costante con la patristica (cfr., tra i testi più vicini a D., Agost. Civ. X 14, e Boezio Cons. phil. IV VI 4 ss.
1. In una serie di occorrenze, il termine in D. designa semplicemente una virtù morale, in quanto ‛ previdenza ' umana: Cv III I 10 La terza ragione fu uno argomento di provedenza; ché, sì come dice Boezio, " non basta di guardare pur quello che è dinanzi a li occhi ", cioè lo presente, e però n'è data la provedenza che riguarda oltre, a quello che può avvenire; la parte finale del passo è in realtà una parafrasi dell'espressione boeziana " rerum exitus prudentia metitur ", che è la continuazione del luogo tradotto da D. (Cons. phil. II I 15); p. rende dunque il boeziano " prudentia ".
Analogo è l'uso in Cv IV XXVII 5 [a essere prudente, cioè savio] si richiede... buona provedenza de le future [cose]; per questa accezione è da confrontare B. Latini La Rettorica, ediz. Maggini, Firenze 1968, 32-33 " Et nota che arditi sono di due maniere: l'una che pigliano a ffare di grandi cose con provedemento di ragione, e questi sono savi; li altri che pigliano a ffare le grandi cose sanza provedenza di ragione, e questi sono folli arditi ". Lo stesso valore il termine ha in Cv I VIII 8, X 10, Pd XVII 109, Ep XIII 9, Mn II VI 1, Rime dubbie XVIII 12, Fiore XXIII 3, XXX 11, LI 5, CCXXXI 13.
2. Quanto all'aspetto divino della p. va ricordato come per p. D. intende (Pd I 121), secondo l'accezione più ampia, l'ordine mondano (Pd X 21) o l'ordo naturalis (Mn II VI 3), individuato anche aristotelicamente come natura universalis, cioè l'insieme dell'ordine dei cieli che governa il mondo (cum intentioni Naturae universalis omnis natura oboediat, Quaestio 48). Quando D. parla da teologo il tono è tuttavia assai differente. Non a caso, s. Tommaso, con mirabile equilibrio, aveva posto il suo trattato De providentia Dei tra quello sulla giustizia e la misericordia divina (Summ. theol. I 21) e quello sulla predestinazione (I 23; al reggimento divino sono consacrate le quaestiones 103-119 della prima parte, un argomento distinto ma prossimo alla provvidenza). Per D. infatti la p. è ancora il " disegno generale di Dio ". Nel linguaggio comune di oggi, il vocabolo p. conserva indubbiamente molte delle accezioni presenti in D., ma mentre l'uso odierno tende a parlare della p. come oggetto di fiducia quasi cieca, D. caricò il termine di sfumature raffinate e assai pregnanti (cfr. Pd XXI 75, da confrontare con III 60, e Mn III XV 7).
Ministri e strumenti dell'ordine del mondo sono i cieli e gli angeli (Pd VIII 99, XXIX 18; per l'Empireo, cfr. I 121), mentre le creature, in quanto oggetto della p. divina, sono dette nature provedute (VIII 100; cfr. Cv I I 1, IV XXV 13). Il termine p. designa anche le ‛ disposizioni particolari ' permanenti o passeggere (Ep VII 1) dell'ordinamento divino (Mn II IX 19, Cv IV IV 9, Pd XVII 6); ovvero quelle scelte divine (Cv IV IV 10) delle quali nessuna ragione creata può rendere conto (§ 11, V 1 e 11), e di cui occorre cogliere l'intenzione al di là delle cause strumentali (IV 12). Tali disposizioni possono essere segrete (IV 12, Pd XI 28) o possono costituire un semplice intervento di dettaglio (Pd XXVII 16 e 61).
La capacità di discernere l'intervento o i disegni divini procede dall'amore, sia dall'amore verso Dio, sia dall'amore verso la creatura protetta dalla provvidenza. Sicché D. (Cv IV V 17) poté avvertire intuitivamente i disegni provvidenziali che riguardavano l'imperatore (fine della Monarchia) o Roma (cfr. Cv IV XXV 11-12, dove D. echeggia temi platonici del Simposio, e Mn II I 3 per efficacissima signa... cognovi).
Occorre notare come questi interventi della p. mirano a preparare il futuro o a rimediare al presente (Pd XXVII 61), ma sia che si tratti dell'insieme del disegno salvifico (Pd VII 60, XIII 39, XIV 70, XXXII 120) sia che si tratti di un minuscolo segno di benevolenza in un caso limitato, la p. rimane ineffabile (inenarrabilis) e insondabile (alta: If XXIII 55, Pd XXVII 61).
Per concludere citeremo la formula di Ep VI 2, dove la solennità del tono e la pregnanza di pensiero definiscono assai bene le caratteristiche della p. divina: Aeterni pia providentia Regis, qui dum caelestia sua bonitate perpetuat, infera nostra despiciendo non deserit.