PROVERBIO drammatico
Nella letteratura drammatica si è chiamato "proverbio" un componimento, che svolge in un breve dialogo un intreccio tendente a dimostrare una certa "morale", indicata appunto dal proverbio che dà il titolo al lavoro. Le lontane origini di questo "genere" si potrebbero ricercare nel "teatro edificante" caro al Medioevo e poi ai gesuiti, nelle "moralità", in certi "autos sacramentales" ecc. Sennonché in codesti componimenti la tesi era assunta con serio impegno, per un fine etico se non addirittura religioso; mentre nel componimento che, dal secolo XVIII in poi, si è chiamato dietro l'esempio francese, "proverbio", il tono è piuttosto leggiero e scherzoso, se non addirittura ironico.
Il "proverbio" così precisamente detto nacque infatti sotto il regno di Luigi XV, nei saloni di corte e della grande nobiltà francese, fra le piccole rappresentazioni del "teatro di società", e sotto forma di un breve intrigo dialogico da sviluppare con l'improvvisazione degl'interlocutori: una specie di "commedia dell'arte" per salotto, affidata alla grazia più o meno accorta di gentiluomini e dame che si dilettavano di recitare. Da principio il titolo dell'opera, ossia il "proverbio" ch'essa intendeva dimostrare, non veniva indicato; spettava al pubblico il compito di indovinarlo dall'illustrazione drammatica che gli attori ne avevano fatto; si trattava cioè d'una sorta di giuoco di società, un po' sul tipo delle cosiddette "sciarade" rappresentate. Talvolta (sotto il regno di Luigi XVI) l'improvvisazione di codesti proverbî fu affidata a improvvisatori di mestiere, ossia agli attori della Comédie-Italienne: per es., nel salotto di M. me Rochefort, a cui i piccoli intrecci erano forniti dal duca di Nivernais. La moda dei proverbî fu seguita con furore per alcuni anni; se n'interpretavano anche con la sola danza; in una "quadriglia di proverbî" danzata a Parigi nel salotto di M. me de Crénay, un gentiluomo espresse danzando il proverbio "C'est reculer pour mieux sauter"; una dama, poveramente vestita: "Bonne renommée vaut mieux que ceinture dorée"; un'altra dama, che passava più volte il fazzoletto sopra la testa del suo cavaliere truccato da negro: "A laver la tête d'un More, on perd sa lessive"; ecc.
Gran creatore di "proverbî", in uno o due atti, in prosa, fu Carmontel, che ne pubblicò più raccolte. Ma il genere fu portato alla sua più leggiadra eleganza, lirica fantasia e psicologica finezza da Alfred de Musset; il quale del resto non nascondeva d'avere tratto ispirazione da Carmontel. Già il suo primo lavoretto drammatico, pubblicato nelle Premières poésies, s'intitolava Les marrons du feu (che è la metà d'un proverbio, o modo di dire: "Se servir de la patte du chat pour tirer les marrons du feu"); e proverbî veri e proprî furono quelli, in uno o più atti, intitolati On ne badine pas avec l'amour, Il ne faut jurer de rien, Il faut qu'une porte soit ouverte ou fermée, On ne saurait penser à tout. Questi lavori, come tutto il teatro di de Musset, dopo l'insuccesso della sua prima commedia a teatro (La nuit vénitienne), erano destinati non alla rappresentazione ma alla lettura, e furono infatti pubblicati tra gli Spectacles dans un fauteuil; ma l'attrice francese Allan Despréaux, in una tournée in Russia, ebbe l'idea di rappresentarli a Pietroburgo; e il loro successo fu tale che subito dopo essi furono accolti nel repertorio della Comédie Franqaise, seguiti dagli altri lavori drammatici dello stesso poeta. Questi tuttavia, nel 1849, voleva che il manifesto della Comédie, annunciando la recita di On ne saurait penser à tout, recasse il sottotitolo: "imitato da Carmontel". Autore di proverbî in gran voga fu pure, circa il 1830, Théodore Leclerq; e proverbî scrissero anche Scribe, Sauvage, Romieu.
In Italia la moda dei proverbî si diffuse, con l'influenza del teatro francese sulle nostre scene, nella seconda metà del secolo XIX. A Chi muore giace e chi vive si dà pace (1859) e altri consimili lavoretti in un atto di Achille Torelli seguirono i proverbî di Francesco de Renzis (Un bacio dato non è mai perduto, ecc.), di Ferdinando Martini (Chi sa il gioco non l'insegni, Il peggior passo è quel dell'uscio), di Felice Cavallotti (Sic vos non vobis, ecc.), di Giuseppe Giacosa (Non dir quattro se non l'hai nel sacco), di Leo di Castelnuovo (Fuochi di paglia, O bere o affogare). In prosa o in martelliani, questi "proverbî" non ebbero pretese liriche né colori fantasiosi, ma alcuni si compiacquero con qualche eleganza nella piccola casistica dell'amore da salotto, mentre altri s'accontentarono di toni giocosi o bonarî. Gli ultimi lavori comici italiani intitolati con un proverbio, sono stati quelli in vernacolo fiorentino di Augusto Novelli: L'acqua cheta..., ... e chi vive si dà pace, ecc.