proverbi
Il proverbio (dal lat. provĕrbiu(m), da vĕrbum «parola») è oggetto di studio di numerose discipline: letteratura, sociologia, antropologia, dialettologia, storia delle tradizioni popolari (nell’insieme delle sue articolazioni, lo studio dei proverbi si dice paremiologia). Per la natura composita e il carattere quasi sempre metaforico del proverbio è difficile definire il suo statuto linguistico in modo univoco, distintivo rispetto a forme simili (in particolare l’espressione idiomatica; ➔ modi di dire) con le quali è stato spesso confuso.
Dal punto di vista della struttura enunciativa il proverbio può definirsi
una frase breve di forma lapidaria o sentenziosa, codificata nella memoria collettiva o tramandata in forma scritta, che enuncia una verità ricavata dall’esperienza e presentata come conferma di un’argomentazione, consolidamento di una previsione, ovvero come regola o ammonimento ricavabili da un fatto. Può essere formulato in forma metrica o in prosa rimata. Ha di solito tradizione antica e una certa diffusione (Lapucci 2007: IX).
Nella classificazione retorica il proverbio è una sottospecie della ➔ sentenza, definita da Lausberg (1969: 219-220) un «locus communis formulato in una frase che si presenta con la pretesa di valere come norma riconosciuta della conoscenza del mondo e rilevante per la condotta di vita o come norma per la vita stessa». Affini al proverbio sono il motto; la massima, che enuncia una regola di validità generale; l’adagio, che enuncia una regola attinente al comportamento morale o giuridico, o d’opportunità; l’aforisma, che è una sentenza dotata di capacità definitoria; l’apoftegma, detto celebre di un personaggio famoso, passato in proverbio (cfr. Mortara Garavelli 199710: 247-248). Di quest’ultimo si può considerare variante il wellerismo (che prende il nome da un personaggio del Circolo Pickwick di Dickens), che in forma di facezia ironica enuncia un’affermazione assurda o paradossale.
Sintatticamente il proverbio è un enunciato autonomo, una sequenza fissa di significato compiuto dove gli elementi non sono commutabili e l’ordine delle parole è rigido. In quanto tale il proverbio ha i caratteri di una citazione o di una parentetica (➔ parentetiche, frasi), e in questo differisce dall’espressione idiomatica che fa parte integrante della frase in cui è ospitata e il cui significato dipende dal contesto.
La specificità del proverbio risiede quindi anche nella sua veste linguistica, di cui si individuano alcune costanti formali che possono essere sintetizzate secondo determinati punti.
(a) L’articolazione è di solito bimembre. Anche se non è infrequente la struttura di una normale frase dichiarativa soggetto + predicato verbale (i ciap asmëjo aj ulle «i cocci assomigliano alle pignatte»; questo esempio e i seguenti in dialetto, varietà biellese del piemontese, sono tratti da Sella 1970), tipiche del proverbio sono infatti:
(i) la struttura tematica (➔ tematica, struttura; parenti, serpenti; Santa Catlin-a, al vacchi nt’la casin-a «Santa Caterina [25 novembre], le vacche nella cascina»);
(ii) le strutture correlative (rosso di sera, bel tempo si spera; bél an fasa, brüt an pjasa «bello in fasce, brutto in piazza»; aprile, dolce dormire);
(iii) le frasi relative (➔ relative, frasi) senza antecedente, introdotte da un pronome indipendente chi (chi va al mulino s’infarina; chi ca sa fé fé a sa fé «chi sa far fuoco, sa fare» – dove va notato anche il gioco sul significante);
(iv) non raramente i verbi in posizione finale di frase (chi troppo vuole, nulla stringe; cosa fatta capo ha).
(b) Nelle lingue moderne il proverbio mostra un uso intensivo della ➔ rima, «mezzo mnemonico potente, seppure precipuamente banalizzante» (Franceschi 2004: XVII), e delle assonanze, tratto questo che accomuna il proverbio alla lingua poetica e che rimanda alla trasmissione orale dei testi nelle culture antiche. Si ritiene infatti che a questa funzione mnemonica «si debba la presenza di siffatte caratteristiche formali alla base di ogni tradizione retorica e poetica» (ibid.: XII).
(c) Apparenta il proverbio al linguaggio poetico anche il fitto ricorso alle figure del suono, come le allitterazioni (chi mangia more muore), combinate o no con paronomasie del tipo dottore dolore, amore amaro, schemi che favoriscono facili ➔ giochi di parole e bisticci (➔ bisticci di parole), spesso a fini ludici o parodici. La brevità e la concisa densità dell’espressione sono sottolineate da figure (➔ retorica) del parallelismo per opposizione, nella forma dell’antitesi (chi dice donna, dice danno) o del chiasmo (l’onore porta l’oro, non l’oro l’onore).
(d) Una delle peculiarità del proverbio è poi la presenza di giochi del significato e figure retoriche come la ➔ metafora (il mattino ha l’oro in bocca), la similitudine (la donna bella è come la castagna, / bella di fuori e dentro ha la magagna) e l’➔iperbole.
La potenza espressiva del proverbio risiede dunque nella sua densità retorica; il contenuto è spesso banale e scontato, ma le metafore associate a un significato sono saldamente radicate e riconosciute nel loro valore dalla comunità che le tramanda di generazione in generazione. A sua volta la fissità formale delle sequenze proverbiali rispecchia la fissità ideologica dei contenuti: esse «sono così immobili e salde nella loro interiore staticità che sopportano, senza frantumarsi ma senza evolvere, le contraddizioni più palesi. Che anzi l’esistenza di massime tra loro in contrasto, e pur tuttavia giudicate egualmente autorevoli, è cosa connaturata alla loro funzione ed essenza» (Cirese 1976: 15). Ricorrenti sono quindi le formulazioni del tipo quando il sole va sotto il cappello, o che piove o che fa bello, e specularmente si trova tanto la forza contro la ragion non vale quanto contro la forza la ragion non vale.
Franceschi (2004: XVII-XVIII e XII) opera una distinzione funzionale dei proverbi in due grandi settori:
(a) i detti didattici, contraddistinti «dalla funzione fattuale, di utilità pratica e di pertinenza nettamente antropologica»; tipici, ad es., quelli calendariali e meteorologici o quelli che impartiscono consigli di vita pratica per la salute, l’igiene, le relazioni sociali;
(b) i detti paremici, che vanno inquadrati nel codice retorico e che esprimono per analogia, «in modo succinto e icastico e con forte effetto retorico, un consiglio o un parere (di preteso valore universale) relativo ai più vari aspetti del vivere e dell’agire umano».
La realtà storica culturale e linguistica dell’Italia è segnata da una spiccata frammentazione e differenziazione dialettale, e la storia della lingua scritta colta e letteraria si è sempre intrecciata con la vitalità dei dialetti, registrando fin dalle origini la commistione di elementi colti e popolari. A ciò si aggiunge il fatto che la componente proverbiale nel patrimonio linguistico italiano è sempre stata molto ingente (Serianni 2010). L’origine dialettale di molti proverbi accolti nell’italiano si può cogliere fra l’altro da alcune incongruenze formali (per es., assonanze e consonanze che negli equivalenti dialettali sono rime perfette) o contenutistiche (il riferimento a tempi dei lavori agricoli svolti in periodi differenti nelle zone del Nord e del Sud).
La ricchezza del panorama dialettale italiano si riflette in un’ampia varietà di proverbi in tutti i settori dell’esperienza toccati. Franceschi (2000), ad es., riporta, per la parola chiave pazienza, 27 proverbi di varia area dialettale, dai noti e scontati la pazienza è l’arma dei forti, la pazienza è la madre delle virtù (ma anche il suo contrario: la pazienza è la virtù degli asini) o anche la pazienza ha un limite, a frasi lapidarie come la pazienza fa scienza o colla pazienza si vince tutto; a generalizzazioni come chi non ha pazienza, non ha pace, o chi ha pazienza col filo ha pazienza anche col marito; a forme sintatticamente o semanticamente più complesse e specifiche come la pazienza è come una molla: tira e tira, a un certo punto si spezza, o fatti cornuto, che la pazienza ti viene, o chi ha pazienza ha i tordi grossi a un quattrin l’uno, o ancora la pazienza è come la piscia: un po’ si tiene e poi sguiscia; fino a giochi metalinguistici come colla ‘pazienza’ [«il cordone dei frati»] s’è sposato un frate; ecc. Il vivace panorama dell’Italia dei dialetti è documentato anche in numerose raccolte di proverbi e detti popolari in singole varietà dialettali. L’opera di Sella (1970) è una fra le prime a impiegare una metodologia dialettologica moderna, con raccolta sul campo di 2770 proverbi e detti dell’area biellese.
Anche se non appare fondato il tenace pregiudizio che considera i proverbi deposito della saggezza popolare, cristallizzata in forme immobili e ricorrenti, e che guarda alla cultura popolare per cogliere la genuina e schietta anima del popolo con il suo bagaglio di valori di moralità condivisi dalla collettività, la sanzione sociale è comunque un potente fattore di identità e di riconoscimento all’interno di una comunità. Da questo punto di vista i proverbi, in virtù della loro immobilità ideologica e formale, hanno sancito e trasmesso di generazione in generazione un codice di regole e di ammaestramenti tanto più efficace in quanto riprodotto in forme stereotipe, generiche e generalizzanti. Questo fatto spiega, tra l’altro, l’assenza nei proverbi di tratti locali tipici o individualizzanti di una cultura.
Si veda il tema dell’accanimento contro chi cade in disgrazia: al tosc. sopra l’albero caduto ognuno corre a far legna corrispondono, per es., il fr. quand l’arbre est tombé tout le monde court aux branches; lo spagn. del árbol caído todos hacen leña; il romeno la copacul căzut toti aleargă să taie crengi. La matrice è l’apoftegma mediolatino arbore deiecta ligna quivis colligit, la cui ampia diffusione è indice dell’unitario tessuto culturale europeo medievale.
Anche la storia della tradizione dei proverbi nella lingua italiana scritta inizia muovendo da un fondo comune: «gran parte delle locuzioni paneuropee oggi in voga (come del resto molti proverbi e paragoni fissi) risalgono al comune fondo culturale greco, latino, poi cristiano, medievale e rinascimentale» (Lurati 2002: 166). Già alla cultura greca si deve l’allestimento di raccolte proverbiali, perché i proverbi – come gli indovinelli e gli enigmi – erano considerati una componente importante dell’arte oratoria e del bello stile. Particolarmente feconda è nella letteratura medievale, didattica e d’altro genere, la convergenza tra favola e proverbio, sul modello delle favole esopiche esemplari per la sintetica chiusa morale.
Le prime serie proverbiali documentate in volgare vanno ricondotte alla ininterrotta vitalità del patrimonio paremiologico antico e del medioevo latino. La più antica, del XIII secolo, è quella dei 240 Proverbi di Garzo, il notaio bisavolo di ➔ Petrarca. I Proverbi sono raccolti in gruppi di 12, ordinati alfabeticamente in base alla lettera iniziale, e ognuno di essi consta di un distico, di estensione sillabica variabile, a rima baciata, del tipo donna leale / gran tesoro vale. Altre raccolte antiche sono: i Proverbia quae dicuntur super natura feminarum, il più antico testo misogino in volgare italiano, di area veneta; il volgarizzamento dei Disticha Catonis del milanese Bonvesin da la Riva; lo Splanamento de li Proverbii de Salamone del cremonese Girardo Patecchio. Alcuni passi della Divina Commedia sono considerati proverbiali, a probabile conferma di prelievi da repertori preesistenti, anche se in molti casi rimane il dubbio che siano divenuti memorabili grazie alla straordinaria popolarità del poema dantesco. La novellistica, il genere più aperto alle immissioni di lingua parlata e colloquiale, accoglie una gran messe di proverbi, per lo più a fini comici (esemplare anche in tal senso è il modello del Decameron). Il cospicuo interesse della cultura umanistica per i proverbi è di natura filologica ed erudita. Un posto a parte meritano gli oltre 4000 Adagia di Erasmo da Rotterdam, la più importante e nota silloge dell’epoca, sia per la ricchezza del materiale raccolto sia per la copiosa erudizione del commento; agli Adagia attingono anche le opere dei maggiori scrittori italiani, da ➔ Ludovico Ariosto a ➔ Baldassarre Castiglione, ad ➔ Alessandro Manzoni, a ➔ Giovanni Verga.
Una netta contrapposizione tra proverbio dotto e proverbio popolare è fittizia, dal momento che è praticamente impossibile stabilire l’effettivo campo di origine. La prima raccolta a stampa di proverbi italiani è l’anonima operetta, di ambiente veneziano, titolata Dieci tavole dei proverbi (Torino 1535). Si tratta della riduzione a libro di una serie di dieci grandi tavole (circolante nei primi decenni del Cinquecento), dove erano elencati «in flessibile e autonomo ordine alfabetico circa centocinquanta proverbi, sentenze e modi di dire» (Cortelazzo 1995: 2). Nel 1598 è stampata a Verona l’importante raccolta di Orlando Pescetti, Proverbi italiani, la prima a registrare proverbi in gran parte di tradizione orale, mescolati con modi di dire, fraseologia, metafore, ecc. Poco dopo esce il Floris Italicae Linguae libri novem, di A. Monosini (Venezia 1604); a Monosini gli Accademici della Crusca (➔ accademie nella storia della lingua) affidano lo spoglio per il vocabolario dei proverbi latini e greci. Nel Seicento e Settecento i poeti eroicomici sfruttarono con successo la mescolanza di forme della letteratura alta con elementi proverbiali popolari e bassi, profusi copiosamente nelle loro opere.
Il fenomeno non è solo italiano ed è, ad es., ampiamente attestato nelle opere di F. Rabelais, di M. de Cervantes, di W. Shakespeare, così come ancor prima nei Racconti di Canterbury di G. Chaucer. A Francesco Redi, tipico esponente di un atteggiamento culturale spregiudicato, molto aperto ad attingere all’ambito popolaresco, si deve il Vocabolario aretino ricchissimo di proverbi e di locuzioni popolari.
Nell’Ottocento i Proverbi toscani (1853 e 1871) di G. Giusti e G. Capponi inaugurano una nuova stagione della paremiologia, in quanto i criteri di raccolta e di analisi sono radicalmente innovativi e aprono la strada ai raccoglitori successivi. Giusti, che per primo raccoglie i proverbi dalle dirette fonti orali e li confronta con le relative testimonianze scritte, ordina il materiale per grandi aree tematiche (amicizia, amore, astuzia, avarizia, ecc.); questa classificazione è di indubbia praticità, ma inevitabilmente crea sovrapposizioni, che si ritrovano nelle numerose raccolte posteriori che adottano questo tipo di ordinamento tematico.
Dopo l’Unità, la scuola positivista affronta lo studio del folklore su basi scientifiche e secondo un’ottica antropologica. Non si ricerca più nel mondo popolare la genuina anima della nazione, visione cara al Romanticismo, ma si indagano le fonti dei testi popolari e le loro relazioni con i testi antichi di tradizione dotta. Anche nel campo dei proverbi si applica (per es., da parte di G. Strafforello) il metodo comparativo e filologico al fine di ricostruire in modo attendibile gli schemi-tipo soggiacenti all’enunciato proverbiale, e quindi il significato di base, le aree di diffusione e le varianti, i contatti tra culture diverse.
Nel secondo Ottocento è fondamentale l’opera del siciliano Giuseppe Pitrè, che in collaborazione con Salvatore Marino raccolse sul campo una immensa documentazione confluita nella Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane (1871-1913), in 25 volumi di cui 4 dedicati ai Proverbi siciliani raccolti e confrontati con quelli degli altri dialetti d’Italia (1879-1881). Le classiche raccolte di Giusti e di Pitrè sono state prese a modello per le numerose ricerche che si sono via via intraprese nelle diverse aree dialettali e che confluiscono in repertori tuttora utili. La campagna antidialettale del fascismo (➔ fascismo, lingua del) fa segnare una battuta d’arresto negli studi folklorici. Dopo la seconda guerra mondiale, una nuova attenzione (a volte di carattere paternalistico o ingenuamente idealizzante) verso il mondo e la cultura dei contadini e delle classi subalterne ed emarginate produce una miriade di repertori paremiografici non sempre rigorosi e attendibili.
A lato delle raccolte in lingua si colloca l’impresa diretta da Temistocle Franceschi dell’Atlante paremiologico italiano, iniziato nel 1968 e concluso nel 2000, che registra circa 20.000 detti proverbiali delle singole parlate locali. L’opera intende documentare la tradizione orale del detto proverbiale ancor oggi viva nel nostro territorio nella sua varia veste regionale e locale. La ricerca studia i proverbi sulla base della loro distribuzione geografica e con il corredo delle varianti, spesso molto numerose. Il materiale è suddiviso in dodici sezioni tematiche, dall’uomo fisico, al mondo economico, al mondo vegetale e animale, fino al soprannaturale.
Negli ultimi anni gli studi paremiologici hanno prodotto dizionari di proverbi in lingua che si distinguono sia per la ricchezza documentaria, sia per un sistema funzionale di rinvii che consente di ricostruire la catena delle forme affini o per significato o per somiglianze formali. Il Dizionario dei proverbi di Boggione & Massobrio (2004) riporta 30.000 detti raccolti nelle regioni italiane e tramandati dalle fonti letterarie. La struttura del Dizionario è ad albero, a partire dalle dieci categorie più generali (la natura, le età della vita, la vita di relazione, le gioie e le miserie della vita, il destino, ecc.), da cui discendono le successive ramificazioni suddivise in catene di proverbi dove trovano posto le numerose varianti sia sul piano della formulazione sia sul piano semantico.
Questo ordinamento per sequenze sinonimiche ha il pregio di rendere trasparente il significato dei numerosissimi proverbi figurati, altrimenti opaco soprattutto ai parlanti attuali, ai quali manca quasi totalmente l’ambito di conoscenze di pratiche e di esperienze legate al mondo rurale.
Il Grande dizionario dei proverbi italiani (Guazzotti & Oddera 2006) ordina invece gli 11.000 proverbi registrati in 5700 famiglie semantiche, «individuate sulla base di un “progenitore” (talora cronologico, altre volte archetipico per la sua efficacia e i suoi contenuti a cui riportare le principali (fra le infinite) varianti)» (ibid.: 6); fornisce la ricostruzione dei possibili significati; e abbandona l’ordinamento tematico a favore dell’ordinamento alfabetico.
A sua volta il Dizionario dei proverbi italiani (Lapucci 2007) raccoglie 25.000 detti con lo scopo di fornire una raccolta dei proverbi che si trovano nell’uso comune; e li ordina per sinonimi e contrari e per un sistema di rinvii volto a ricostruire le «tessere di un grande mosaico, che hanno il loro posto nel sistema e collegamenti di significati, di forme, di analogie, d’immagini con una imprecisata quantità d’altri» (ibid.: XXX). I proverbi vi sono elencati in ordine alfabetico sulla base della parola principale, ossia il termine più significativo. Fondamentale per la compilazione dei vastissimi repertori oggi disponibili è ora l’ausilio offerto dagli strumenti informatici, dalle banche dati e dalle opere lessicografiche in linea o corredate da CD-Rom.
La creazione neologica «si è di fatto quasi arrestata nel corso dell’ultimo mezzo secolo» (Boggione 2004: XXV), con alcune eccezioni legate alle innovazioni tecnologiche, come il noto donna al volante, pericolo costante, ma sono casi rari, perché nella cultura e nella lingua contemporanea i proverbi stanno scomparendo, non appartengono più alla competenza attiva e passiva della maggioranza dei parlanti, in particolare dei giovani.
Il fenomeno ha cause molto evidenti. Inevitabilmente, con il tramonto della civiltà contadina, l’industrializzazione, l’alfabetizzazione di massa, la diversificazione sempre più specialistica dei saperi scientifici, è tramontata anche la cultura dei proverbi che nella campagna ha avuto il suo centro più vitale e duraturo, e si è spezzata la tradizione unitaria del codice di valori e di principi racchiuso nei proverbi.
In realtà nella comunicazione quotidiana i proverbi ricorrono ancora abbastanza frequentemente, ma sono impiegati per inerzia, come stereotipi, spesso fraintesi nel loro significato originario. I giovani dal canto loro non fanno uso di proverbi e non li capiscono, prediligendo per l’espressione di sé altre forme brevi. Massime di scrittori e filosofi, citazioni da spettacoli, canzoni, fumetti circolano via Internet o si sedimentano in contenitori e spazi inediti e ignoti al sistema proverbiale del passato: nei diari, nei graffiti, nelle scritte murali. I veri eredi dei proverbi sono oggi gli slogan pubblicitari che condividono con le forme antiche la brevità, la densità espressiva, e la cura degli effetti fonico-ritmici capaci di imprimere l’enunciato nella mente del consumatore e di comunicare un messaggio tanto più incisivo quanto più perentorio.
Boggione, Valter (2004), Lógos, dialogo, letteratura, in Boggione & Massobrio 2004, pp. XIX-XXXVII.
Boggione, Valter & Massobrio, Lorenzo (2004), Dizionario dei proverbi. I proverbi italiani organizzati per temi. 30000 detti raccolti nelle regioni italiane e tramandati dalle fonti letterarie, Torino, UTET.
Cirese, Alberto M. (1976), Verga e il mondo popolare: un procedimento stilistico nei “Malavoglia”, in Intellettuali, folklore, istinto di classe. Note su Verga, Deledda, Scotellaro, Gramsci, Torino, Einaudi, pp. 3-32.
Cortelazzo, Manlio (a cura di) (1995), Le dieci tavole dei proverbi (1535), Vicenza, Neri Pozza.
Franceschi, Temistocle (a cura di) (2000), Atlante paremiologico italiano. Questionario. Ventimila detti proverbiali raccolti in ogni regione d’Italia, Alessandria, Edizioni dell’Orso.
Franceschi, Temistocle (2004), La formula proverbiale, in Boggione & Massobrio 2004, pp. IX-XVIII.
Guazzotti, Paola & Oddera, Maria Federica (2006), Il grande dizionario dei proverbi italiani, Bologna, Zanichelli.
Lapucci, Carlo (2007), Dizionario dei proverbi italiani, Milano, Mondadori DOC.
Lausberg, Heinrich (1969), Elementi di retorica, Bologna, il Mulino (ed. orig. Elemente der literarischen Rhetorik, München, Hueber, 1949).
Lurati, Ottavio (2002), Per modo di dire … Storia della lingua e antropologia nelle locuzioni italiane ed europee, Bologna, CLUEB.
Mortara Garavelli, Bice (199710), Manuale di retorica, Milano, Bompiani (1a ed. 1988).
Sella, Alfonso (1970), Raccolta di proverbi e detti popolari biellesi, Biella, Centro Studi Biellesi.
Serianni, Luca (2010), Sulla componente idiomatica e proverbiale nell’italiano di oggi, in Lingua storia cultura. Una lunga fedeltà. Per Gian Luigi Beccaria. Atti del Convegno internazionale di studi (Torino, 16-17 ottobre 2008), a cura di P.M. Bertinetto, C. Marazzini & E. Soletti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, pp. 69-88.