PROVENZA (A. T., 35-36)
Antica provincia della Francia sud-orientale, il cui territorio nel 1789 fu diviso nei tre dipartimenti delle Bocche del Rodano, delle Basse Alpi e del Varo; a questi si aggiunsero nel 1793 il dipartimento di Valchiusa, già formante il Contado Venosino e nel 1860 una parte della contea di Nizza. Difficili a precisare sono i limiti naturali, tanto più che la Provenza non costituisce un'unità geografica, ma si scinde in regioni diverse per natura del suolo e morfologia; tuttavia si possono distinguere in essa tre unità fisiche principali: l'Alta Provenza o Provenza calcarea, la Provenza cristallina e la Bassa Provenza. L'Alta Provenza, limitata a N. dai massicci alpestri che la separano dal Delfinato e che per il Ventou, la Montagne de Lure e il gruppo dei Trois Évêchés si riallacciano alla catena alpina, comprende i bacini medî della Durance e del suo affluente il Verdon e il bacino superiore del Varo. Regione dal rilievo variato, prevalgono in essa depositi del Secondario, che formano a NE. gli altipiani calcarei di Valensole, di Canjuers, di Caussols, in tutto simili ai causses del Massiccio Centrale; sul terreno sterile, in cui manca la circolazione superficiale, non crescono che magri pascoli; alcuni plans, nome con cui vengono localmente indicati tali altipiani, sono dei veri deserti di sassi. Le acque vi scorrono profondamente incassate, formando gole che raggiungono perfino i 500 m. di profondità (gola del Verdon), famose per la loro orrida bellezza. Terreni calcarei, fortemente ripiegati, costituiscono anche quell'insieme di rilievi compreso col nome di Piccole Alpi di Provenza, nelle quali si alternano alture rotondeggianti e bacini, questi ultimi ricoperti da sedimenti terziarî; si succedono da N. a S. la Montagne du Léberon, la Montagne de Sainte-Victoire (1011 m.) la catena della Sainte-Baume (1154) e dell'Étoile (800 m.). Una depressione che si stende dallo stagno di Berre al golfo di Fréjus, incisa nelle argille e arenarie permiche e percorsa dall'Arc e dall'Argens, separa la Provenza calcarea dalla Provenza cristallina, formata dai massicci dei Maures e dell'Estérel che a forma di ellisse allungata si stendono in direzione OSO.-ENE.; il primo, compreso tra i bassi corsi del Gapeau e dell'Argens, ha un'altezza media oscillante tra i 300 e i 700 m.; a E. di esso s' innalza l'Estérel, insieme di rocce vulcaniche primarie associate a terreni permici e culminante nel M. Vinaigre (616 m.). Si riattaccano ai Maures i gruppi isolati dei Maurettes, le isole d'Hyères (v.) e il Capo Sicié. Foreste di pini e sugheri ricoprono gran parte dei terreni cristallini, che conservano un carattere aspro e selvaggio. La Bassa Provenza abbraccia l'estremo sud-occidentale della regione, formato da terreni alluvionali terziarî e quaternarî, che accompagnano i corsi inferiori del Rodano e della Durance e comprende la Camarga, la Crau e la pianura di Saint-Remy, quest'ultima fertile e ricca regione di antico popolamento. La vasta (600 kmq.) pianura della Camarga si stende a forma di triangolo da Arles al mare, tra il Grande Rodano e i due bracci del Piccolo Rodano (Grau d'Orgon e Grau Neuf), abbracciando tutta la regione deltizia del Rodano, costituita di sabbia, ghiaia e limo alluvionale e seminata di stagni, che occupano 1/3 circa della superficie. Solo una parte della Camarga, la più vicina al mare e quindi di più recente formazione, rimane ancora disabitata e dominio dei branchi di tori bradi che un tempo pascolavano su tutta la regione. Il resto è stato, dall'opera dell'uomo, conquistato all'agricoltura e oggi viti, foraggi, riso e grano occupano vaste estensioni. La Crau, formata dall'antico corso della Durance, che un tempo sboccava direttamente nel Mediterraneo a E. del delta del Rodano, occupa anch'essa una vasta superficie (500 kmq.), formata di depositi alluvionali grossolani; dove non è stata trasformata dall'irrigazione si presenta come una steppa, dominio, per secoli, della pastorizia transumante (pecore), mentre la regione messa a coltura è coperta di alberi da frutta, olivi e ortaggi. La diversità dei terreni che si affacciano al Mediterraneo si rispecchia nella natura della costa che, piatta e monotona tra il Grau Neuf e lo stagno di Berre, dom la Crau e la Camarga si affacciano al mare, cambia improvvisamente d'aspetto quando subentrano gli antichi massicci o le alture calcaree; la costa diventa un seguito di promontorî, che cadono a picco sull'acqua, alternantisi a strette insenature (calanques), alcune delle quali (Port Miou, Port Pin, Prodastat) sono valli sommerse, riconoscibili per la lunghezza, i meandri e le larghe valli che in esse sboccano, altre, invece, sono dovute piuttosto all'erosione marina (calanques de l'Escalette, de Croisette). Numerosi i rifugi sicuri, ma per lo più poco ampî e di scarsa importanza, ove manchino buoni accessi verso l'interno. Si deve appunto alla facilità delle comunicazioni con la valle del Rodano l'importanza acquistata dal porto di Marsiglia rispetto agli altri porti della Provenza. Le acque della regione vanno tutte al Mediterraneo o attraverso il Rodano (v.) e i suoi affluenti e subaffluenti di sinistra (Durance, Verdon, Bléone, Buech), tutti provenienti dalla regione alpina, o direttamente per mezzo dei brevi corsi d'acqua della Provenza marittima. Tra questi ultimi il maggiore per lunghezza di corso è l'Argens (101 km.). Dato il regime irregolare e la forte pendenza, i corsi d'acqua della Provenza, quando si escluda il Rodano, non sono in alcun tratto navigabili, ma hanno importanza per la forza motrice e l'irrigazione. Le acque della Durance, canalizzate, servono a irrigare 55.000 ha., quelle del Verdon e della Sorgue circa 5500 ha.
Una certa unità alla Provenza conferisce il clima, tanto che, basandosi su questo, si suole comprendere in essa tutta la regione costiera fino al confine italiano. Se si eccettua la regione montuosa interna più elevata, nella quale il clima presenta caratteri alpini, tutta la regione ha clima mediterraneo; gl'inverni sono miti e lungo tutta la fascia costiera raramente e per breve tempo si hanno temperature inferiori a 0°; il regime mediterraneo delle piogge con massimi in primavera e autunno e prolungata siccità estiva, domina su tutto il litorale; Marsiglia su una media di 562 mm. ne riceve soli 94 da maggio a settembre; le precipitazioni da un minimo di 450-500 mm. (Crau e Camarga) raggiungono i 1000 mm. e più nella valle del Rodano. Frequenti nell'inverno le brusche variazioni di temperatura in relazione con il mistral, vento secco e freddo che soffia dal N.
La diversità del terreno si rispecchia nella varietà delle colture: negli aridi plans calcarei l'allevamento del bestiame, specie degli ovini, costituisce l'unica risorsa degli abitanti. La coltivazione del grano associata a quella dell'olivo e della vite, sulla quale era basata l'economia agricola di gran parte della Provenza, ha ceduto il posto, nelle zone meglio esposte e irrigate, alle coltivazioni di ortaggi primaticci, frutta e fiori (Valle del Rodano, pianure del Contado Venosino, Provenza marittima). Nella Crau e nella Camarga, come già si è accennato, vaste estensioni sono state conquistate all'agricoltura dall'irrigazione, pur essendo rimasta l'una e l'altra regioni di allevamento del bestiame. Mentre nelle montagne della Provenza interna il mantello boschivo è stato quasi dappertutto asportato, vaste aree (296.000 ha.) copre ancora il bosco (sugheri, pini) nei Maures e nell'Estérel, per quanto la superficie sia diminuita notevolmente in seguito agl'incendî del 1918, 1919, 1921. Qualche importanza ha la pesca costiera (tonno e sardine), che si esercita da Martigues a Cassis e a la Ciotat con una flottiglia di circa 1500 barche. L'industria estrattiva riguarda lo sfruttamento delle miniere di bauxite, dalle quali si estraggono i 4/5 della produzione francese; inoltre le saline della Camarga producono in media 160.000 tonn. di sale all'anno. Le industrie, tolte alcune derivanti dalla lavorazione di prodotti agricoli (molini, stabilimenti per conserve alimentari, ecc.), che prosperano in varî centri, sono localizzate a Tolone (costruzioni navali, fonderie, cordami) e soprattutto a Marsiglia (industria molitoria, zuccherifici, distillerie, industria chimica, metallurgica, costruzioni navali, ecc.). Va inoltre ricordata l'industria turistica, che sta prendendo un notevole sviluppo nelle località più pittoresche dei Maures e dell'Estérel.
La popolazione al 1931 contava circa 1.800.000 ab., con una densità di 88 ab. per kmq., che presenta variazioni fortissime; da densità tra le più basse di tutta la Francia (13 abitanti per kmq.) nella Provenza alpina e nei plans si sale ai 200 e più nella valle del Rodano e nella regione costiera (dintorni di Marsiglia e Tolone). Le scarse risorse offerte dalla terra, l'attrazione che esercitano le città della costa e la bassa natalità hanno determinato una notevole e costante diminuzione nella regione interna provenzale, mentre in forte aumento è tutta la valle del Rodano e la regione costiera per l'immigrazione interna e soprattutto estera. Il dipartimento delle Bocche del Rodano ha, infatti, dopo quello della Senna, il maggior numero di stranieri (248.800 al censimento del 1931; 22,5%). Caratteristico è il fenomeno dell'urbanesimo, per il quale Marsiglia e Tolone riuniscono da sole circa la metà della popolazione, che in tutta la Provenza vive in massima parte accentrata. Città principali sono: Marsiglia (800.880 abitanti), il maggior porto della Francia e la seconda città della repubblica per numero di abitanti; Tolone, porto militare (133.260 ab.); Avignone (57.228 ab.), Aix-en-Provence (38.330 ab.), antica capitale della regione; Arles (32.485 ab.) all'inizio del delta del Rodano; Hyères (22.967 ab.); la Seyne-sur-Mer (26.850 ab.).
Arti figurative.
La Provenza è la regione più ricca di monumenti dell'arte cristiana primitiva: da una parte si ha un'incomparabile collezione di sarcofaghi, conservati soprattutto ad Arles (Alyscamps); dall'altra parte una curiosa serie di piccoli battisteri dei secoli V-VII a Venasque, Riez, Aix, Fréius, Marsiglia. Le chiese romaniche provenzali formano una scuola a sé; ma non si possono disgiungere dall'insieme dell'architettura romanica diffusa dalla Lombardia alla Catalogna. La Provenza è una delle prime terre in cui fiorì l'arte romanica, la cui impronta si conserva anche nei monumenti del sec. XII. Questi edifici hanno, per la maggior parte, la navata coperta con vòlta a tutto sesto su archi doppî, mentre le navate laterali sono coperte con vòlte a quarto di cerchio. I pilastri sono ad aggetto rettangolare. Tali sono la cattedrale di Vaison (ricostruita tra il 1010 e il 1030); la chiesa di Saint-Paul-Trois-Châteaux e quella di Saint-Trophime d'Arles (sec. XII). Caratteristica principale di questi edifici è la decorazione scultorica, in cui gli elementi derivati dall'antichità romana hanno parte principale. Capolavori della scultura romanica in Provenza sono il chiostro di Saint-Trophime ad Arles, e la sua facciata (data dubbia: probabilmente fine del sec. XII), la facciata di Saint-Gilles-en-Languedoc. Nel sec. XII i costruttori lombardi introdussero in Provenza la vòlta ogivale (Saint-Victor, a Marsiglia). Del resto l'architettura religiosa gotica non ha lasciato in Provenza monumenti paragonabili a quelli delle epoche precedenti, nonostante la bellezza della cattedrale di Fréjus e della chiesa di Saint-Maximin. Invece, l'architettura civile ha prodotto un capolavoro, che è il palazzo papale d'Avignone, iniziato da Benedetto XII appena salito al pontificato nel 1335 (architetto Pierre Poisson), ingrandito e terminato da Clemente VI.
Ma l'importanza della Provenza alla fine del Medioevo consiste soprattutto nella pittura. Già i papi avevano chiamato nella regione Simone Martini e poi Matteo da Viterbo. Nel sec. XV Avignone ed Aix furono due grandi centri della pittura europea e vi affluirono artisti da tutti i paesi, attratti dai cardinali-legati o dal mecenatismo del re Renato. Lo studio, tutt'altro che ultimato, di questa pittura avignonese ha già fatto riconoscere parecchie personalità di artisti, quali Enguerrand Charonton e soprattutto Nicolas Froment. Il Froment, che operò nella seconda metà del sec. XV, è notissimo per il suo trittico della Galleria degli Uffizî, forse già eseguito nel 1449, ma ha ancora il capolavoro della sua maturità nella cattedrale di Aix, il trittico del Roveto ardente, dipinto per il re Renato. Ma molte opere di pittura rimangono anonime, come la Pietà di Villeneuve-lès-Avignon (Louvre), di cui si dubita se sia francese, fiamminga o catalana. L'Annunciazione nella cattedrale d'Aix è anch'essa tuttora di autore incerto (fu anche attribuita al napoletano Colantonio); si sa soltanto che è dovuta a un'ordinazione locale, di cui si trova traccia nel 1442.
Nel campo della scultura, già così fiorente all'epoca romanica, la bottega di Francesco Laurana, chiamato verso il 1460 da Renato, ha valso alla Provenza qualche bel postergale e qualche bella tomba. Nel sec. XVII l'influsso italiano sulla Provenza si manifesta ancora una volta con la potente personalità di Pierre Puget, discepolo del Bernini. Poco dopo, i lineamenti dell'arte provenzale si confondono con quelli dell'arte francese: la bella serie di dimore private costruita a Aix nel sec. XVIII non ha più accento locale. Nel sec. XIX la rinascita letteraria della Provenza non trova riscontro nelle altre arti, sebbene non sia da tacere il nome di Cézanne, al quale i dintorni di Aix fornirono molti soggetti, e di Monticelli, pittore del Porto vecchio di Marsiglia. (V. tavv. LXXIX-LXXXIV).
V. anche aix, II, tavv. I e II; arles, IV, tavv. LXXI-LXXIII; attico, V, tav. LXXIII; italia, XIX, p. 1034.
Bibl.: H. Revoil, Architecture romane du Midi de la France, Parigi 1873; L. H. Labande, Études d'histoire et d'archéologie romaines: Provence et Bas Languedoc, Parigi 1902; A. Hallays, Avignon (Villes d'art célèbres), ivi 1909; id., En flânant..., la Provence, ivi 1914; J. Formigé, Les monuments romains de la Provence, ivi 1924; Encyclopédie départementale des Bouches-du-Rhône, Marsiglia 1928-33; R. Doré, L'art en Provence, Parigi 1930; Puig i Cadafalch, La geografia i els origins del primer art romanic, Barcellona 1932: Congrès archéologique de France; session de Avignon, 1909; Valence et Montélimar, 1923; Aix et Nices, 1932, Parigi 1910, 1924 e 1933; L. H. Labande, Peintres et peintres-verriers de la Provence occidentale, ivi 1933; L. Deshairs, Aix-en-Provence, Architecture et décoration aux XVIIe et XVIIIe s., ivi 1910; R. Rey, L'art gothique du Midi de la France, ivi 1933.
Storia.
Antichità. - Il nome di Provenza deriva da Provincia, la provincia romana. Infatti quella parte della Gallia che fin dal 122 a. C. era stata sottomessa dai Romani (vedi gallia) per molto tempo fu chiamata semplicemente provincia o provincia nostra. In Cesare si trova anche Gallia provincia, provincia ulterior (in contrapposizione a provincia citerior, la Gallia cisalpina), in Cicerone Gallia transalpina. Da Augusto in poi il suo nome ufficiale è Gallia Narbonensis.
Il territorio della Provincia era molto più esteso di quello dell'odierna Provenza. Mentre questa comprende il paese posto tra le Alpi marittime, il Mediterraneo, il Rodano e la Durance, quella era limitata a E. dalle Alpi a partire dal lago Lemano fino al Mediterraneo, a S. dal Mediterraneo tra le Alpi e i Pirenei, a O. da una linea che andava, oltre Tolosa, dai Pirenei al confluente Tarn Garonna, a NO. dalle Cevenne, a N. dal corso superiore del Rodano.
Per la storia della Gallia Narbonense fino a Cesare v. gallia. Cesare proconsole aveva fatto molto per dare incremento alla romanità nella provincia; da dittatore compì quest'opera di assimilazione fondando varie colonie di veterani. Massilia (Marsiglia), assediata e presa da Cesare nel 49 a. C., restò città libera, ma perdette la sua antica potenza; quasi tutto il suo territorio fu dato ad Arelate (Arles), colonia di veterani fondata per ordine del dittatore nel 46 a. C., alla quale passò anche una parte del commercio marittimo di Marsiglia. Come ad Arles i veterani della VI legione, così furono stanziati ad Arausio (Orange) quelli della II, a Baeterrae (Béziers) quelli della VII, a Forum Iulii (Fréjus) quelli dell'VIII, a Narbona quelli della X. Inoltre numerose città ricevettero, sia da Cesare sia da Augusto, il diritto latino: a E. del Rodano Antipolis (Antibes), Reii, Aquae Sextiae (Aix-en-Provence), Avennio (Avignone), Apta (Apt), Carpentorate (Carpentras), Vasio Vocontiorum (Vaison), Vienna (Vienne) e forse Cabellio (Cavaillon); a O. del Rodano Alba Helvorum (Aps), Luteva (Lodève), Carcaso (Carcassona), Ruscino (Castel Roussillon), Tolosa. Sicché la città (colonia romana o colonia latina) costituiva nella Gallia Narbonese, come in Italia e in Africa, l'unità territoriale e amministrativa.
Nel 27 a. C. Augusto pose la Gallia Narbonense tra le provincie imperiali, ma nel 22 la costituì in provincia senatoria; ne modificò un poco il territorio, togliendole, nei Pirenei, il popolo dei Convenae, organizzati da Pompeo intorno a Lugdunum Convenarum (Saint-Bertrand-de-Comminges) e i Consorani loro vicini e passandoli all'Aquitania; d'altra parte costituì nelle Alpi, a spese della Gallia Narbonense e dell'Italia settentrionale, le tre nuove provincie delle Alpi Marittime, Cozie e Pennine.
La capitale della provincia era Narbona; al tempo di Antonino Pio, a quanto pare, fu trasferita a Nîmes. Vi risiedeva il proconsole, che era un ex-pretore, assistito da un questore e da un procuratore incaricato dell'amministrazione dei beni imperiali. A Narbona vi era inoltre un flamen Augusti incaricato di celebrare il culto dell'imperatore in nome della provincia; in occasione di tali feste si teneva a Narbona un'assemblea provinciale. Tale istituzione è nota specialmente da una grande iscrizione, scoperta nel 1887.
Un'istituzione comune alla Gallia Narbonense, alle tre Gallie (Aquitania, Lugdunense, Belgica), alle due Germanie e alle Alpi Pennine e Cozie era la quadragesima Galliarum, ossia la tassa del 21/2% del valore delle merci importate ed esportate; a questa amministrazione era preposto un procuratore. Inoltre le tre provincie della Gallia Narbonense, della Gallia Lugdunense e dell'Aquitania avevano in comune un praefectus vehiculorum.
Dal 22 a. C., in cui la Gallia Narbonense divenne provincia senatoria, non vi fu più tenuta guarnigione. In compenso gli abitanti di questa provincia formirono numerose reclute alle legioni e alle coorti pretorie e urbane, come attestano le iscrizioni. A Forum Iulii (Fréjus) stazionava una flotta di guerra, costituita da Augusto con le navi prese ad Azio; non sembra tuttavia che essa sia stata mantenuta oltre il sec. I d. C.
La Gallia Narbonense era solcata da numerose vie. Fin dal 122 a. C. il console Cn. Domizio Enobarbo aveva costruito la Via Domitia, che congiungeva la riva destra del Rodano con la Spagna per Nîmes e Narbona; a oriente del Rodano, che si transitava su barche e zattere tra Beaucaire e Tarascona, due vie risalenti a remota antichità conducevano verso l'Italia, una salente alle Alpi Cozie, l'altra discendente verso Aix e la costa marittima. I Romani non si occuparono di queste due strade fino al 12 a. C.: probabilmente nell'età repubblicana il mantenimento di esse era affidato a Marsiglia. Sotto Augusto il collegamento con l'Italia fu assicurato da una grande via che prolungava l'Aurelia fino a Fréjus e ad Aix; da Aix non meno di quattro grandi vie conducevano ad Arles, che andò diventando il passaggio del Rodano più frequentato e dove nel sec. I si costruì un ponte. Sulla riva sinistra del Rodano Augusto costruì una strada in direzione S.-N., da Arles a Lione. In questa parte della Provincia alla rete stradale si accompagnava la navigazione fluviale; l'importanza di essa è attestata dalla corporazione di battellieri (nautae) del Rodano e della Saona, con sede a Lione, della Durance, dell'Ardèche, dell'Ouvèze, con sede ad Arles. Nella parte occidentale della provincia il nodo stradale più importante era Tolosa, donde partivano vie per Narbona, Bordeaux, Saint-Bertrand-de-Comminges e Dax; il valico dei Pirenei occidentali si compiva per il colle di Sompart e per quello di Roncisvalle.
La grande riforma amministrativa attribuita a Diocleziano divise dapprima la Gallia Narbonense in due provincie, la Viennense e la Narbonense, poi in tre, Viennense, Narbonense prima e Narbonense seconda. La Viennense comprendeva la parte settentrionale dell'antica provincia e una striscia di territorio lungo la riva sinistra del Rodano fino a Marsiglia; sua metropoli fu dapprima Vienna, poi Arles. La Narbonense prima, con metropoli Narbona, comprendeva la parte occidentale dell'antica provincia; la Narbonense seconda ne comprendeva l'estremità sud-orientale, con metropoli Aix. Il governatore della Viennense era un consularis, quelli delle due Narbonensi avevano il titolo di praesides.
Per l'evangelizzazione della Provenza v. gallia (pp. 318-320).
Medioevo ed età moderna. - Nell'alto Medioevo la Provenza fu invasa varie volte dalle popolazioni barbariche. Nel tempo stesso in cui cadeva l'impero d'Occidente, Eurico conquistava Arles e Marsiglia e istallava i suoi Visigoti nella regione; più tardi furono i Franchi e i Burgundi a calar giù da settentrione, finché gli ostrogoti di Teodorico non li respinsero e non occuparono la Provenza, verso il 510. Ventisei anni più tardi, a mezzo d'un accordo diplomatico, i Franchi furono riconosciuti sovrani della regione, la cui storia si ridusse a una serie di spartizioni, spesso oscure, tra i re merovingi, inframmezzate da nuove invasioni barbariche e da epidemie. Carlo Martello fu costretto a intervenire varie volte in Provenza per sedare ribellioni; dopo di lui vi furono lunghi periodi di tranquillità, interrotti però talvolta dalle imprese piratesche degli Arabi. Nell'855 l'imperatore Lotario assegnò la Provenza e il ducato di Lione al figlio Carlo; tale fu l'origine del cosiddetto regno d'Arles, il quale, dopo un periodo di scomposizione, fu ricostituito più tardi da Carlo il Calvo e dato a Bosone, che fu incoronato re a Montaille nell'879. Ma il paese fu riconquistato in gran parte dagli ultimi carolingi, e solo nell'890, dopo varie vicende, il figlio di Bosone, Ludovico il Cieco, fu eletto re. Sotto il regno di questo il vero arbitro del paese fu Ugo, uno dei principali feudatarî, eletto nel 926 re d'Italia. Ugo cedette tutti i suoi diritti sulla Provenza a Rodolfo di Borgogna, e così il paese entrò a far parte d'un vasto e inorganico complesso territoriale. Sotto i nuovi sovrani della dinastia borgognona Corrado (937-93) e Rodolfo III (993-1032) la Provenza entrò gradatamente nell'orbita del Sacro Romano Impero fino a divenirne parte integrante, allorché Rodolfo III istituì suo erede Corrado il Salico. Di qui ebbero origine tutte le posteriori pretese degl'imperatori al dominio della Provenza; pretese che non si poterono mai tradurre in autorità effettiva, anche a causa del forte sviluppo della feudalità nel paese.
Ai primi del sec. XII la Provenza passò alla signoria della casa di Barcellona, che dovette sostenere continue lotte con i conti di Tolosa, suoi potenti rivali. Durante la minorità di Raimondo Berengario IV (1209-1245) si scatenò la famosa crociata contro gli Albigesi (v.), che doveva avere la più grande influenza sul destino di tutto un popolo. Tornato signore della Provenza nel 1216, R. Berengario fu fedele alleato della Chiesa contro Federico II.
Nel 1246 Carlo d'Angiò sposò Beatrice, figlia ed erede di Raimondo Berengario, e divenne così conte di Provenza. Sotto il governo di Carlo d'Angiò e dei suoi successori diretti Carlo II, Roberto e Giovanna, la Provenza fu tratta a partecipare attivamente agli affari italiani: da una parte e dall'altra s'ebbe un forte scambio d'influenze di carattere culturale ed economico. Altra causa della frequenza dei rapporti fra l'Italia e la Provenza fu il trasferimento del papato ad Avignone ad opera di Clemente V nel 1309; trasferimento che in origine non doveva essere che provvisorio, provocato com'era dall'imminente riunione del concilio di Vienna (1311-12), ma che non tardò ad essere definitivo, per una durata di circa settant'anni, fino al 1377. Nel 1382 la Provenza passò a un altro ramo della casa d'Angiò, impersonato da Luigi I, al quale successero Luigi II (1384-1417), Luigi III (1417-34) e infine Renato, erede del ducato di Lorena-Bar, principe notevole per le sue qualità guerriere e per il suo interessamento alle arti. Tutti questi sovrani della dinastia angioina cercarono di far valere le loro pretese nel regno di Napoli, ma inutilmente, e non di rado la Provenza dovette subire le conseguenze delle loro spedizioni disgraziate. Renato morì nel 1480 lasciando la contea a Carlo III, il quale si spense l'anno seguente, dopo aver nominato suo erede il re di Francia Luigi XI.
L'unione della Provenza alla Francia fu proclamata solennemente nel 1486. Le prerogative tradizionali furono mantenute, e nel 1501 fu fondato il Parlamento, massimo organo giudiziario. Gli avvenimenti più importanti della prima metà del sec. XVI furono l'invasione del connestabile di Borbone nel 1524 e quella di Carlo V nel 1536, che non raggiunsero alcun durevole successo. Nel 1545 si ebbe la strage dei Valdesi del Lubéron, che fu il segno precursore delle lotte religiose che insanguinarono la Provenza dal 1562 al 1586. Ristabilita la pace, i Provenzali dovettero lottare per difendere le loro prerogative, minacciate dalla politica della corona. Per provvedere al continuo bisogno di denaro dello stato, Richelieu era ricorso all'uso di creare nuove cariche per venderle. Questo sistema suscitò malcontento in Provenza, e talvolta anche aperte ribellioni, come nel 1648, dopo la limitazione dell'attività giudiziaria del parlamento di Aix con l'istituzione di un semestre. La politica di Luigi XIV fu molto simile a quella di Richelieu; inoltre durante il suo regno e quello del suo successore Luigi XV la Provenza ebbe a subire varie invasioni straniere, particolarmente importanti quelle austro-sarde del 1707 e del 1746-47. Alla rivoluzione la Provenza ha dato Pascalis e Mirabeau. Divisa poi nei dipartimenti delle Bocche del Rodano, del Varo, delle Basse Alpi e di Valchiusa, la Provenza ha perduto una fisionomia politica propria; ma i suoi costumi, la sua lingua e la sua letteratura, rifiorita recentemente, ne testimoniano ancora la profonda individualità.
Bibl.: Tra le raccolte di fonti ricordiamo: R. Poupardin e M. Prou, Recueil des actes des rois de Provence (855-928), Parigi 1920; F. Benoit, Recueil des actes des comtes de Provence appartenants à la maison de Barcelone, voll. 2, Monaco Pr. e Parigi 1925; G. Arnaud d'Agnel, Les comptes du roi René, voll. 3, Parigi 1908-10; id., Politique des rois de France en Provence, voll. 2, Parigi e Marsiglia 1914; H. Stein, Lettres inédites de Charles VIII relatives à la Provence (estr. dall'Annuaire-Bull. de la Soc. de l'hist. de France, 1923), Parigi 1924. Le antiche storie generali della Provenza, come quelle di A. Du Chesne, C. de Nostradamus, A. de Ruffi, H. Bouche, J.-F. de Gaufridi, J.-P. Papon, Ch.-F. Bouche, L. Méry, A. Fabre, F. de Gingins la Sarra, debbono essere utilizzate con precauzione. Una storia generale moderna che sia completa e sia condotta con indirizzi sicuramente critici, manca ancora. Per il periodo preistorico e protostorico si consulti R. Montandon, Bibliographie générale des travaux palethnologiques et archéologiques, I e supplem., Ginevra, Lione e Parigi 1917-21. Tra i lavori moderni di carattere più o meno monografico si vedano: E. Camau, La Provence à travers les siècles, voll. 4, Parigi 1908-30 (fino ai primi del sec. XV); P. Castanier, Histoire de la Provence dans l'antiquité, voll. 2, Parigi e Marsiglia 1893-6; G. de Manteyer, La Provence du Ier au XIIe siècle, voll. 2, 2ª ed., Gap 1926; J. Escudier, L'évangélisation primitive de la Provence, 3ª ed., Tolone 1929; Eu. Duprat, La Provence dans le haut Moyen-âge (406-1113), Marsiglia 1923; F. Kiener, Verfassungsgeschichte der Provence seit der Ostgothenherrschaft bis zur Errichtung der Konsulate (510-1200), Lipsia 1900; R. Poupardin, Le royaume de Provence sous les Carolingiens (855-933?), fasc. 131 della Bibl. de l'Éc. de Hautes Études, Parigi 1901; V. L. Bourrilly e R. Busquet, La Provence au Moyen-âge (1112-1481), Marsiglia 1924; P. Fournier, Le royaume d'Arles et de Vienne (1138-1378), Parigi 1891; A. Lecoy de la Marche, Le roi René, voll. 2, ivi 1875; E. Camace, La réunion de la Provence à la France, ivi 1931; V. L. Bourrilly, Charles-Quint en Provence (1536), estr. dalla Revue Hist., CXXVII, ivi 1918; E. Arnaud, Histoire des protestants de Provence, du Comtat-Venaissin et de la principauté d'Orange, voll. 2, ivi 1884; J. Vignier, La convocation des États Généraux en Provence, Parigi e Marsiglia 1896; G. Guibal, Le mouvement fédéraliste en Provence en 1793, Parigi e Marsiglia 1896; G. Guibal, Le mouvement fédéraliste en Provence en 1873, Parigi 1908. Sulla storia delle istituzinoi si vedano i lavori di F. Cortez, Les grands officiers royaux de Provence au Moyen-âge, Aix i. P. 1921; R. Busquet, Histoire des institutions de la Provence de 1482 à 1790, nel 3° vol. dell'Encyclopédie départementale des Bouches-du-Rhône, Marsiglia 1920; P. Cabasse, Essais historiques sur le Parlement de Provence, voll. 3, Parigi 1826.
Lingua.
La lingua dei trovatori, che appare già elaborata e provvista di tratti ben determinati e distinti nei più antichi poeti (Guglielmo IX, Cercamon, Marcabru) e che ci permette perciò di supporre un periodo di gestazione anteriore al sec. XII (periodo che sfugge alle nostre indagini per mancanza di documentazione letteraria), era una lingua illustre, aulica, che variamente e molto discretamente si colorava di qualche caratteristica dialettale nei poeti delle diverse regioni, ma che aveva un fondo comune, per il quale poteva essere intesa perfettamente e usata in tutta la Francia meridionale. Tipo, dunque, di lingua letteraria, alquanto convenzionale, nel quale venivano a coincidere e a comporsi e a livellarsi, per un processo di nobilitazione proprio dei linguaggi illustri, molte peculiarità delle parlate meridionali, mentre qualche incertezza permaneva e mentre non scompariva la possibilità dell'uso di doppie forme. In fondo, questa lingua trobadorica può essere assunta a tipo dell'antico provenzale, fermo restando che i dialetti veri e proprî erano altra cosa, questi dialetti che come il pittavino, l'occitanico, ecc. la alimentavano. Il problema fondamentale di questa lingua sta nel modo come si è venuta formando e su quale parlata si fondi, perché non v'è lingua letteraria, per quanto convenzionale e artificiale sia, che non riposi in origine sopra un determinato dialetto, anche se questo abbia finito con rinunciare a gran parte della sua individualità.
Questo antico provenzale aveva tratti profondi e vitali che lo differenziavano (e ancor più lo differenziano) daI francese, come: la conservazione di a in sillaba libera (paire, tal, fenomeno che molto imperfettamente si può limitare al nord con una linea sinuosa che, movendo a un dipresso da Bordeaux, giunge a la Rochette; la conservazione di -a finale (terra), nella moderna lingua oscuratasi in -o; la continuazione del ditt. au (aur, "oro"); la generale tendenza, salvo condizioni speciali, al mantenimento delle vocali toniche aperte (è ed ò); lo scadere a -d- e -b- (e non sino al dileguo e a -v-) di -t- e -p- intervocalici (vida "vita"; saber "sapere"); la formazione del perf. della I con. 3ª pers. sing. sull'analogia di dedit (amet "amò"); l'uso del più che perfetto indic. come condizionale; la forma anar, in luogo di aller, andare, ecc. Ma tutti questi e altrettali fenomeni, che valgono a individuare l'antico provenzale, e, insomma, il provenzale letterario, non giovano alla soluzione del problema che più interessa, e che è quello della base di questa lingua letteraria.
A sentire un antico trattatista, Ramon Vidal, che scriveva intorno al 1210, la lingua dei trovatori si diceva "limosina". Certo è un fatto che limosini furono alcuni dei celebri poeti; ma il termine "limosino" abbracciava per lui (e per l'autore delle Leys d'Amors, che ripeteva un secolo dopo l'opinione espressa dal Vidal nelle Razos de trobar) la "Proenza, Alvernha, Caersin" e "totas (terras) lor vezinas", cioè tutta la Francia meridionale. Insomma, già Ramon Vidal aveva il senso della κοινή, in cui avevano scritto i poeti contemporanei a lui.
Ad incamminarci verso una soluzione adeguata varranno le considerazioni seguenti. I trovatori potevano, a loro piacere, lasciar cadere o mantenere la cosiddetta -n instabile (cioè l'-n in fine di parola, rimasta scoperta dopo la caduta della vocale finale, p. es. canson "canzone", fin "fino"). Ora, la Francia meridionale medievale, per quanto concerne questo fenomeno, si può dividere in due sezioni: orientale e occidentale. Nella sezione orientale abbiamo l'-n instabile conservato (pan, vin, baron, ecc.), nella sezione occidentale l'n cade (pa, vi, baro). I due fenomeni s'incontravano allora in quel territorio che va sotto il nome di antica provincia di Linguadoca. Si noti ora che ad analoghe conclusioni si arriva se consideriamo il palatalizzarsi o meno di ca- (per es., chauxa e cauza) negli antichi testi e il risolversi di -ct- in -jt- e -ch- (per es., fait e fach). La lingua dei trovatori si permetteva di adoperare indifferentemente ca- e cha- (canson, canso, chanson e chanso) e jt e -ch-, sicché siamo anche qui condotti a un dominio in cui avveniva l'incontro dei due fenomeni. Come si desume dagli antichi testi e come anche insegnano le condizioni attuali, quali appaiono dall'Atlas linguistique de la France (per es. cc. 254 chaud e 746 lait), questo dominio dové essere nel territorio di Linguadoca, o insomma, in un'area linguistica centrale. Era naturale che i poeti oriundi, a ragion d'esempio, di un paese ove ca- era conservato, lo mantenessero, pur disponendo di una doppia forma. Altrettanto si dica di -jt- e di -ch- e di qualche altro fenomeno meno importante (p. es., -ll in occidente in palatale lh e al centro e in oriente in -l). Data l'estensione e la natura di queste doppie forme, è ammissibile che a base della lingua letteraria stia una parlata centrale, in cui tratti diversi siano venuti a contatto.
Questa dimostrazione ci lascerebbe perplessi, se non potessimo darla anche per via negativa. Se esaminiamo i succedanei delle forme "habent, faciunt, vadunt", vediamo che esse si sono risolte rispettivamente in au (habunt), fait (facunt), vau (vadunt) in gran parte della Francia del sud, mentre la lingua letteraria (salvo qualche caso d'ibridismo in testi, come la Vita di S. Enimia) ignora queste forme. Ora, esse erano proprie dei territorî corrispondenti alle Basse-Alpi, alle Alpi Marittime, Aveyron, Cantal, Lot, Lot-et-Garonne, Lozère, Tarn, Tarn-et-Garonne. Come si vede, abbracciavano una parte della Linguadoca, ma un'altra parte di essa restava esclusa. D'altronde il limosino vero e proprio, come base della lingua letteraria, è escluso da fenomeni quali i seguenti: ga- in ja-; ch- rappresentato talora da j (jamin "caminu"); caduta costante della dentale sonora intervocalica, mentre i poeti, che pur s'attenevano generalmente all'uso della loro regione, si permettevano una certa libertà; risoluzione che si potrebbe dire costante di l cons. in u (ceits, deus per cels e dels e anche chasteu, castello). La Provenza propriamente detta è esclusa dal costante palatalizzarsi di -jt- in -ć(fach, drech), dal costante mantenersi di -n, ecc. Il pittavino è escluso anch'esso da altri fenomeni, come la vocalizzazione di l (o ll) dopo a; il dittongo di ei da é chiuso, ecc., fenomeni che soltanto sporadicamente e per eccezione si trovano nei trovatori (come in Guglielmo IX), nei quali anche sempre sporadicamente si potranno trovare in rima altri tratti dialettali (perf. 3ª della I coniug. in -ec accanto a -et, o in -a alla guascone, ecc.). Insomma, il tipo della Linguadoca o, almeno, un tipo centrale, non periferico, è stato il dialetto base della lingua letteraria. Con ciò non si vogliono punto escludere i varî e diversi influssi dialettali e non si pretende di negare che i poeti limosini non abbiano molto contribuito ad elevare la lirica occitanica ad un grado notevole di altezza. Nel Limosino, soprattutto al tempo della maggiore e migliore fioritura di trovatori, la lingua letteraria ebbe grande voga e impulso. In questo senso si capisce, forse, come C. Chabaneau si compiacesse di dire "limosina" la lingua dei trovatori, quasi riecheggiando, a distanza di secoli, l'antico trattatista Ramon Vidal.
Sino alla fine del sec. XIII questo antico provenzale si accampò di fronte al francese, dinnanzi alla cui gloria e potenza cedette a cominciare dal sec. XIV. All'era della lingua letteraria successe quella dei dialetti, perché lingua letteraria era ormai il francese. Oggi il provenzale, nella varietà delle sue parlate, comprende circa un terzo della Francia, sebbene al nord abbia perduto terreno, sopraffatto dalle parlate francesi. Si parla ancora nel principato di Monaco, eccettuati i vecchi quartieri della città, e in un piccolo angolo dell'Italia e della Spagna. In tutto, si può ritenere che un dieci milioni di persone siano in grado di usare, nel loro discorso, il provenzale.
Parlando del dominio occidentale della Francia meridionale, non abbiamo di proposito trattato del guascone, che stacchiamo dal provenzale, perché ha caratteristiche proprie (-ll- in -r-, apera "appellat", bera "bella"; -ll in t (d), bet "bello", ed "illum", saied "sigillo"; r- in arr-, arram "ramo,; f- in h aspirato, hil "filo"; -n- intervocalico scompare; -l in u, mau "male"; v in b, nabera "novella"). Si stacca il guascone dal dominio provenzale per ragioni analoghe a quelle per cui si stacca il catalano (v. catalogna: IX, p. 418), che si considera come lingua a sé, fra le altre romanze; ma le parlate provenzali occidentali, di mano in mano che si procede verso ovest, preludono al guascone e al catalano con tratti sporadici come v in b, la 3ª del perf. di I coniug. in -a: cantá, trobá, ecc.
Una classificazione generale dei dialetti provenzali si può fare in base allo sviluppo dei gruppi ca in posizione forte (all'iniziale e nell'intermo dopo consonante) e -ct-, e anche in base al fenomeno, già ricordato, della caduta di -n; ed è una classificazione che vale per la lingua moderna, ma più per l'antica, salvo inevitabili e spiegabili ondeggiamenti. Per il fenomeno di ca- e -ct- può valere questo schema:1. cha- da ca-, e ch (ć) da -ct- (chauza, fach), nei territorî corrispondenti agli attuali dipartimenti di Haute-Vienne, Corrèze, Dordogna, Aurillac; 2. chauza-fait: Creuse, Puy-de-Dôme Haute-Loire, Cantal, Ardèche; 3. cauza-fait: Aude, Ariège; 4. cauza-fach: Linguadoca e Provenza propria. Oggi in parecchi territorî la palatale (ch) si è assibilata (p. es. nella Dordogna: tsauzo; e neI Tarn, dove prima si era avuto ct in ch: lats, "latte"). Altrove è penetrata la forma francese o è caduto l'elemento finale (per es., Vaucluse: fa "fatto"). Quanto alla caduta, o meno, di -n mobile o instabile, le condizioni sono le seguenti: la caduta (con concomitante nasalizzazione della vocale) si verifica nell'ovest e nel nord (Gers, in parte di Lot-et-Garonne, Lot, Dordogne, Corrèze, Cantal, Creuse, Puy-de-Dôme, Alta-Loira, Isère, Alte-Alpi), si conserva a cominciare da Lot-et-Garonne, sino al dipartimento del Varo. Mentre nell'antica lingua -n opponeva al centro e all'est resistenza, oggi, per influsso francese, la caduta si fa sempre più comune.
La nasalizzazione nella Francia meridionale si è venuta intensificando con l'influsso francese. In antico la nasale chiudeva la vocale (bẹn, bẹ; vẹn, ve, ecc.). Più tardi l'ha nasalizzata e ha oscurato l'a in o (mo, po "mano, pane"). Ma in confronto con la Francia, si può parlare di seminasalizzazione, come è mostrato anche dal modo come i meridionali pronunciano il francese. Quasi completamente il fenomeno si è svolto nel Limosino, in Alvernia e anche nella valle del Rodano.
I tratti che caratterizzano poi l'insieme dei parlari modemi sono i seguenti (alcuni proprii s'intende, dell'antica lingua): dittongamento di ǫ??? e di ê soltanto dinnanzi a ù (w) e a una palatale romanza (uoi, uei "oggi", uech "octo", luoc, luec "luogo", mieu "mio", sieis "sei", sex); chiusura in u del lat. volg. ọ??? (crous "croce"); oscuramento di á in o dinnanzi a nasale in grande parte del dominio (Limosino, Périgord, Quercy, Rouergue, parte del Delfinato), p. es. po, mo "pane, mano"; chiusura di o- in u (mourtau "mortale"); finale -a tende a -o (terro "terra").
È opportuno insistere sul dittongamento condizionato di ǫ??? e ê a cui abbiamo accennato, dittongamento proprio dell'antica e della moderna lingua. Le condizioni odierne sono le seguenti:
Gli sviluppi, come si vede, sono di grande delicatezza nella lingua attuale. Anche lo svolgimento di -ct- nei dialetti moderni ha subito trasformazioni e livellamenti notevoli:
Nella prima pers. plur. dei verbi, alla finale -ons del francese, rispondono -am, -em. Nell'imperfetto, il provenzale conserva le forme piene, p. es. portava, avia (franc. portoit, portait; avoit, avait). È da notare che il sistema verbale, nei suoi tratti fondamentali, si accorda con quello catalano. In particolare, si noti il passaggio dei perfetti forti a deboli (ant. prov. dec "debui", prov. mod. degul, diguí, e così cregtuí, traguí, remanguí, prenguí, ecc.). A questo proposito, si osservi che il perfetto è molto usato, e così si adopera comunemente l'imperfetto soggiuntivo, ormai sostituito in francese moderno dal presente. Molti parlari hanno conservato l'antica costruzione pronominale (p. es. lou bous donnarai "j e vous le donnerai"; li lou pagué "il le lui paya"; lou m'as levat "tu me l'as ôté").
Il dramma di queste parlate meridionali consiste nella secolare oppressione a cui hanno soggiaciuto, a cui vanno soggiacendo, per opera del francese. Cominciato già nel sec. XIII-XIV, l'influsso della lingua francese sino a mezzo il sec. XV non aveva soggiogato i dialetti; ma, durante il secolo seguente, il francese s'impose, si propagò dappertutto. Ne venne, in certe classi sociali, una sorta di contaminazione: da un lato i dialetti s'infrancesarono e dall'altro il francese, parlato nel mezzogiorno, s'imbastardì. Il diffondersi del francese s'intensificò poi con la tendenza decisa alla centralizzazione e col progredire del potere monarchico verso l'unificazione. Insomma, il problema diventò un problema insieme politico e culturale, per quanto durante la Rinascenza i tempi fossero propizî al propagarsi della lingua letteraria della Francia. L'infrancesarsi dei paesi meridionali per via dell'amministrazione fu una vittoria della monarchia. Con l'"ordonnance" di Villers-Cotterets (agosto del 1539) l'uso del francese fu ufficialmente imposto, senza restrizioni e riserve. Registri, contratti, inchieste, atti di tribunale, sentenze, ecc., dovevano essere redatti "en langage maternel françois et non autrement". L'unità della lingua, insomma, divenuta un affare di stato. Il bilinguismo si fece sempre più comune nelle provincie meridionali; il francese premette ognor più con la forza e l'autorità di una illustre e potente tradizione. E, nonostante gli sforzi dei Felibri, i dialetti cedettero e cedono sempre più terreno. Sembrano oggidì votati alla morte.
Bibl.: P. Meyer, La langue romane du midi de la France et ses différents noms, in Annales du Midi, I (1899); G. Bertoni, in Revue des lang. romanes, 1913, p. 500, recensendo H. Morf, Vom Ursprung der provenzalischen Schirftsprache, Berlino 1912, ha sostenuto che la base della lingua letteraria trobadorica va ricercata al centro del dominio provenzale e non alla periferia. Opinione analoga è sostenuta da A. Jeanroy, La poésie lyrique des trobadours, I, p. 45 segg.; E. Gamillscheg, Zur sprachlichen Gliederung Frankreichs, in Hauptfragen der Romanistik, Festschr. Ph. A. Becker, 1924, p. 50 segg. Per l'antica lingua, A. Grandgent, An outine of the Phonology and Morphologie of the Old Provençal, Boston 1905; O. Schultz-Gora, Altprovenzalisches Elementarbuch, 3ª ed., Heidelberg 1915; J. Anglade, Grammaire de l'ancien provençal, Parigi 1921; V. Crescini, Manuale per l'avviamento agli studi provenzali, Milano 1926.
Per l'antica e moderna lingua, H. Suchier, Die franz. u. provenz. Sprache, ne Grundriss der roman. Philol. di G. Gröber, I, 2ª ed., 1904 (trad. di P. Monet, Le français et le provençal, Parigi 1891); A. Brun, Recherches historiques sur l'intorduction du français dans les provinces du Midi, Parigi 1923; C. Chabaneau, Grammaire limousine, Parigi 1876; E. Koschwitz, Grammaire historique de la langue des Félibres, Greifswald-Avignone 1894; F. Krüger, Sprachgeographische Untersuchungen in Languedoc und Roussillon, in Rev. de dial. romane, III, v (1911-13); J. Ronjat, Essai de syntaxe des parlers provençaux, Monaco 1913. Una bibliografia sommaria degli studî sui dialetti provenzali si troverà alle pp. xxxii-xxxv della cit. Gramm. de l'anc. prov. dell'Anglade. K. Appel, Provenzalische Lautlehre, Lipsia 1918.
Letteratura.
La gloria dell'antica letteratura provenzale risiede nella poesia dei trovatori, cioè nella lirica cortese, aulica, cavalleresca. Qui sta il vanto vero e proprio dell'antica Provenza, e non già in altre forme letterarie che furono in grande onore in Francia.
Alla Provenza, a ragion d'esempio, mancò quasi del tutto la poesia epica: quasi del tutto, diciamo, ma non proprio del tutto. Una vecchia teoria, la quale assegnava un gran numero di poemi epici perduti alla Francia meridionale - giustificata dal fatto che fra il sud della Francia e il nord della Spagna sta il teatro di varie canzoni di gesta pervenuteci in lingua d'oïl - è ormai abbandonata dagli studiosi. Non è detto, infatti, che dal luogo d'azione si debba arguire l'origine di un poema o che il poema debba essere stato composto là dove sono avvenuti i fatti cantati. Ma se questa vecchia teoria (Raynouard, Fauriel) è stata distrutta, non per questo dobbiamo credere che la Francia meridionale sia stata negata proprio assolutamente alla poesia epica, come si potrebbe credere accogliendo con troppa assolutezza e rigore le ricerche di P. Meyer e P. Rajna, i quali hanno confinato nella Borgogna, patria del Girart de Roussillon, l'epopea provenzale. Questo lungo poema, composto verso la metà del sec. XII, narra le avventure di un Girardo, che può ben essere quell'omonimo duca di Provenza, ben noto nella storia di Francia dello scorcio del sec. IX, ed è veramente la più splendida e pura canzone di gesta provenzale. Sarebbe, però, strano che dal Rodano al Golfo di Guascogna non fosse potuta fiorire l'epopea, mentre tutta la Francia settentrionale risonava di canzoni di gesta. La verità deve essere che i monumenti di quest'epopea meridionale sono andati perduti. La redazione provenzale del Fierabras sta però a mostrarci come fosse diffuso in terra provenzale il gusto dell'epopea; e il poema di Daurel e Beton, il frammento di una canzone su Aigar e Maurin e quello di Tersin o Roman d'Arles e, inoltre, il poema che s'intravvede dietro la cronaca ducentesca detta di Philomena sono altrettante prove d'una innegabile attività epica anche nella Francia meridionale.
Questo per ciò che concerne il ciclo nazionale. Ma anche i poemi bretoni e d'avventura furono in voga, quali il Jaufre, il Blandin de Cornoalha, Guilhem de la Barra e, soprattutto, quel meraviglioso poema di Flamenca, che è una delle più preziose gemme delle letterature medievali. Scritto nel sec. XIII, è così sapido, aggraziato, così squisitamente cavalleresco, che basterebbe da solo a rappresentare degnamente tutto un genere. Vi si riflettono le costumanze aristocratiche e gl'ideali della società aulica di quel periodo storico. È un poema, che con la sua vicenda d'amore e col modo come è raccontata, sembra scritto per la società femminile di quel tempo.
Anche la poesia didattica, moraleggiante e religiosa non fu ignota all'antica letteratura provenzale. Quella didattica e moraleggiante è già rappresentata dal più antico testo poetico occitanico a noi giunto (fine del sec. X), cioè dal frammento detto di Boeci (versione del De consolatione phyosophiae di Boezio), e quella religiosa, oltre che da poesie liriche, parte anonime e parte dovute a trovatori, da varie vite in versi e in prosa di santi (quella di S. Fede, di S. Trofimo, di S. Margherita in versi, di Santa Doucelina in prosa, ecc.), per lasciare da parte altri testi di minore rilievo. In particolar modo notevoli e interessanti per l'ispirazione eloquente e garbata sono le poesie alla Vergine Maria.
Con tutto ciò resta sempre che l'espressione letteraria tipica e gloriosa della Provenza fu la poesia lirica. Che i più antichi trovatori a noi noti (Guglielmo IX, Cercamon, Marcabru) siano stati i primi poeti cortesi di Provenza, è da escludersi, se si tiene conto del grado di elaborazione della loro lingua poetica, degli schemi della loro poesia, del loro frasario convenzionale, tutte cose che parlano in favore di una tradizione letteraria più o meno lunga e, in ogni modo, notevole. Ma, allo stato delle nostre conoscenze, riesce impossibile ricostruire, neppure frammentariamente, codesta tradizione. Il problema rientra, in ogni modo, in quello generale dell'origine della lirica romanza. E tutto ciò che si può dire è che dovette esistere in Francia, prima di quella cavalleresca o cortese, rappresentata dai trovatori e dai troveri, un'altra poesia di forma e intenti poco diversa, cancellata dal tempo, e preceduta a sua volta da una poesia popolareggiante, di cui resta qualche vestigio nei cosiddetti refrains o ritornelli.
La presenza dei refrains si nota particolarmente nell'antica lirica francese, alla quale è opportuno riferirsi, se si vogliono cogliere le spie o le tracce di quest'antica poesia perduta. I troveri non sdegnavano talora d'inserire nei loro componimenti, alla fine delle strofe, un motivo poetico, espresso in uno o due versi, che ha tutta l'aria di non essere sempre stato scritto dall'autore medesimo del testo entro cui è ripetutamente intercalato. Per venire a un esempio, il trovero Perin d'Angicourt finisce ogni strofa della sua poesia: Quant je voi con un refrain: "Je sui jolis pour ce que j'aim", ovvero: "Bone amour que jai, mi tient gai". Altri refrains sono assai più significativi: "Biax doz amis, por quoi demorez tant?". Ovvero: "J'ai trouvé qui m'amera". O anche: "Je n'ain rien se vos non", ecc. Molti si riferiscono alla danza: "Tuit cil qui sunt enamourat - vignent dançar, li autre non; Bele, car balez et je vos en prie; Espinguiez et balez liement", ecc. Questi refrains si trovano entro opere di diverso carattere: poesie liriche, sermoni, prediche, traduzioni, ecc. Nel loro insieme, si riferiscono ad argomenti o temi che si possono individuare: il contrasto amoroso, la donna innamorata, il commiato, la donna abbandonata, la fanciulla desiderosa di marito, la mal maritata, l'"alba" o il distacco, sul far del giorno, dell'amante dalla donna amata. Quest'uso letterario si avverte, come abbiamo detto, soprattutto in Francia, ma deve essere stato proprio anche della Provenza. Guilhem Ademar ha una canzone (El temps d'estin) con ritornello (Ai, douss'amia malaus viron miei oil, ecc.).
Si è supposto che questi interessanti e curiosi refrains siano i frammenti di antiche poesie, tra cortesi e popolari, e stiano a rappresentare, nella loro varietà, una poesia scomparsa che si sarebbe svolta in Francia, quando ancora le altre nazioni non potevano vantare una fioritura poetica analoga, e dalla Francia si sarebbe irradiata in Germania, in Italia, in Portogallo. E non v'ha dubbio che molto di vero dev'essere in questa teoria, perché non si possono non ammettere antecedenti alla fioritura lirica cortese. Sia lecito però notare che nessuna prova abbiamo che i cosiddetti refrains siano sempre frammenti di liriche perdute. Talora essi hanno un senso compiuto ("G'i doi bien aler, et bien caroler, car j'ai bele amie; Je la tieng par la main m'amie; s'en vois plus mignotement", ecc.); e se si nota la frequenza delle allusioni alla danza, si fa strada l'ipotesi, e in fine la persuasione, che soprattutto vi si tratti di cori di danza, di canti da ballo. Era naturale che nella danza, che ebbe tanta voga e importanza nel Medioevo, fiorisse la poesia volgare, soprattutto nella danza del popolo. Varie debbono essere state le scaturigini di quella poesia, che lamentiamo perduta, fra popolare e colta, quasi semicavalleresca. E poi, oltre che dei refrains, bisognerebbe tener conto di altri dati, chi volesse ricostruire qualche cosa delle forme poetiche inghiottite dal tempo. Ad esempio, nel Mistero di Santa Agnese (uno dei pochi drammi provenzali giunti sino a noi; conservato in un unico codice del Trecento) sono citati gli inizî di alcuni componimenti lirici musicali che davano le note a qualche brano del dramma. Questi componimenti, più antichi, sono in parte andati perduti, come quello che incominciava: "El bosc d'Ardena, justal palaih Amfos, - A la fenestra de la plus auta tor". Ora, questa poesia ha tutto il movimento di una "chanson d'historie" o "de toile", che è un genere noto in Francia e sconosciuto in Provenza. Anche un'altra poesia, ricordata nello stesso Mistero (Vein, aura douza, que venz d'outra la mar), fa pensare a un genere d'intonazione popolareggiante, come sarebbero in Portogallo, le "cantigas de amigo" di Dom Deniz e di altri verseggiatori aulici e cortesi, genere ignoto alla Provenza. Si intravvede, insomma, tra la foschia di un passato lontano, qualche pallida luce, che non è senza interesse e suggestione. E si è indotti, seguendo le tracce del Diez e del Fauriel, a spingere l'occhio ancor più lontano e a ricercare, oltre la lirica cortese e semicortese, nella poesia più propriamente popolare le più remote fonti della poesia cortese, rivolgendo la mente alla poesia delle feste del maggio e di altre cerimonie del popolo. Tale poesia avrebbe preparato, nel modo che abbiamo detto, quella dei trovatori e dei troveri, più raffinata, più colta e naturalmente più convenzionale e più manierata. L'origine di questa pare doversi fissare nel Poitou, dove condizioni sociali e spirituali ne avrebbero favorito il sorgere e il fiorire. Tracce di queste origini pittavine si noterebbero nella stessa lingua (il prov. joi tradirebbe appunto nella sua fonetica la sua derivazione dal Poitou); e non senza ragione al Poitou ci richiamerebbe il più antico dei trovatori a noi conosciuti, Guglielmo IX. Si vuole che appunto di qui si sia irradiata la prima poesia provenzale cavalleresca grazie all'influsso esercitato da Eleonora di Aquitania, nipote di Guglielmo IX di Poitiers, sposa nel 1137 di Luigi VII, e madre di Maria di Champagne. Divorziata dal re di Francia, Eleonora si unì con Enrico Plantageneto e divenne regina d'Inghilterra nel 1184. Poeti provenzali non mancarono alla sua corte (fra tutti, Bernart de Ventadorn); anzi, la poesia aleggiò soave intorno a lei. Ma una principessa, per quanto colta, non avrebbe potuto farsi messaggera di poesia, se questa non fosse stata gradita nei nuovi paesi o non avesse trovato condizioni favorevoli al suo propagarsi. Le preferenze letterarie si spiegano più per effetto di predominio spirituale che per ragioni pratiche (matrimonî, commerci, trattati, ecc.); e i contatti poetici provenzali e francesi vanno anch'essi studiati da questo punto di vista.
C'è stato chi ha attribuito il raggentilimento della poesia popolare in cortese all'avvento della "cavalleria". Ma qui bisogna intendersi. Il pensiero del Fauriel era che, durante la lunga anarchia che seguì al dissolvimento della monarchia carolingica, le forze sociali si fossero mosse a ristabilire l'ordine; ma che, isolate come erano, non riuscissero a nulla e finissero con avversarsi, guerreggiandosi fra loro. Così, la casta guerriera, che era la più forte, poté avere il sopravvento e divenne una minaccia per la Chiesa. Furono saccheggiate chiese e monasteri; e il clero si trovò nella necessità di provvedere alla difesa dei suoi beni e della sua dignità. Tra le idee suggerite dal bisogno, una ottenne favore: e fu di creare nel seno stesso della casta guerriera un nuovo partito per la tutela dell'ordine, con una cerimonia speciale. Nel sec. XI gli ecclesiastici ebbero il potere di investire delle armi i giovani cavalieri. Il cavaliere diveniva anche il campione della Chiesa. Così sarebbe sorta la cavalleria, che a torto fu staccata dal feudalismo. Non è qui nostro proposito esaminare i modi come la cavalleria feudale si venne formando nel Medioevo (v. cavalleria e cavalieri). Diremo soltanto che se esistette la cavalleria guerriera nel seno del feudalismo, non esistette invece, come istituto, la cavalleria ideale, protettrice del diritto, rivendicatrice dei torti, che altro non fu che una proiezione dei romanzi nella storia, un'astrazione ricavata dalla letteratura del Medioevo. È tempo di respingere l'opinione che una ideale associazione si sia venuta costituendo nell'età di mezzo con lo scopo di far trionfare principî nobili e santi. La cavalleria come difesa del prossimo, come presidio e sostegno dei deboli, non fu che un sogno di letterati e di romanzieri. Poiché questo sogno e queste idealità ebbero grande fortuna e queste nobilissime aspirazioni vennero vagheggiate ed esaltate con insistenza e per molto tempo, ne venne che scrittori, studiosi e critici fossero tratti in inganno. Ciò che esistette fu il feudalismo, che fu, ad un tempo, avido e generoso, feroce e cortese, fazioso e umano, sanguinario e clemente, il feudalismo che diede un nuovo volto alla società, e la ordinò in una gerarchia, alla cui sommità stava il feudatario il feudalismo che fu l'istituzione giuridica più importante del Medioevo. Su usanze feudali è costruito il cerimoniale della poesia cortese. Sulle consuetudini del vassallaggio feudale è modellato il vassallaggio d'amore cantato dai trovatori.
Questi concepiscono, infatti, l'amore per la donna come un culto, un servizio; e servir è appunto una parola usata da essi col senso di "amare". La donna amata corrisponde al signore, al feudatario: essa è chiamata infatti midonz (meus dominus). Tutto ciò che ella fa è grazir, dono, condiscendenza. L'amante è l'uomo ligio (hom litges), cioè vassallo; il suo amore, il suo servire è un homenatge (omaggio), e le immunità, i benefici di cui gode, sono la pietà, il sorriso, la benevolenza dell'amata. Gli elementi della istituzione feudale (beneficio, immunità, omaggio) si trovano anche nel cerimoniale amoroso di questi poeti. Il domnejar, o cortejar, è un'arte complicata, elegante, difficile da imparare e da rispettare, un'arte che bisogna studiare. Come ogni buon vassallo, l'amante deve essere fedele e ubbidiente. Da questo atteggiamento di rispetto e di reverenza da minore a maggiore deriva quella sua continua paura di mal servire. Il timore che lo assale dinnanzi alla donna amata corrisponde alla trepidazione del vassallo di fronte al feudatario. Si riflettono, dunque, nella poesia cortese usanze feudali.
Con ciò, non si vogliono negare influssi classici (soprattutto di Ovidio) nella poesia dei trovatori, alcuni indiretti, altri forse diretti. Massime morali latine, interi passi di Virgilio e di Seneca si trovavano in raccolte e prontuarî medievali, a cui era facile ricorrere. E questi prontuarî poterono conoscere i trovatori più colti e poterono utilizzarli. Anche si è voluto trovare nella poesia provenzale un influsso arabo; si è giunti persino a indicare in Abencuzman (Ibn Quzmān), poeta arabo in Spagna del sec. XI-XII, un precursore dei trovatori; ma, in realtà, le convenienze fra la poesia araba e quella provenzale sono di tale natura da non giustificare l'ipotesi d'una dipendenza o discendenza; e lo stesso Abencuzman, a ben guardare, non sembra né avere esercitato influsso sui primi trovatori, né essere, a sua volta, sotto l'influsso della lirica provenzale. Certe analogie fra la lirica araba e occidentale sono innegabili; ma non è detto che si debbano spiegare in un'unica sede.
Il fenomeno della poesia dei trovatori è fondamentalmente occidentale, e non pare si possa risolvere se non entro l'ambito della civiltà medievale dell'Europa d'Occidente. Tuttavia, non si potrebbe trascurare senza danno il gravitare verso l'Occidente della civiltà orientale prima e dopo la prima crociata, perché l'incontro di due intuizioni diverse della vita e del mondo, quale si verificò in quel periodo, non poté essere senza effetti e conseguenze nel campo del sentimento, che è quello della poesia. Ma altro è l'influsso del pensiero e altro è l'influsso puntuale dei modi e delle forme della poesia. Maggiore considerazione meriterebbero i rapporti con la poesia latina medievale di corte, avuto riguardo all'interferenza del mondo latino e del mondo romanzo, che ormai non si è più usi a riguardare l'uno staccato dall'altro, come due mondi distinti e diversi. Pastorelle, pianti, sirventesi in latino nei secoli XI-XII non mancarono; e non mancarono verseggiatori latini (Marbodo di Rennes, Baudri de Borgueil, Hildebert de Lavardin) che cantarono donne (in particolare, Matilde moglie di Enrico I d'Inghilterra e le due figlie di Guglielmo il Conquistatore, Cecilia e Adele, sposa di Stefano di Blois). Ma anche questi contatti non vanno esagerati. Il problema della formazione della poesia provenzale è così complesso, che non lo si può risolvere entro uno schema rigido.
Resta, tuttavia, che i collegamenti più vivi e profondi nella poesia provenzale si trovano con le usanze feudali. Anche la lingua giuridica del feudalismo penetrò entro quella dei trovatori in una misura abbastanza larga, per es. dar per fieu col senso di "concedere", de plan "subito, senza indugio" (derivato dalla locuzione sine strepitu et de plano); escondir "scusare"; arraisner, ecc. E con la lingua del giure s'incontrano espressioni che ci fanno quasi pensare a una forma di culto d'amore ispirato al misticismo del tempo. Bernart de Ventadorn, ad esempio, dice che per la sua donna "fai Deus vertutz". E Peire Vidal scrive: "E quan respon ni apela - Sei dig an sabor de mel - Don sembla Saint Gabriel". Questa lingua varia, multiforme, lega i trovatori al loro tempo, si inserisce nel processo storico e può essere esaminata storicamente, come lingua di un determinato periodo, di una determinata cultura, di una determinata società. Di questa lingua si può tracciare, insomma, un disegno storico, mentre della poesia come sentimento e ispirazione non è data storia. A seconda delle varie personalità dei trovatori, questa lingua assume diversi toni e colori e, trasfigurata, può farsi linguaggio poetico, cioè poesia diversa in ciascun autore.
Considerare, infatti, tutti i trovatori in blocco, senza discriminazione delle loro individualità, non si può. I primi trovatori sono originarî del Poitou, del Limosino, della Guascogna, del Saintonge, insomma dell'Aquitania, alla quale appartengono Guglielmo IX, Cercamon, Marcabru, Jaufre Rudel, Bertran de Born, Rigaut de Barbezieu, Giraut de Borneil, Arnaut Daniel, Bernart de Ventadorn, ecc. Sono della Linguadoca Peire Vidal, Raimon de Miraval, Aimeric de Peguilhan, ecc. Della Provenza sono Raimbaut de Vaqueiras, Raimbaut d'Aurenga, ecc. I maggiori protettori furono: Eleonora d'Aquitania (morta nel 1204), i conti di Tolosa (Raimondo V, morto nel 1192, e Raimondo VI, morto nel 1222), i visconti di Marsiglia, i signori di Montpellier, i conti di Provenza (in particolare Raimondo Berengario IV, morto nel 1245).
È un fatto indiscutibile che quasi tutti questi poeti cortesi cantano un amore che non è proprio quello benedetto dalla Chiesa, ma l'amore cosiddetto fino, extramatrimoniale, in quanto la donna amata non è una fanciulla, ma una maritata di alta e nobile casta. Amore illegittimo, e perciò combattuto dalla Chiesa e considerato pressoché eretico. Era, in fondo, l'eresia catara che ammetteva questo amore, escludendo che si potesse amare cavallerescamente nel vincolo matrimoniale. Si invertivano le parole di S. Paolo: "melius est nubere quam uri", in "melius est uri quam nubere".
Questa poesia occitanica, in tluesta forma, fu quella che, per ragioni di supremazia spirituale, più che per effetto delle persecuzioni albigesi e dei commerci, ecc., si diffuse e si propagò al Nord, all'Est, al Sud: in Francia, in Germania, in Portogallo. in Italia. La lirica portoghese del sec. XIII, soprattutto quella di Bernart de Bonaval e di Dom Deniz, per non parlare di altri verseggiatori, è impregnata di provenzalismo. Persino Alfonso X, nei suoi sirventesi, imitò Bertran de Born. Che dire poi della lirica provenzale in Italia? Qui fiorì tutta una piccola, ma significativa schiera di poeti italiani in provenzale (Sordello, Lanfranco Cigala, Rambertino Buvalelli, Percivalle Doria, ecc.): qui la prima lirica aulica, quella della scuola poetica siciliana, si modellò sulla lirica occitanica.
Una data importante, anche per la storia della poesia provenzale, è l'aprile del 1233, quando Gregorio IX affida l'Inquisizione, creata poco prima, ai domenicani. Il nuovo istituto funziona subito in Francia con metodi violenti e decisi. Gl'ideali su cui riposava per gran parte la poesia cortese vengono banditi. Non c'è più posto per l'amore extraconiugale. Non si canta più l'amore cavalleresco. L'amore, nella poesia, perde ogni carattere di sensualità, divenendo amore ideale e casto, perché ci sono fenomeni sociali che mutano profondamente l'indirizzo di tutta un'età e le mutate condizioni sociali, politiche e religiose provocano crisi e sconvolgimenti spirituali che si riflettono anche nel regno della fantasia, cioè nella poesia. All'amore cortese si sostituisce dunque un amore ideale, che i poeti cantano in armonia con le nuove idee. Così fa Guilhem de Montanhagol, che dichiara in un suo componimento che "d'amor mou castitatz" e dice in un altro: "non ama ni deu esser amatz - Om que sidons prec de nulh falhimen". C'erano stati trovatori che avevano cantato l'amore "fino", che muove dal cuore ed è immune da palpiti sensuali, come Bernart de Ventadorn, dolcissimo fra i dolci poeti provenzali; ma ora l'amore diviene casto, e la poesia si propone quasi un fine educativo e morale.
Siamo nella seconda metà del. sec. XIII, e proprio da questo momento incomincia a declinare la musa occitanica. Erano passati i tempi dei maggiori trovatori. La poesia occitanica aveva dato verseggiatori dolci e squisiti come Bernart de Ventadorn, autore di armoniosi canti in lode di Eleonora d'Aquitania, Jaufre Rudel, Raimbaut de Vaqueiras, Peire Vidal, Aimeric de Peguilhan, Elias Barjols, Peirol, ecc. Soprattutto in Bernart de Ventadorn possiamo cogliere i caratteri più dolci e aggraziati della lirica di questi umili poeti. C'è in lui una così soave musicalità congiunta a un così delicato sentire, che talora il convenzionalismo scompare e lascia il posto al fiorire di immagini gentilissime:
Quant ieu la vey, be m'es parven
Als huelhs, al vis, a la color,
Quar aissi tremble de paor
Cum fai la fuelha contr'al ven.
Il suo componimento: Quant vei la lauzeta mover è una delle più fini e graziose poesie del Parnaso occitanico. Di contro al Ventadorn, per dare un'idea della varietà di queste personalità trobadoriche, che a torto sono state a lungo considerate l'una identica all'altra senza quasi nessuna individualità e senza ispirazione propria, si può collocare Marcabru con i suoi interessanti e difficili quarantacinque componimenti (esempio di "trobar clus" accanto al "trobar leu" del Ventadom), nei quali piange la decadenza della prodezza e del pregio o satireggia la cupidigia e l'avarizia o celebra la virtù. Marcabru è un trovatore moraleggiante. E non occorre forse ricordare il famoso "amor de lonh", amore di terra lontana, di Jaufre Rudel e la leggenda che fiorì sulle poesie di questo squisito verseggiatore, o l'impetuosità e la baldanza di Peire Vidal o il realismo di una trovatrice, Beatrice di Dia. Abbiamo trovatori estrosi, quali Guglielmo IX, Peire d'Auvergne, Raimbaut d'Aurenga; o violenti e guerrieri come Bertran de Born; o un poco intellettualistici, moraleggianti come Giraut de Borneil, Folchetto di Marsiglia, Peire Cardenal, per non ricordare che alcuni fra i migliori e maggiori rimatori provenzali a noi noti.
Sul finire del Duecento s'incominciò a raccoglierne le poesie in florilegi, quando già s'era cominciato a scriverne le biografie in brevi racconti che stanno a cavaliere fra la storia e la fantasia. Uno di questi biografi fu un trovatore di grido, Uc de Saint Circ.
Dopo il Montanhagol la decadenza della poesia occitanica procedette rapidamente. Né valsero, a sollevarne le sorti, i "giuochi floreali" (jeux floraux) istituiti nel 1324 da sette rimatori, i quali bandirono fra tutti i poeti una gara da tenersi il primo di maggio. Questi sette rimatori, che si arrogheranno l'ufficio di giudici, saranno poi chiamati "senhor" e "mantenedor del gay saber" (o della "gaia scienza") e saranno considerati come i paladini e difensori della poesia. Si sostituiranno ogni anno e si celebrerà al primo di maggio la festa della Natività della Vergine. L'istituzione tolosana si propagherà nel 1393 in Catalogna grazie all'interessamento del re Giovanni I. Fra i verseggiatori premiati in quelle gare si deve ricordare almeno Joan de Castelnou, che guadagnò il premio iniziale con un canto alla Vergine. Da questo istituto o tribunale (o, come anche si diceva, "consistori") uscì il codice della poesia provenzale, le celebri Leys d'Amors, dovuto al primo "cancelliere", Guilhem Moliner (1355). La leggenda fiorirà presto anche intorno all'istituzione di questi jeux floraux, e se ne troverà in una fantastica, favolosa "dona Clemensa Isaura" la fondatrice e istitutrice, che sarà cantata e glorificata dai nuovi verseggiatori, mentre in origine questa Clemenza sarà stata probabilmente un'immagine simbolica della poesia o addirittura di Maria Vergine protettrice, dipinta (e poi sostituita da una statua) nella sala del "Consistori della gaya sciensa".
Era, intanto, incominciato l'influsso francese. La lingua francese si andava, con rapido moto, imponendo alle classi colte e le opere letterarie francesi divenivano i modelli degli scrittori meridionali. La letteratura provenzale assunse l'ufficio di letteratura vernacolare e si suddivise in scuole locali (Tolosa, Avignone, Marsiglia, Montpellier) senza produrre nulla che potesse eguagliare le opere dei secoli precedenti. Spiccano, dal sec. XVI al XVIII, i nomi di Luigi Belaud de la Belaudière (1532-1588), di Piero Goudelin (1579-1649), di Daniele Sage, di Claudio Bruyès (1570-1650), di Nicola Saboly (1614-1675). Un genere molto in voga furono i Noels cantati nell'ottava di Natale. Uno degli autori di questi canti fu l'abate Cazaintre di Carcassona.
Nella prima metà del secolo XIX sorse il primo rigeneratore della poesia provenzale, Giacomo Jasmin, verseggiatore limpido e musicale, la cui reputazione, oltre i confini della provincia, giunse a Parigi. La sua opera, affiancata dalla collaborazione di Giovanni Cabanes, Giacomo Azaïs e altri, iniziò quasi un vero e proprio rinascimento. Trovarono perciò il terreno già preparato i poeti dai quali si fa incominciare la moderna letteratura provenzale.
La data di nascita della quale si fissa comunemente al 21 giugno 1854, quando sette giovani poco più che ventenni, che furono detti la "pleiade della Rinascenza occitanica", si riunirono a Font-Ségugne presso Avignone e fondarono la scuola del "felibrismo". Tre di questi poeti divennero rapidamente celebri: Giuseppe Roumanillo, Federico Mistral, Teodoro Aubanel; gli altri non raggiunsero altrettanta fama (Alfonso Tavan, Paolo Giera, Giov. Brunet, Anselmo Mathieu). La parola félibre era stata trovata e segnalata dal Mistral entro un componimento religioso poetico popolare che ancora oggi si recita in Provenza: parola astrusa, misteriosa, che conferì con la sua oscurità qualcosa di suggestivo al nuovo movimento letterario. Scopo dei sette felibri era di elevare a dignità letteraria la lingua materna, in nome di un passato non ancora scomparso dalla memoria e dall'immaginazione. Che questo tentativo di rinascita abbia anche avuto l'importanza e il valore di una rivendicazione regionalistica, è cosa che non si può escludere; ma che il felibrismo sia stato una decisa affermazione politica e abbia avuto intenti nettamente separatisti, nessuno potrebbe sostenere, se non ammettendo che si sia avuto talora, come accadde in realtà per alcuni verseggiatori, un deviamento dal programma essenziale della scuola. Se nella poesia dei felibri la forza dell'ispirazione fosse stata vinta dagl'intendimenti regionali o dall'idea federalista o separatista, la voce dei nuovi poeti sarebbe probabilmente caduta nell'oblio. Invece, oggi F. Mistral è più vivo che mai, elevato dal comune consenso a uno dei più alti posti nel coro della moderna poesia europea.
La storia e la terra provenzale sono per il Mistral una religione. Dio non ha creato storia e terra più belle. La poesia mistraliana, tutta vibrante d'ispirazione, sembra immersa - specie in Mirèio - in un'adorazione che le conferisce un decoro quasi classico. È tutta sentimento e passione. La religione e la storia, il paesaggio e i personaggi sono altrettanti stati d'animo, che assurgono da un iniziale turbamento romantico a chiarità, a luminosità classiche. Se Mirèio è il poema dell'amore e di tutta la terra natale ("un paese diventato un libro", diceva Lamartine), più propriamente Calendau è il poema delle montagne e del mare, il Pouèmo dóu Rose è il canto delle buone e care tradizioni paesane, che passano e non ritornano più, Nerta è una rievocazione del Medioevo provenzale veduto in una luce evanescente di romanticismo e Lis Iselo d'or sono una raccolta splendente di motivi lirici.
Ma Mistral, pur essendo il maggiore, non è in ordine di tempo il più anziano dei felibri. Più vecchio di lui era Giuseppe Roumanillo, le cui prose agili, garbate, conversevoli fanno dimenticare le liriche anch'esse notevoli e certamente fra le belle della moderna poesia provenzale. Roumanillo era un garbato novelliere, con un fondo di tristezza e di melanconia sotto una patina scherzosa. La novella che forse meglio ritrae il suo temperamento, per il modo com'è scritta, è quella del medico che vorrebbe, per guadagnarsi fiducia, non solo guarire i malati, ma risuscitare i morti. Ma non può neppure tentare questa prova sovrumana, perché tutti i morti, uno per uno, disturberebbero troppo i vivi, i quali, per la loro tranquillità, desiderano che non si sveglino i trapassati dal loro sonno.
Meno intrisa di elementi provenzali, quasi, si potrebbe dire, più francese, è la poesia di colui che costituisce con il Mistral e il Roumanillo la triade gloriosa del felibrismo: Teodoro Aubanel (Aubaneu). Il suo "libro d'amore" in La miougrano entredouberto è la storia di una infelice passione per una fanciulla, Zani, nella quale è adombrata, o, meglio, idealizzata una gentile amica degli anni giovinetti del poeta. La poesia amorosa dell'Aubanel è fuori del cerchio di quella del Mistral; non ne ha gli accenti paesani; è lontana dalla tradizione e dalla terra provenzale. Però, un suo dramma, Lou pan dóu pecat, ricco di elementi tradizionali, con lo sfondo di una di quelle fattorie meridionali care al Mistral e con il gran sole estivo che indora le messi e accende i desiderî, ci porta in mezzo alle passioni vergini e schiette e ai lavori dei campi.
Non si esagera affermando che tutta la poesia moderna provenzale (dai primi felibri a quelli che si dispersero ad Arles, a Marsiglia, ad Avignone, a Tolosa) si muove entro la sfera ideale dei tre maggiori. Ma alcuni si possono differenziare e individuare. Si può ricordare Alfonso Tavan, la cui poesia sorge da una tonalità psicologica popolareggiante ed è umile, semplice, lontana dall'arte aristocratica di Aubanel e solenne di Mistral, e si può segnalare Anselmo Mathieu, per la sua tecnica elaborata, per il suo culto della rima eletta, per la sua malinconia immersa in una effusa dolcezza. Venendo poi ai. poeti nuovi, che dai primi hanno ereditato l'amore per la lingua occitanica e l'usanza di cerimonie annuali, nelle quali si celebrano i fasti del felibrismo con poesie che trovano posto, come già quelle dei loro maggiori, in riviste e pubblicazioni occasionali consacrate alla storia e al folklore della Francia meridionale, c'è da osservare che assai più tenue si è venuta facendo la nota regionale e paesana. In qualche felibro, anzi, l'amore della lingua è divenuto scienza e dottrina. Così nello Chabaneau, così nell'Anglade, studiosi benemeriti (soprattutto il primo, che fu un vero maestro nel campo della filologia) dell'antica poesia dei trovatori. Per questo motivo, fra l'altro, la partecipazione del popolo al movimento felibristico è oggi minore che per il passato. Il distacco è reciproco. Alcuni felibri, come Emilio Ripert, cantano volentieri in francese e scrivono in francese i loro libri di storia e letteratura provenzale. L'ispirazione calda, il contatto con la natura, sentita nella bellezza di tutto il suolo meridionale, e i toni accesi di colore costituiscono i caratteri tradizionali vivi nelle opere dei poeti migliori. Così in Giuseppe Arbaud, così in Prospero Estieu, a cui può stare vicino Antonino Perbosc, il cui verso è lavorato, ma non prezioso, e in Augusto Fourès, nel quale si avvicendano motivi malinconici e lussuriosi. Vengono poi altri verseggiatori, che si industriano di fare rivivere nelle loro poesie i costumi della Provenza, come il Bonnet, o le leggende medievali, come il Planchud. E non vanno dimenticate le felibresse che hanno portato, dalla Roumanillo alla Houchard, autrice del poema Estello, una loro nota muliebremente gentile nel coro della nuova poesia provenzale.
Si potrebbe continuare a citare e a caratterizzare altri poeti e verseggiatori moderni. In tutti le note dominanti, più che la tradizione paesana, sono le bellezze della terra occitanica e l'amore: l'amore inteso, come da tutti i felibri, non alla maniera dei trovatori, cioè in modo convenzionale, ma con schiettezza e con sincerità. In ciò i felibri sono sempre stati e sono tuttora moderni. La poesia medievale occitanica non ha avuto presa su loro.
Bibl.: F. Diez, Die Poesie der Trobadors, 2ª ed., a cura di K. Bartsch, Lipsia 1883; C. Fauriel, Hist. de la poésie provençale, Parigi 1846; A. Restori, Letteratura provenzale, Milano 1891; A. Stimming, Provenzalische Literatur, in Grundriss der roman. Philologie di G. Gröber, II, Strasburgo 1893, p. i segg.; J. Anglade, Histoire sommaire de la litt. méridionale au moyen âge, Parigi 1921; K. Bartsch, Grundriss provenzalischer Literatur, Lilberfeld 1892; A. Pillet ed H. Carstens, Bibliographie der Troubadours, Halle 1933; C. Chabaneau, Biographies des troubadours, in Hist. générale de Languedoc, X (1885), pp. 209-409; A. Jeanroy, La poésie lyrique des troubadours, I-II, Parigi 1934.
L'opera citata dello Jeanroy contiene i più importanti riferimenti bibliografici, per i quali si rimanda anche al volume di Pillet e Carstens, pieno di precise indicazioni, indispensabile per lo studio dei trovatori. Altre indicazioni sulle espressioni epiche, religiose, drammatiche, ecc., dell'antica letteratura provenzale si hanno in Bartsch, Grundr. prov. Lit., cit. (introduzione) e nell'Anglade, Hist. somm. cit., p. 133 segg. Sull'origine della lirica cortese, A. Jeanroy, Origines de la poésie lyrique en France, 2ª ed. Parigi 1904, e la recensione alla 1ª ed. di questo vol. di G. Paris nel Journ. des Savants, 1891-1892 (e in Mél. de littérature, Parigi 1906); e V. Crescini, Nuove postille al trattato amoroso di Andrea Cappellano, in Atti del R. Ist. veneto di sc., lett. e arti, LXIX, parte 2ª (1907-10); E. Gorra, Poesia amorosa di Provenza, in Rend. dell'Istituto lomb., 1910-12; A. Pillet, Zum Ursprung der altprovenz. Lyrik, Halle 1928. Sulla "gaya sciensa", v. A. Jeanroy, Les Joies du Gai savoir, Tolosa 1914, e P. Rajna, in Misc. Crescini, 1911. Per la diffusione della lirica provenzale in Italia, G. Bertoni, I trovatori d'Italia, Modena 1915. Sulla poesia provenzale moderna, E. Ripert, La renaissance provençale, Parigi 1920; L. Graziani, La poesia moderna in Provenza, Bari 1920; E. Ripert, Le félibrige, Parigi 1924; G. Bertoni, La letteratura provenzale, in Europa del sec. XX, Padova 1926 e il volume commemorativo del Mistral: Provenza e Italia, Firenze 1930.
Musica.
Della lirica trovadorica rimangono documenti non soltanto letterarî ma anche musicali: 264 melodie attribuite ad Aimeric de Peguilhan, Jaufre Rudel, Arnaut Daniel, Folchetto di Marsiglia, Bertran de Born, Bernart de Ventadorn, Raimbaut de Vaqueiras e altri noti trovatori; manifestazione d'arte non già semplicemente popolare, ma, fino dai saggi più remoti (sec. XII), attestante una elaborazione colta e sovente raffinata. Per notizie e bibl. intorno alla musica dei trovatori, v. trovatori e troveri.
Nei tempi moderni la vita musicale della Provenza non si dissocia, per ciò ch'è manifestazione colta, dalla francese in generale. Resta, come interessante elemento locale, la canzone popolare, ricca di florida vitalità benché non scevra d'infiltrazioni immessevi specialmente dai territorî circostanti (Savoia, Delfinato, Piemonte, Pirenei). Il movimento artistico-letterario dei felibri ha dato, com'era naturale, impulso efficace al canto e alla danza popolare della Provenza: il primo raccoglitore ed editore di melodie tradizionali, in un'opera rimasta a tutt'oggi fondamentale, è stato D. Arbaud (Chants popul. de la P., Aix 1862-64).
Bibl.: J. Tiersot, Histoire de la chanson pop. en France, Parigi 1889; A. Guirand, La musique en Provence et le Conservatoire de Marseille, 1908; L. Lambert, Chants et chansons pop. du Languedoc, Montpellier 1905: id., Chants pop. du Midi de la France, Lipsia s. a.; David e Marty, Chansons languedociennes, Carcassonne 1934.