Protocollo Cassazione-C.N.F. sulla redazione del ricorso
La chiarezza degli atti di parte è, diversamente dalla sinteticità, un requisito che non soddisfa soltanto l’esigenza di rapidità della risposta giudiziaria, ma che è in grado di assicurare altresì la qualità della risposta: nel Protocollo le previsioni in punto di struttura di discorso, più che non quelle sulla lunghezza degli atti, hanno il merito di aiutare la progressione logica del ragionamento, escludendo l’inutile ripetitività del discorso giuridico.
Sebbene l’espressione “sinteticità e chiarezza” venga utilizzata premettendo quasi sempre la prima alla seconda, la chiarezza dovrebbe venire per prima, ed essere considerata il fine, mentre la sinteticità soltanto il mezzo per raggiungere quel fine.
Nell’attuale sistema processuale si insiste invece assai di più sul principio di sinteticità degli atti processuali, che non sull’esigenza di chiarezza, forse perché quest’ultima è difficile da assicurare con sanzioni di qualsiasi tipo. Un principio, quello di sinteticità, che viene correlato, e per ciò nobilitato, a quello di ragionevole durata del processo.
Con decreto del 9.2.2016, il Ministro della giustizia ha costituito un gruppo di lavoro cui ha assegnato il compito di valorizzare, con priorità per i procedimenti di competenza della Corte di cassazione, «le potenzialità applicative» del principio di sinteticità, «funzionali alla realizzazione di processi equi e di ragionevole durata». I risultati sono stati presentati in una relazione depositata il 16 maggio 2016, e con decreto del 28 luglio successivo la prospettiva di approfondimento del principio di sinteticità è stata estesa a possibili ulteriori applicazioni nei giudizi di merito, con prioritaria attenzione per quelli di impugnazione.
Tra gli emendamenti presentati al d.l. 31.8.2016, n. 168, inseriti nella legge di conversione 25.10.2016, n. 197, oltre alle modifiche al giudizio di cassazione1 si stabilisce, in riferimento al processo amministrativo, che «al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con i principi di sinteticità e chiarezza di cui all’articolo 3, comma 2, le parti [redigano] il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con uno o più decreti del presidente del Consiglio di Stato, da adottare entro il 31 dicembre 2016», nella fissazione dei quali si dovrà tener conto del valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi interessi delle parti, con possibilità di deroga nei casi previsti. Si prevede inoltre espressamente che il giudice sia tenuto ad esaminare soltanto le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti, mentre l’omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non possa essere motivo di impugnazione. Si riprende così, in parte, quanto previsto in materia di rito appalti dall’art. 120 c.p.a., dove, con decreto 25.5.2015, n. 40, del Presidente del Consiglio di Stato, è stata fissata una dimensione massima di trenta pagine per gli atti di causa.
Nel processo civile, l’esigenza di sinteticità degli atti ha trovato espressione nella l. 18.6.2009, n. 69, e nei progetti di riforma del processo civile che si sono susseguiti negli ultimi anni2. Pur in assenza di una enunciazione specifica del principio di sinteticità, come pure di sanzioni per la sua inosservanza, il codice di procedura civile utilizza aggettivi (quali conciso, succinto e sintetico) e avverbi volti ad affermare quel principio soprattutto nelle norme rivolte agli atti del giudice, agli artt. 132, 134, 281 sexies, 348 ter, 380 bis c.p.c. Nel giudizio di cassazione il richiamo alla sinteticità degli atti è rivolto alle parti del processo in tre occasioni: all’art. 363, all’art. 366 e all’art. 379 c.p.c.
Un invito questa volta alla “chiarezza” nell’esposizione delle ragioni del ricorso era contenuto nell’art. 366 bis c.p.c., che si accompagnava ad una sanzione di inammissibilità che ne ha comportato l’abrogazione nel 2009.
Inoltre, le previsioni in tema di obbligatorietà del deposito telematico degli atti processuali civili prescrivono la redazione in forma sintetica tanto degli atti di parte che dei provvedimenti del giudice.
La Corte europea dei diritti dell’uomo, nell’art. 47 del regolamento, afferma l’esigenza della sintesi espositiva, prevedendo, per la violazione del principio di sinteticità, la sanzione del diniego di esame dei ricorsi redatti senza il rispetto delle prescrizioni formali.
In questa cornice si inquadra anche la riflessione avviata dalla Corte di cassazione nell’elaborazione di criteri ispirati al principio di sinteticità, per la redazione tanto delle sentenze quanto degli atti delle parti.
Significativi in tal senso sono, oltre alle prese di posizione ufficiali del Primo Presidente3, i Protocolli del dicembre 2015, in materia civile, tributaria e penale4, nonché i decreti del Primo Presidente sulla motivazione semplificata delle sentenze penali (decreto 28.4.2016, n. 68) e sulla motivazione dei provvedimenti in materia civile (decreto 14.9.2016, n. 136).
In quest’ultimo decreto, in particolare, si sottolinea come le modalità di redazione dei provvedimenti possano costituire uno degli strumenti utili per consentire alla Corte di svolgere il proprio ruolo, sia mediante la chiarezza argomentativa delle decisioni (in primo luogo di quelle a valenza nomofilattica), sia mediante la differenziazione delle tecniche di motivazione. Ferma la necessità che, per lo svolgimento della funzione nomofilattica, tutti i provvedimenti rispettino i canoni della chiarezza, essenzialità e funzionalizzazione della motivazione alla decisione, si prevede che per i provvedimenti privi di valenza nomofilattica siano adottate tecniche più snelle di redazione motivazionale, anche utilizzando «appositi moduli per specifiche questioni, processuali o di diritto sostanziale, sulle quali la giurisprudenza della Corte è consolidata (salvo che il Collegio non ritenga di discostarsi motivatamente)».
Occorre peraltro rimarcare come l’esigenza di una giustizia efficiente, di cui la sinteticità degli atti è presidio, non necessariamente operi nella medesima direzione dell’esigenza di una tutela effettiva: se riguardate separatamente, l’efficienza opera soprattutto sul piano dell’interesse generale, mentre l’effettività muove essenzialmente da una prospettiva individuale, sicché vi può essere un potenziale contrasto quando, in nome del rilievo per cui la giustizia è una risorsa scarsa, la ricerca di soluzioni che consentano al processo di funzionare nel modo migliore e più rapido possa astrattamente pregiudicare l’aspirazione del singolo ad una tutela giudiziale “incondizionata”. Nel caso del giudizio di cassazione, è già avvenuto che le prescrizioni formali si siano tradotte in rigorismi fini a se stessi, e il rischio da evitare è che attraverso le regole rivolte ad assicurare la sinteticità degli atti si finisca per penalizzare il diritto di accesso al giudice di ultima istanza come espressione del giusto processo, come già è accaduto per il principio di autosufficienza del ricorso5.
Se sinteticità è intesa, al pari della concinnitas ciceroniana, come simmetria ed equilibrio, e non semplicemente come brevità dell’atto ad ogni costo, non vi è dubbio che con essa si supporti la persuasività dell’argomentazione, consentendo, nel caso delle impugnazioni, una maggiore penetrazione della critica e sollecitando, nel giudicante, una crescita dell’attenzione. Se invece la sinteticità si traduce in regole volte a imporre limiti dimensionali, da valutare anche soltanto ai fini della liquidazione delle spese del giudizio, si mortifica l’arte del persuadere mediante l’uso di strumenti linguistici, che è ciò in cui si traduce la retorica, in nome di esigenze di ragionevole durata del processo, e si dimentica che retorica e argomentazione sono patrimonio di cultura del nostro processo, cui l’esigenza della sintesi a ogni costo non deve indebitamente arrecare pregiudizio.
Il modo, più o meno chiaro, con cui viene data forma alle idee rispecchia la maggiore o minore chiarezza delle stesse, e se alla chiarezza delle idee, e alla chiara organizzazione del discorso, si accompagna l’uso di un linguaggio che, rifiutando stereotipi e spuri e superflui tecnicismi, riesce a coniugare gli irrinunciabili profili tecnici del discorso giuridico col patrimonio linguistico di riferimento, e con quella concisione che serve a raggiungere prima la meta6, non vi sono limiti dimensionali che tengano.
La chiarezza degli atti di parte è, diversamente dalla sintesi, un requisito che non soddisfa soltanto l’esigenza di rapidità della risposta giudiziaria, ma è in grado di assicurare altresì la qualità di quella risposta: dipendendo la persuasività del ragionamento giudiziale non solo dalla validità degli enunciati, ma anche dalla organicità con cui il ragionamento è stato impostato, dalla coerenza interna dello stesso, e dall’efficacia dell’esposizione.
Del resto, il rispetto della struttura di discorso (anche di quello scritto) elaborata dall’ars rhetorica (la dispositio o τάξις, termini che indicano l’ordine di schieramento dell’esercito per la battaglia e che sono passati a significare l’ordine delle parti di un discorso con il quale si vuole convincere) consente di evitare che chi scrive lo faccia «come si gioca a domino»7, senza quella progressione logica che serve ad escludere l’inutile lunghezza e la ripetitività: in alcune disposizioni del codice come gli artt. 163 e 414, 342 e 434, e, per quel che qui interessa, 366 c.p.c., si vede la scansione delle parti del discorso giudiziario teorizzate dalla retorica greca e romana8, grazie alla quale si evitano disordine, confusione e pregiudizio per il lavoro dell’avversario, del giudice, e dell’amministrazione della giustizia nel suo complesso, senza bisogno di guardare necessariamente alla maggiore o minore lunghezza dello scritto difensivo.
L’obiettivo che l’ordinamento si deve porre è dunque la necessità di individuare un punto di equilibrio tra le esigenze di efficienza e di tutela effettiva. Questo significa che la sinteticità deve adattarsi alle peculiarità della singola controversia e non deve mai portare a una indebita compressione dell’esercizio del diritto di azione e del diritto di difesa delle parti; inoltre, che le regole in cui la sinteticità si traduce non debbono essere intese in modo formalistico, impedendo il raggiungimento dello scopo del processo, che è quello di una sentenza che riconosca o neghi il bene della vita: con l’ulteriore conseguenza che le eventuali sanzioni previste per il caso della inosservanza delle prescrizioni non dovrebbero operare sul piano della nullità dell’atto, dell’inammissibilità, o di analoghe comminatorie, ma, tutt’al più, sul piano della condanna pecuniaria (e anche su questo piano con opportune limitazioni, atteso che la condanna colpisce la parte e non il difensore che, eventualmente, abbia violato il principio di specificità).
Proprio il timore della sanzione dell’inammissibilità del ricorso, per effetto di una giurisprudenza pretoria della Suprema Corte che aveva affermato un principio, quello di autosufficienza, che, pur non trovando spazio in nessuna norma del codice processuale, nel 2015 compariva in ben 316 documenti nell’archivio massime del CED9, è stata una delle cause principali dell’elefantiasi degli atti giudiziari nel giudizio di cassazione.
In realtà, la ricognizione del modo in cui la giurisprudenza, nei tempi più recenti, ha inteso quel principio avrebbe dovuto tranquillizzare gli operatori: ma era ancora troppo vivo il ricordo di prese di posizione particolarmente rigide, volte a richiedere la trascrizione integrale, nel corpo dell’atto, del verbale di causa, o del documento cui il motivo si riferisse10, perché i timori dell’avvocatura potessero davvero ritenersi solo frutto di una incomprensione, anziché di una effettiva realtà giurisprudenziale11. A poco è valso che la Cassazione abbia, con pronunce rese soprattutto in materia tributaria, chiarito che quel che è richiesto è un «lavoro di sintesi e di selezione dei profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice in un’ottica di economia processuale che evidenzi i profili rilevanti ai fini della formulazione dei motivi di ricorso», e che piuttosto doveva «essere dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione “farcito” o sandwich, che si limiti cioè a spillare al ricorso stesso, con la tecnica dell’interposizione, gli atti e i documenti dei precedenti gradi di giudizio»12. Molti hanno continuato infatti a trascrivere o fotocopiare atti e documenti nel corpo del ricorso, nel timore di pregiudizievoli pronunce di inammissibilità.
L’autosufficienza del ricorso è – o dovrebbe essere – concetto che allude al necessario rispetto dei canoni di specificità, completezza e chiarezza del motivo: con esso la Corte richiede che siano indicati con precisione gli elementi posti a base della censura, e che il motivo presenti l’autonomia indispensabile per consentire, senza il sussidio di altre fonti, l’immediata e pronta individuazione delle questioni da risolvere13 . Del resto, quando, per la prima volta, compare nel 198614, il principio di autosufficienza non recava le stimmate del formalismo15 e non implicava pronunce ingiustificatamente cassatorie, ma soltanto oneri di localizzazione dell’atto, del documento o del verbale di causa cui faceva riferimento la censura.
Com’è noto, il legislatore del 2006 ha introdotto due modifiche al codice di rito, che hanno insieme ridimensionato e chiarito il significato del principio di autosufficienza16, alleggerendo gli oneri in precedenza affermati dalla giurisprudenza, seppure, al tempo stesso, obbligando i difensori ad una crescente attenzione nel declinare il requisito della specificità delle censure.
Una di queste novità è l’introduzione del quesito di diritto, poi soppresso nel 2009, con cui si costringeva il ricorrente a indicare in modo chiaro le ragioni di doglianza, nelle forme di un interrogativo rivolto alla Corte, nei casi dei motivi n. 14 dell’art. 360 c.p.c., e, nel caso di difetto di motivazione, di una indicazione riassuntiva e sintetica del motivo di ricorso.
Inoltre, con l’introduzione, nell’art. 366 c.p.c., del n. 6, per il quale il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità, «la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda», che si collega alla previsione per cui col ricorso debbono essere depositati, a pena di improcedibilità, quei medesimi atti, documenti, contratti o accordi collettivi (art. 369, co. 2, n. 4, c.p.c.), si è compiuto un passo ulteriore nella direzione della semplificazione degli oneri imposti dal principio di autosufficienza: si è chiarito cioè – almeno stando all’orientamento prevalente – che non è necessario trascrivere il contenuto del documento o dell’atto cui si riferisce la censura, e che è invece sufficiente, e insieme necessario, “localizzare” documenti e atti all’interno del processo, specificando il passaggio al quale la doglianza si riferisce e individuando il momento temporale di formazione o di produzione degli atti in questione. Quanto alla portata dell’onere previsto dall’art. 369 c.p.c., il contrasto di giurisprudenza circa la necessità o meno della produzione con autonomo fascicolo degli atti e documenti in questione, indipendentemente dal fatto che essi siano già presenti nei fascicoli di causa17, ha determinato la necessità di un intervento delle Sezioni Unite, che si sono pronunciate nel 2011 escludendo la necessità di un deposito aggiuntivo, al tempo stesso però affermando che «quanto qui osservato in ordine ai presupposti legali dell’improcedibilità ovviamente non preclude affatto al ricorrente – essendo anzi auspicabile che vi si determini – di produrre comunque copia degli atti e dei documenti sui quali il ricorso si fonda»18.
Del resto, che i fascicoli dei gradi precedenti non si tocchino, è quanto ci ricorda Renato Rordorf, sia pure per spiegare plasticamente, attraverso una prassi radicata, come in Cassazione i fatti di cui i fascicoli del merito danno testimonianza siano di regola destinati a rimanere in secondo piano19, salvo nella valutazione dell’error in procedendo rispetto al quale, come si insegna, la Cassazione è anche giudice del fatto.
Sia come sia, con questi interventi la portata del principio di autosufficienza viene ridimensionata: chiarito che non si tratta di un requisito ulteriore del ricorso, rispetto a quelli dell’art. 366 c.p.c., lo stesso diventa definitivamente «un corollario del requisito della specificità dei motivi di impugnazione, tradotto nelle più definite e puntuali disposizioni contenute negli art. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ.»20.
La tendenza della Cassazione ad adottare indirizzi meno formalistici si riscontra anche a proposito del più generale modo di intendere l’indicazione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’individuazione delle norme di diritto su cui si fondano.
Il requisito dell’art. 366, n. 4, c.p.c., viene infatti inteso non già quale assoluta necessità di formale ed esatta indicazione della ipotesi, tra quelle elencate nell’art. 360, co. 1, c.p.c. cui si ritenga di ascrivere il vizio, né di precisa individuazione, nei casi di deduzione di violazione o falsa applicazione di norme sostanziali o processuali, degli articoli del codice o di altri testi normativi, bensì, piuttosto, quale «esigenza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che consentano al giudice di legittimità di individuare la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo di impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocamente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360 citato»21.
Allo stesso tempo, si scioglie, favorevolmente al ricorrente, il nodo circa la possibilità di plurimi profili di doglianza all’interno del singolo motivo, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la formulazione del motivo «permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati»22.
È in questo contesto che si inserisce l’iniziativa del Protocollo d’intesa tra la Cassazione e il C.N.F. sulle regole redazionali dei motivi di ricorso: una iniziativa che muove dalla comune presa d’atto della possibilità che, nonostante i timori dell’avvocatura fossero più frutto di una incomprensione, che non di una effettiva realtà giurisprudenziale, il sovradimensionamento degli atti difensivi potesse essere, almeno in parte, frutto della ragionevole preoccupazione dei difensori di non incorrere nelle censure di inammissibilità per difetto di autosufficienza, con la conseguente necessità che di tale principio meglio si definissero i limiti alla luce di effettivi e concreti dati normativi.
Al fine di ottenere l’effetto di una significativa semplificazione degli atti di parte, con effetti positivi sulla chiarezza e celerità della decisione, il Protocollo prevede un modulo di redazione dei ricorsi, che ne definisca i limiti di contenuto e ne agevoli l’immediata comprensione da parte del giudicante.
L’intesa raggiunta tra Cassazione e C.N.F. si avvicina al contrat de procédure, conosciuto all’ordinamento francese, col quale giudici e avvocati decidono di “codificare” prassi autoregolamentate e condivise23.
Nel nostro sistema, l’esperienza dei protocolli si muove tradizionalmente nel solco del lavoro svolto dagli osservatori sulla giustizia civile, formati da magistrati, avvocati, personale degli uffici e docenti universitari, che mirano a declinare in previsioni apposite, dal valore persuasivo e non vincolante, interpretazioni condivise sulle regole del processo, negli spazi lasciati liberi dal legislatore.
Diversamente dai veri e propri accordi processuali, siano essi volti alla composizione della lite o a incidere sullo svolgimento del processo civile nel superamento delle preclusioni o nella scelta di un modello di trattazione piuttosto che di un altro, i protocolli non vedono il coinvolgimento diretto delle parti del giudizio, valorizzato particolarmente nell’esperienza tedesca, ma che oggi trova spazio anche nell’ordinamento italiano. I protocolli sono frutto piuttosto dell’autonomia collettiva, che opera all’interno della legge processuale individuando «comportamenti giuridicamente rilevanti osservati da un gruppo sociale coerente», in questo caso appunto la comunità dei giuristi raccolti nell’osservatorio24: comportamenti che si possono collocare all’interno delle fonti del diritto, stante l’impossibilità di predicare una separazione troppo netta tra il momento di produzione della norma e il momento della interpretazione/applicazione della stessa25. Se le cose stanno così, e se pure si deve considerare che, nella ormai riconosciuta “pluralità degli ordinamenti giuridici”, alla prassi codificata nei protocolli possa riconoscersi un profilo istituzionale26, ciò non toglie che l’intesa raggiunta tra la Corte di cassazione e il Consiglio abbia una valenza ancora diversa, sia perché non è frutto dell’opera di una comunità spontanea ma dell’accordo di soggetti istituzionali, rappresentativi delle due categorie di magistrati e avvocati, sia perché detta regole la cui violazione, seppure esclusa dal campo di applicazione delle comminatorie di inammissibilità o improcedibilità degli atti di parte, è in ogni caso correlata alla valutazione che il giudice compie nella liquidazione delle spese.
Nel Protocollo, infatti, mentre da un lato si stempera il timore del principio di autosufficienza (si precisa definitivamente che il rispetto di quel principio non comporta la necessità di una trascrizione integrale nel ricorso e nel controricorso degli atti o documenti ai quali negli stessi venga fatto riferimento, ma, piuttosto, un onere di “localizzazione” interna e esterna27 dei medesimi all’interno dei giudizi di merito, accompagnato però – contrariamente a quanto avevano affermato le Sezioni Unite nella già ricordata pronuncia del 2011 – dall’onere di successiva allegazione in apposito fascicoletto, che va ad aggiungersi al fascicolo di parte dei gradi precedenti), dall’altro si dettano prescrizioni formali, relative ai limiti dimensionali degli atti, che, sebbene stemperate dall’individuazione di margini del foglio da utilizzare particolarmente ridotti (sì da garantire più facilmente la brevità dell’atto, al tempo stesso però rendendo la pagina particolarmente densa e non di così facile lettura), sono piuttosto rigide, tant’è vero che, nel caso di particolare complessità del caso da trattare, si chiede che siano esposte specificamente nell’atto difensivo le ragioni motivate per le quali il difensore ha ritenuto di eccedere dai limiti previsti. Ragioni motivate la cui eventuale ritenuta infondatezza potrà, anch’essa, essere valutata ai fini della liquidazione delle spese.
Una sanzione, quella prevista dal Protocollo, che seppure meno radicale della comminatoria di inammissibilità, va comunque oltre il valore meramente persuasivo che normalmente i protocolli hanno e che fa oltretutto gravare sulla parte, che è colei che dovrà provvedere al pagamento, la (inutile) prolissità del proprio difensore. Che il Protocollo vada oltre, lo dimostra il fatto che oggi la Corte, nei giudizi per i quali il Protocollo non può essere ancora fatto operare, afferma che «la mole del ricorso e la sua non commendevole confezione, se pur risulta sovrabbondante e fastidiosa alla lettura»! tuttavia «non è suscettibile di valutazione influente sulle spese del giudizio, essendo stato il ricorso redatto prima dell’entrata a regime del protocollo di intesa tra Cassazione e C.N.F.»28. Una lettura, questa, che esclude che il principio di sinteticità possa attualmente avere ricadute sulle spese di lite, contrariamente a quanto talora affermato dalla giurisprudenza di merito, in pronunce che sono state ampiamente criticate, nelle quali si legge invece che la particolare ampiezza degli atti, che non si accompagni ad aspetti di significativa novità, può essere sanzionata in sede di regolazione delle spese processuali29.
Nell’escludere l’onere di trascrizione integrale degli atti e documenti nel ricorso e nel controricorso, il Protocollo svolge un’opera meritoria, chiarendo una volta per tutte che l’orientamento ritenuto preferibile è quello, dianzi ricordato, che la Cassazione aveva affermato “accontentandosi”, ai fini del rispetto dell’art. 366, co. 1, n. 6, c.p.c. di richiedere l’indicazione degli atti, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi posti a fondamento del ricorso, esigendo soltanto che fosse specificato in quale sede processuale il documento risultasse prodotto30; orientamento che, ove riferito al vizio del novellato art. 360, n. 5, c.p.c. si traduce nell’esigenza che il difensore indichi il «dato», testuale o extratestuale, da cui il fatto storico decisivo, il cui esame sia stato omesso, risulti esistente, e il «come» e il «quando» tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti31.
L’onere di “indicazione” dei dati necessari al reperimento di atti e documenti (ovvero della loro collocazione fisica) è altra cosa dalla riproduzione, negli atti difensivi, del passaggio cui si fa riferimento (o della incorporazione mediante fotocopiatura), che aveva determinato inutili appesantimenti del lavoro della Corte. Indicare non vuol dire trascrivere, interamente o non interamente, il contenuto dell’atto, del documento o del contratto cui il motivo si riferisce (anzi, la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, equivale ad affidare al giudice, dopo averlo costretto a leggere tutto, la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso)32: ma è difficile immaginare che una qualche sintesi di quel contenuto non debba essere fatta, se si vuole che il motivo incentrato su quell’atto o documento sia sufficientemente specifico. È dunque più un problema di specificità, che di autosufficienza, quello che suggerisce che vi sia almeno un riassunto della parte di atto o documento che viene in gioco nella singola doglianza che venga avanzata.
Si tratta di intendersi. Quando la Cassazione33, anche da ultimo, e proprio richiamando, oltre al principio di specificità, il Protocollo (seppure ritenuto «non direttamente utilizzabile nella specie», perché formato in data successiva all’introduzione del giudizio, ma «comunque significativo, secondo il canone dell’interpretazione evolutiva»), ha concluso nel senso che sia ius receptum quello per cui il ricorrente che denunci il difetto o l’erroneità nella valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, abbia l’onere di indicare nel ricorso specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, «trascrivendone il contenuto essenziale», ha in mente una trascrizione che è semplicemente una sintesi del contenuto dell’atto richiamato, e non una trascrizione parziale dell’atto stesso.
Se lo scopo delle norme è, come afferma la Cassazione, «quello di porre il giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti e soprattutto sulla base di un ricorso che sia chiaro e sintetico»34, quel che conta (quel che è, insieme, necessario e sufficiente) è infatti che siano forniti al giudice, una volta chiarita la rilevanza del profilo su cui il ricorso è fondato, elementi sicuri per consentire l’individuazione e il reperimento, negli atti processuali, dei passaggi sui quali si incentrano il ricorso e il controricorso.
Quanto all’onere di allegare apposito fascicolo che contenga gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, si supera il già ricordato orientamento per cui l’onere di produzione deve ritenersi soddisfatto, relativamente agli atti ed ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche soltanto mediante la produzione del fascicolo nel quale gli stessi siano contenuti e, relativamente ad atti e documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione del fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369, co. 3, c.p.c.; orientamento che, nella materia tributaria, vista la indisponibilità dei fascicoli delle parti (i quali restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono restituiti solo al termine del processo), esonerava la parte ricorrente anche dalla produzione del proprio fascicolo, contenuto nel fascicolo d’ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla Corte di cassazione, a meno che non abbia irritualmente ottenuto la restituzione del fascicolo di parte dalla segreteria della commissione tributaria, e dalla produzione, per la stessa ragione, della copia degli atti e dei documenti che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte35.
Il Protocollo, infatti, e nonostante la mancanza di previsioni normative cui si possa ricollegare l’esecuzione dell’obbligo di un «rideposito» o di una «riallegazione» delle copie di quanto sia già presente nei fascicoli di merito già depositati, afferma la necessità di una siffatta produzione, disattendendo quanto era stato affermato dalle sezioni unite in proposito. Con tutta una serie di conseguenze bene messe in luce da chi si è interrogato sulle ricadute, sui giudizi in corso al momento della stipula del Protocollo, dell’introduzione di un onere di produzione addizionale36.
A fronte di prescrizioni, dal sapore formale, in punto di caratteri, interlinea e margini da utilizzare, e soprattutto di lunghezza degli atti (5 pagine massimo per lo svolgimento del processo e 30 pagine massimo per l’esposizione dei motivi), il Protocollo contiene anche indicazioni che, più o meno consapevolmente, ripercorrono la tassonomia del ragionamento giuridico di matrice retorica.
L’ordine retorico è fatto di esordio, narrazione, confermazione ed epilogo37.
L’“esordio”, con l’elenco sintetico delle questioni che si intende discutere, è la parte iniziale, necessaria se l’esposizione sarà lunga e complessa, ma sempre consigliabile per aiutare il lettore. Nel Protocollo non a caso si chiede che vengano enunciati sinteticamente i motivi di ricorso mediante la specifica indicazione, per ciascun motivo, delle norme di legge che la parte ricorrente ritenga violate e dei temi trattati.
La “narrazione” è l’esposizione dei fatti, che inizia in modo diverso a seconda della sequenza scelta da chi scrive. Nei giudizi di impugnazione di solito si prende le mosse dalla sentenza, anche se i fatti di causa, anche dinanzi al giudice di legittimità, conservano una propria rilevanza, seppure funzionale – lo ricorda di nuovo il Protocollo – alla possibilità, per il giudice, di percepire le ragioni poste a fondamento delle censure sviluppate nella parte motiva. Una selezione dei fatti rilevanti, secondo il Protocollo, non necessita di più di 5 pagine, ma non si può escludere che occorra più spazio per far comprendere la complessità della vicenda narrata.
La “confermazione” è l’esposizione degli argomenti; e siccome accade di solito che questi siano più d’uno, anche molti, occorre decidere come e quando introdurli. Nelle impugnazioni, diversamente da quel che accade negli atti introduttivi del giudizio di primo grado, il “quando” non è rimesso alla scelta della parte, visto che la necessità dell’individuazione dei motivi e la costruzione dell’atto che ne consegue impediscono al difensore di riservarsi argomenti nuovi, che pure potrebbero sorprendere positivamente chi legge. Anche la memoria ex art. 378 c.p.c. è destinata soltanto alla illustrazione e al chiarimento dei motivi d’impugnazione tempestivamente proposti e alla confutazione, con argomenti contrapposti, delle tesi avversarie. Il “come”, invece, dipende sia dalla strategia difensiva (se sia meglio premettere i motivi più forti o quelli più deboli), sia dall’ordine logico delle questioni che il difensore vuole imprimere alla decisione, ferma la possibilità per il giudice, al di là del gioco dei rapporti tra ricorso e controricorso con ricorso incidentale, di seguire un ordine diverso, anche in base al principio della ragione più liquida.
Nel Protocollo, non potendosi ovviamente dare indicazioni sul modo migliore di costruire un ragionamento giuridico, ci si limita a dire che «l’esposizione deve rispondere al criterio di specificità e concentrazione dei motivi» e «dev’essere contenuta nel limite massimo di 30 pagine».
L’“epilogo” rappresenta la conclusione del discorso, e al tempo stesso quel che si chiede al giudice: è necessario che ci sia, e il Protocollo ce lo ricorda laddove prescrive la necessità delle conclusioni, con richiesta comunque non vincolante.
Sono prescrizioni utili o superflue, quelle che in questa parte fornisce il Protocollo? Evidentemente, se giudici e avvocati ne hanno ritenuto la necessità, un problema ci doveva essere.
Indiscutibilmente oggi, in un momento in cui tutto è divenuto più complicato, e più o meno tutti i settori del diritto tendono ad intrecciarsi tra loro e a riarticolarsi secondo nuove polarità, coltivare la capacità di dominare la complessità, ed aumentare l’efficacia dei dispositivi di argomentazione che puntano a premiare gli argomenti migliori, in una sintesi razionale e discorsiva, è l’obiettivo al quale si mira. La giusta dimensione dell’atto sta laddove non vi è nulla da aggiungere e nulla da togliere: non è tanto un problema di numero di pagine, quanto semmai di necessità che chi scrive esponga ‘quanto bisogna’ (quantum opus est) e ‘quanto basta’ (quantum satis est)38, e non altro. La brevità, come si è detto all’inizio, è un mezzo per raggiungere l’obiettivo, e non può essere l’obiettivo stesso, a meno che non si guardi soltanto alla deflazione del contenzioso e ai parametri di produttività che per il giudice sono importanti, ma, come ha scritto Renato Rordorf in Questione giustizia, non debbono trasformare chi giudica in un burocrate convertito all’aziendalismo39.
Note
1 Nel corso dell’esame in commissione – all’esito del quale, il 6 ottobre 2016, la Camera ha approvato il disegno di legge C. 4025A di conversione in legge del d.l., passato all’esame del Senato il 7 ottobre (Atto Senato n. 2550) e poi divenuto legge – è stato approvato, con riferimento al giudizio di cassazione, l’emendamento che ha modificato gli artt. 375, 376, 377, 379, 380 bis, 380 ter, 390, 391, 391 bis c.p.c. Non vengono toccate le previsioni che qui rilevano, in punto di redazione degli atti difensivi.
2 Nell’articolato predisposto nel dicembre 2013 dalla commissione presieduta da R. Vaccarella e incaricata di «elaborare proposte di interventi in materia di processo civile e mediazione», era previsto un art. 121, co. 2, nel quale si affermava in linea generale che «Il giudice e le parti redigono gli atti processuali in maniera sintetica». Nel disegno di legge che delega il Governo a riformare organicamente il processo civile, approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati nel marzo 2016 e passato all’esame del Senato, sono contenuti numerosi riferimenti al principio di sinteticità degli atti di parte e del giudice, nonché alcune indicazioni circa le modalità con le quali il principio stesso dovrebbe essere concretamente attuato: con riferimento al giudizio di cassazione, cfr., in particolare, l’art. 1, co. 2, lett. c) e g).
3 Così la lettera del Presidente Santacroce al Presidente del Consiglio nazionale forense, del 17 giugno 2013, nella quale si invita il Foro a rispettare regole di sinteticità, contenendo gli atti in un numero massimo «di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie», e a redigere le memorie senza riprodurre il contenuto dei precedenti scritti difensivi, sviluppando piuttosto «eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale».
4 Per i primi commenti al Protocollo in materia civile e tributaria si vedano Carpi, F., La redazione del ricorso in cassazione in un recente protocollo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, 359 ss.; Consolo, C., Il Protocollo redazionale CNF-Cassazione: glosse a un caso di scuola di soft law (… a rischio di essere riponderato quale hard black letter rule), consultato grazie alla cortesia dell’autore; Frasca, R., Glosse e commenti sul protocollo per la redazione dei ricorsi civili convenuto fra Corte di cassazione e Consiglio nazionale forense, in Judicium (judicium.it), (3 giugno) 2016; Punzi, C., Il principio di autosufficienza e il «protocollo d’intesa» sul ricorso in cassazione, in Riv. dir. proc., 2016, 585 ss.; Scarselli, G., Note sulle buone regole redazionali dei ricorsi per cassazione in materia civile, in Questione giust. (questionegiustizia.it), (17 marzo) 2016.
5 Giusti, A., L’autosufficienza del ricorso, in La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte Suprema italiana, a cura di M. Acierno, P. Curzio, A. Giusti, Bari, 2015, 242.
6 Più diffusamente, su questi temi, v. Mariani Marini, A., Strategie concettuali nella redazione dell’atto difensivo, in Rass. for., 2001, 821 ss.; Mortara Garavelli, B., Strutture testuali e stereotipi nel linguaggio forense, in La lingua, la legge, la professione forense, a cura di A. Mariani Marini, Milano, 2003, 3 ss.
7 Schopenhauer, A., Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, Milano, 1993, 95.
8 V. sul punto le considerazioni di Vincenti, U., Suggerimenti per scrivere un ragionamento giuridico, in Dir. e formazione, 2007, 283 ss.
9 Questi numeri sono forniti da Giusti, A., op. loc. cit.
10 Per l’evoluzione, nella giurisprudenza, del principio di autosufficienza, v. le ricostruzioni di Giusti, A., op. cit., 246252, e di Santangeli, F., Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc., 2012, 607 ss.
11 Secondo quanto si legge nella già ricordata lettera del Presidente Santacroce.
12 Cass., 23.6.2010, n. 15180.
13 Giusti A., op» cit., 244.
14 Cass, 18.9.1986, n. 5656.
15 Giusti A., op. loc. ultt. citt.
16 Per due diverse letture, v., da un lato, Carratta, A., La riforma del giudizio di cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 1105 ss., spec. 1117; e, dall’altro, Santangeli, F., Il principio di autosufficienza, cit., 610.
17 Nel senso della necessità di «ridepositare» le copie di quanto pure è già presente nei pur prodotti fascicoli di merito, Cass., 14.1.2011, n. 767; Cass., 13.5.2010, n. 11614; Cass., 23.2.2010, n. 4373; nel senso opposto, Cass., S.U., 23.9.2010, n. 20075.
18 Cass., S.U.., 3.11.2011, n. 22726. Sul modo di intendere l’art. 369 c.p.c. v., da ultimo, Cass., 11.1.2016, n. 195, che riafferma i principi delle Sezioni Unite.
19 Rordorf, R., Questioni di diritto e giudizio di fatto, in La Cassazione civile, cit., 31.
20 Così Cass., S.U., 22.5.2012, n. 8077, in Giusto proc. civ., 2012, 837, con nota di G. Balena. Nello stesso senso, Cass., 17.1.2014, n. 896; Cass., 25.3.2013, n. 7455.
21 Cass., S.U., 24.7.2013, n. 17931, in Riv. dir. proc., 2014, 179, con nota di R. Poli.
22 Cass., S.U., 6.5.2015, n. 9100, in Foro it., 2016, I, 272, con nota di M. Fabiani.
23 Caponi, R., Autonomia privata e processo civile: gli accordi processuali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, 112. In generale sul tema degli accordi processuali, v. Accordi di parte e processo, Atti del XIX seminario tenutosi presso la facoltà di giurisprudenza (Bologna 1° dicembre 2007), in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, supplemento al fasc. 3.
24 Sul valore dei protocolli, Caponi, R., L’attività degli osservatori sulla giustizia civile nel sistema delle fonti del diritto, in Foro it., 2007, V, 7 ss.
25 Cfr. Grossi, P., Il diritto tra norma e applicazione. Il ruolo del giurista nell’attuale società italiana, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, XXX, Milano, 2001, 493 ss., 502.
26 Caponi, R., op. loc. ultt. citt., osserva che la novità degli osservatori consiste nell’aver attribuito alla considerazione della prassi un profilo istituzionale, intendendosi l’‘istituzione’ nell’accezione della dottrina della pluralità degli ordinamenti giuridici di Santi Romano.
27 Distingue una “localizzazione interna” da una “esterna”, quest’ultima integrata dall’indicazione del “tempo” di produzione, Consolo, C., op. cit., 3 s. del dattiloscritto.
28 Cass., 10.3.2016, n. 4722.
29 Trib. Milano, 1.10.2013, in ilcaso.it.
30 V. Cass., S.U., 25.3.2010, n. 7161.
31 Cass., S.U., 22.9.2014, n. 19881, e Cass., S.U., 7.4.2014, n. 8053.
32 Cass., S.U., 11.4.2012, n. 5698.
33 Cass., 16.2.2016, n. 2937.
34 Cass., 16.2.2016, n. 2937.
35 Cass., S.U., 3.11.2011, n. 22726; Cass., S.U., 23.9.2010, n. 20075.
36 Consolo, C., op. cit., 5 ss. del dattiloscritto.
37 Così Vincenti, U., op. cit., 285, nel ripercorrere le pagine di Barthes, R., La retorica antica, Milano, 1972, 89 ss.
38 Come ci ricorda Mortara Garavelli, B., Manuale di retorica, Milano, 1988: «l’ideale della brevità consiste nel non esserci nulla da togliere e nulla da aggiungere (il pregio che Cicerone riconobbe ai Commentari di Giulio Cesare)».
39 Rordorf, R., La formazione dei magistrati: bilancio e prospettive, in Questione giust., 2016, fasc. 1, 4 ss.