PROSPETTIVA
Il termine p. ebbe nella tradizione medievale un significato particolare. Tale termine non riguardava le tecniche particolari di rappresentazione pittorica sul piano di figure a tre dimensioni (perspectiva pingendi o artificialis), che furono piuttosto una scoperta della pittura del Rinascimento italiano, ma lo studio dei problemi della luce (v.), di ordine teologico, ontologico, gnoseologico o solamente fisico, che nel Medioevo si trovarono discussi in particolari trattati, circolanti in gran numero a partire dalla prima metà del sec. 13° (fino al concludersi del successivo), per lo più con il titolo di Perspectiva. In queste opere, dal contenuto composito, i problemi dell'ottica (v.) vengono trattati in modo tutto particolare rispetto alla disciplina fisica moderna.I trattati di perspectiva, se genericamente discorrono della luce e del vedere, portano con sé fin dall'inizio la difficoltà di una determinazione precisa del campo specifico di indagine, per il quale non valgono le moderne classificazioni. Essi si configurano in un modo particolarmente complesso e articolato, in relazione ai loro contenuti, alla personalità dei maestri che li hanno redatti, alla loro ispirazione concettuale. Infatti la perspectiva è stata anche un complesso di filosofemi (Damisch, 1987) attraverso i quali sono emerse posizioni teoriche assai diverse, a livello epistemologico soprattutto, nei confronti del modo di concepire il rapporto del soggetto conoscente con la verità. E quindi si è stabilito un rapporto stretto tra la visione della realtà e la realtà stessa. Queste opere interessano così non solo la storia dell'arte o della filosofia, ma anche la storia della scienza e della tecnica.Nei trattati medievali dei secc. 13°-14° confluirono le conoscenze della c.d. ottica geometrica greca di Euclide e di Tolomeo, soprattutto attraverso la mediazione degli arabi - tra cui al-Kindī (ca. 800-873) e l'egiziano Ibn al-Haytham (ca. 965-1039), noto in Occidente con il nome di Alhazen -, che non solo avevano tradotto i testi di ottica antica, ma vi avevano aggiunto nuove scoperte e originali regole.
Nei trattati più famosi del Medioevo e nella classificazione delle scienze matematiche (tra le quali solo molto tardi, e cioè a partire dalla seconda metà del sec. 14°, fu introdotta questa disciplina), non fu usata quasi mai la parola di derivazione greca optica. Le opere medievali di perspectiva si intitolarono indifferentemente Perspectiva, De aspectibus o De visu, anche se poi questa varietà terminologica non era priva di un suo significato. Con Perspectiva si intendeva generalmente la scienza del vedere perspicuo, cioè chiaro, e del 'vedere attraverso' (per-spicere); con De aspectibus ci si riferiva ai problemi dell'apparenza o dell'apparire visivo, quell'aspectus che è propriamente la forma o l'immagine come appare al nostro occhio e che è rimasto anche nella lingua italiana; De visu, semplicemente, indicava la vista o il vedere (Federici Vescovini, 1965b).I termini aspectus e visus sono più strettamente pertinenti ai testi cui fanno riferimento: aspectus è impiegato dal traduttore latino (forse il famoso Gerardo da Cremona; 1114-1187) del Kitāb al-manāẓir di Ibn al-Haytham (De aspectibus) e rinvia alla particolare teoria dell'apparenza visiva di questo autore arabo; visus rimanda alle traduzioni dal greco dell'Ottica di Euclide e alla terminologia dei latini, come Cicerone, sui problemi della vista e dell'evidenza sensibile, sviluppati dai filosofi dello stoicismo antico come Zenone di Cizio, Cleante e Crisippo. Cicerone nei suoi Academica (I, 40; II, 18, 77) tradusse la kataleptiké phantasía, con cui gli stoici intendevano l'evidenza sensibile (ossia esprimevano il carattere di certezza e verità immediata o intuitiva del senso della vista), con il termine visus, che da Cicerone passò per canali poco conosciuti nei diversi trattati De visu del Medioevo, per esprimere anche il carattere di certezza immediata del senso della vista.Il termine perspectiva è invece tipicamente scolastico e appartiene ai dotti del Medioevo che lo coniarono, da Roberto Grossatesta (1168-1253) a Ruggero Bacone (1220-1292 ca.), a Witelo (1235/1240-post 1281), a Biagio Pelacani da Parma (m. nel 1416) e a tutti gli altri. Così già nei commenti delle prime classificazioni delle scienze teoretiche del sec. 12° e poi del 13°, il termine greco optiké era sostituito con perspectiva, che più tardi si consolidò stabilmente.Le trattazioni della visione sensibile di p. medievale erano dunque di origine composita, cristiano-scolastica in primo luogo, ma derivate dalle opere scientifiche classiche e da quelle degli scienziati arabi dei secc. 9°-12°, queste ultime circolanti in Occidente con il titolo De aspectibus dato loro dai traduttori latini. Queste opere univano insieme problematiche diverse: teorie sulla natura della luce e del colore per lo più di origine filosofica e religiosa; teorie della visione sensibile (vista) e dell'apparire delle immagini visive e del loro costituirsi a livello di percezione soggettiva, nelle quali si affrontavano tematiche psicologiche e gnoseologiche.Nelle trattazioni dei filosofi neoplatonici, greci e arabi, la visione è intesa come conoscenza contemplativa di oggetti eterni, ottenuta per mezzo di un'illuminazione superiore. Dall'idea suprema del Bene della Repubblica di Platone, la cui intima costituzione è luce e che ha la proprietà, come la luce, di far essere e di far conoscere le cose illuminandole (Repubblica, 508B-509B), passa in queste opere una problematica di 'metafisica' della luce, per la quale il tema centrale è quello di una causalità gnoseologica e ontologica della realtà, la cui intima essenza è definita come luce intelligibile o spirituale.All'interno di talune trattazioni di perspectiva medievale, come il De luce di Roberto Grossatesta, la Perspectiva di Witelo o il De luce del francescano Bartolomeo da Bologna (m. dopo il 1294), maestro di teologia a Parigi intorno al 1278, si ritrovarono elaborati importanti concetti epistemologici, tra cui fondamentale è l'ideale contemplativo del conoscere fondato sull'idea della causalità ontologica e gnoseologica del BeneLuce-Verità eterna. È possibile conoscere, ossia contemplare, l'intelligibile, perché in forza di un'illuminazione che viene da una forma superiore, che è la luce dell'intelligenza prima, ne siamo la causa intelligente. In tal modo si viene a stabilire una scala di cause intelligenti e di intelligenze ognuna delle quali illumina la causa inferiore e le permette di conoscere.In queste opere del sec. 13° che trattano della visione contemplativa e della luce eterna è sviluppato un principio che sarebbe stato abbandonato nelle trattazioni di perspectiva del secolo successivo, allorché questa problematica di metafisica della luce si avviò a divenire una fisica della luce. Nelle trattazioni di ispirazione neoplatonica sulla luce e sulla visione del sec. 13° venne elaborato il principio che conoscibile è solo la forma intelligibile e non quella sensibile e, così, solo l'universale eterno. In queste opere riesce difficile dare una dignità gnoseologica e ontologica alla visione sensibile del mondo terrestre e degli enti singolari esistenti sulla terra. Così i maestri scolastici cristiani del sec. 13°, come Roberto Grossatesta (De luce), elaborarono l'idea che la luce è da Dio, e che essa esprime l'intima costituzione formale del mondo fisico: la luce è la forma della corporeità e pertanto tutto il mondo circostante può essere conosciuto secondo le regole geometriche della propagazione della luce.Questi maestri cristiani, più inclini alla meditazione sulla natura della luce, i dotti che Gilson (1929) ha definito di ispirazione agostiniano-avicennizzante, non arrivarono tuttavia mai a far coincidere la natura di Dio con quella della luce, e operarono una distinzione concettuale tra lux, che è sostanza e causa, e lumen, che è accidente ed effetto, cioè deriva la sua luminosità da una fonte di luce ed è l'oggetto proprio studiato dai perspectivi.In queste opere di perspectiva sia la generazione degli esseri sia il processo conoscitivo avvengono secondo le condizioni della visione; per il vedere sono necessarie tre cose: colui che vede, ciò che è visto e la luce ed è così che l'ideale del conoscere posa sulle regole della visione o del perspicere. Pertanto, a seconda di come venne intesa la relazione tra il senso e l'intelletto, dell'importanza maggiore o minore che si attribuì alla visione esteriore o alla visione interiore (l'illuminazione divina), del privilegiare o del negare il carattere di evidenza della percezione visiva sensibile, in queste opere di perspectiva si ebbero trattazioni molto diverse dal sec. 13° al 14° sui problemi della natura della luce, della sua trasmissione, della sua realtà, dei suoi fenomeni e della validità della loro apparenza visiva nei confronti della verità.Inoltre, nelle trattazioni medievali di perspectiva entrarono a far parte a buon titolo le regole geometriche della disciplina che tratta della propagazione della luce in linea retta (quella che oggi viene chiamata ottica geometrica), soprattutto quando iniziarono a circolare le traduzioni in latino dall'arabo dell'Ottica di Euclide, della Catottrica di Tolomeo e le compilazioni della diottrica degli scienziati arabi come alKindī e Ibn al-Haytham, la cui dottrina si diffuse nel mondo arabo anche per opera del suo commentatore al-Fārisī (sec. 14°; Rashed, 1970).Così le più elaborate opere di perspectiva del sec. 14°, come quella di Biagio Pelacani, ebbero uno schema tripartito che seguiva le regole dell'ottica geometrica: il primo libro trattava della visione retta, il secondo della visione riflessa (o de speculis), il terzo dei fenomeni della rifrazione, con tutte le illusioni ottiche che generavano, e che erano già stati magistralmente illustrati da Ibn al-Haytham nell'ultimo libro del De aspectibus. La conoscenza diretta dell'opera dell'egiziano Ibn al-Haytham da parte dei latini, per le novità che introduceva, dette nuovo vigore alle elaborazioni della perspectiva scolastica redatte nel 13° e soprattutto nel 14° secolo.
Nel mondo scientifico medievale latino la perspectiva non faceva parte delle discipline matematiche e fisiche, il c.d. quadrivio. Dal sec. 7° alla metà del 14° prevalsero la classificazione delle scienze matematiche data dal dotto latino Manlio Severino Boezio (ca. 480-524) e quella già fornita dal filosofo Aristotele. Per Boezio, come già per Aristotele (Metaphysica, 1026A, 8-10; Physica, 194A, 7-12; De anima, 403B, 7-17; 432B, 15-20), la perspectiva (ottica) era una disciplina dai contorni incerti: Aristotele l'aveva considerata come una disciplina a metà tra la matematica e la fisica (scientia media; Cagné, 1969); Boezio non l'aveva inclusa tra le scienze matematiche da lui chiamate quadriviales, e cioè l'aritmetica, la geometria, l'astronomia e la musica.La perspectiva venne a far parte delle scienze matematiche a pari titolo insieme ad aritmetica, geometria, astronomia e musica, in modo ben definito solo assai tardi, nella seconda metà del sec. 14°, per opera del matematico e fisico italiano di origine ma parigino di formazione, Domenico da Chivasso (m. tra il 1357 e il 1362), attivo a Parigi tra il 1349 e il 1357 (Federici Vescovini, 1965b, pp. 205-211). Nelle sue Quaestiones perspectivae (Firenze, Bibl. Naz., Conv. Soppr., S. Marco J. X. 19, cc. 44r-55v) egli affermò che le scienze matematiche sono cinque e non quattro, perché ad aritmetica, geometria, musica e astrologia (cioè astronomia), si doveva aggiungere la perspectiva. Quest'opera, pervenuta incompleta, testimonia la penetrazione diretta del De aspectibus di Ibn al-Haytham, che fu qualcosa di concettualmente diverso rispetto alla rielaborazione e all'adattamento fattone nella Perspectiva di Witelo, da cui fu mediata la dottrina di Ibn al-Haytham per i dotti cristiani. D'altronde l'opera di Domenico si colloca cronologicamente quasi un secolo dopo, nella metà del sec. 14°, in un clima intellettuale e scientifico assai mutato rispetto a quello del secolo precedente. Le sue Quaestiones perspectivae hanno per scopo la legittimazione della perspectiva come una scienza empirico-matematica, non più media (come intendevano gli aristotelici, averroisti o meno) tra fisica e metafisica in quanto matematica, ma come una scienza insieme teorica e sperimentale fondata su una sensazione privilegiata, quella della vista (De visu). La perspectiva è presentata come una scienza che si è spogliata del suo fondamento metafisico (la luce sostanziale e spirituale di Grossatesta e di Witelo): essa è una semplice disciplina matematica che studia le immagini luminose considerate come sensibili, corporee (e non intelligibili). Esse si moltiplicano regulare, secondo le regole della penetrazione in linea retta della luce. Pertanto essa è una scienza del quadrivium.Con tutta probabilità per influenza della monumentale opera di perspectiva di Ibn al-Haytham, Domenico da Chivasso contribuì a far dilatare, allargare e ampliare la tradizionale concezione latina del quadrivio boeziano: l'enciclopedia scientifica del Medioevo si arricchì della perspectiva e così venne a comprendere non quattro, bensì cinque discipline. Essa non fu però una scienza strumentale, inferiore e subordinata, ma autonoma; le matematiche divennero dunque cinque. Questa teorizzazione non è priva di una sua importanza, perché proprio secondo Roberto Grossatesta (De luce), che fu il teorizzatore della luce come forma della corporeità (metà sec. 13°) e che concepì tutti i fenomeni fisici sotto le forme geometriche della propagazione della luce, come punti, rette, triangoli e sfere, le discipline del quadrivio restavano quattro senza la perspectiva. E questo ben a ragione, perché secondo la sua impostazione logico-epistemologica la perspectiva era considerata ancora come una disciplina che rientrava nei presupposti di una metafisica della luce. La sua enciclopedia delle scienze era inserita in una teoria logica della subalternazione delle scienze alla metafisica.
Nelle elaborazioni scientifiche dei problemi della perspectiva medievale da parte dei diversi maestri, soprattutto della fine del sec. 14°, entrarono non solo discussioni di carattere matematicogeometrico, ma anche problemi che oggi si chiamerebbero di perspectiva atmosferica. Per l'astronomo medievale era di primaria importanza il problema se le stelle si vedono dove sono, oppure subiscano deviazioni per le leggi della rifrazione atmosferica e quale sia la quantità di questa deviazione. Nicole Oresme (ca. 1320/1325-1382) nel suo De visione stellarum (Firenze, Bibl. Naz., Conv. Soppr., S. Marco J. X. 19, cc. 31r-41r), nella seconda metà del sec. 14° (Federici Vescovini, 1965b, pp. 197-206), pose al centro questa questione - che in altre trattazioni (come nelle Quaestiones de perspectiva di Biagio Pelacani) era formulata separatamente - nel libro III, che tratta anche di molti altri problemi della rifrazione, come l'arcobaleno.Il De visione stellarum riguarda gli inganni (deceptiones) della vista circa la determinazione del luogo preciso in cui si trovano le stelle o i corpi celesti e formula le regole per ovviare loro. Tenendo nel giusto conto l'apparenza ottica della posizione delle stelle, si tratta cioè di riuscire a determinare la loro altezza nel cielo e il loro luogo reale. Il metodo seguito dall'autore è fondato sull'esperienza (experientia), cioè sull'osservazione, da un lato e sul ragionamento matematico dall'altro, in base al postulato fondamentale che, nell'esperienza verace, la ragione concorda sempre con i sensi e questi con la ragione.L'autore conclude la trattazione con il tema del moto irregolare delle stelle. L'irregolarità dei moti celesti, che di per sé sono immutabili, eterni e perfetti, è per lui un mero fenomeno ottico: rientra cioè nelle leggi di deviazione dei raggi luminosi attraverso mezzi fisici diversamente densi. Le leggi della perspectiva geometrica spiegano così tutte le apparenze e permettono di fare congetture e utili pronostici sulle condizioni dell'aria e sul tempo che verrà, se sarà bello o farà tempesta.Un'impostazione analoga a quella di Nicole Oresme (se questa opera è sua), e vicina anche a quella di Giovanni Peckham, si trova nelle Quaestiones de perspectiva (Federici Vescovini 1965b, pp. 165-193) del suo più giovane contemporaneo Enrico di Langenstein o di Assia (1325 ca.-1397 ca.).Nello Studio parigino della seconda metà del sec. 14° la perspectiva si configurò come una scienza fisico-geometrica che prestava le sue regole per spiegare i fenomeni luminosi, anche quelli meno comprensibili, per spogliarli di ogni aspetto irrazionale, miracoloso o superstizioso. Nicole Oresme l'applicò al campo dell'astronomia, facendo della perspectiva una disciplina d'osservazione e di spiegazione dei moti stellari, una perspectiva astronomica, un sapere utile all'uomo, che non detta oroscopi necessari e determinanti, ma solo utili previsioni. Infatti sia nell'opera De visione stellarum, attribuita a Oresme, sia nelle Quaestiones de perspectiva di Enrico di Langenstein, le regole geometriche della diffusione della luce della perspectiva offrono un valido strumento per combattere l'astrologia. I corpi celesti non irraggiano luce carica di misteriose forze occulte, che regolano necessariamente ogni azione dell'uomo, ma, secondo quanto insegna la perspectiva, emettono solo luce e calore in base a determinate regole geometrico-fisiche. Così la considerazione ottica dei fenomeni luminosi celesti permette di concludere che basta il moto dei cieli, la luce che essi mandano, unita all'azione delle qualità primarie degli elementi, a rendere conto di ogni avvenimento naturale, senza bisogno di ricorrere al principio di misteriosi effluvi.Nicole Oresme, come Enrico di Langenstein, Domenico da Chivasso e Biagio Pelacani, si avvalse delle regole geometriche della perspectiva per dare una spiegazione razionale (matematica) dei fenomeni fisici, terrestri e celesti, di carattere luminoso: la luce non trasmette alcuna magica od occulta influenza, ma è un semplice avvenimento fisico che sottostà a determinate regole geometriche. Con essi, la perspectiva medievale si avviò a diventare una scienza matematico-fisica.
La Perspectiva communis del francescano inglese Giovanni Peckham fu il manuale di perspectiva più conosciuto nel mondo latino. Esso costituì il testo base di insegnamento di questa disciplina a partire dalla metà del 14° secolo. Letta e commentata nelle Università medievali per opera dei maestri sopra ricordati, ma soprattutto dei dotti di scuola inglese o parigina come Domenico da Chivasso e Biagio Pelacani, quando la p. venne inclusa nelle discipline delle arti quadriviali, questa opera fu (come avviene di solito per i libri di testo) una compilazione didattica, assai piatta ed espositiva, che forniva una serie di definizioni generiche: per questo fu chiamata Perspectiva communis. Essa metteva insieme elementi generali tratti soprattutto dalle opere di Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone.Una delle opere più originali di perspectiva del Medioevo, che, recuperata da alcuni maestri latini come Biagio Pelacani tra i secc. 14° e 15°, contribuì alla nascita dell'ottica moderna di Newton e di Cartesio da un lato e alla scoperta della perspectiva artificialis dall'altro, fu invece il citato Kitāb al-manāẓir dell'egiziano Ibn al-Haytham, in sette parti, tradotto nel sec. 12° con il titolo De aspectibus. Quest'opera, che godette nel Medioevo di una fortuna straordinaria (Federici Vescovini, 1990), fu tradotta anche in volgare italiano con il titolo De li aspecti nella metà del sec. 14° e circolò a Firenze, dove fu utilizzata da Lorenzo Ghiberti per la stesura del suo Commentario terzo di ottica (Federici Vescovini, 1965a; 1983).L'importanza dell'opera di ottica di Ibn al-Haytham consiste nel superamento delle idee della perspectiva di Euclide e di Tolomeo, dovuto a una conoscenza più chiara, e fondata sull'osservazione, dei fenomeni di rifrazione della luce: ossia della deformazione delle immagini provocata dalla deviazione dei raggi luminosi quando attraversano mezzi di densità differente. Ma la sua novità non si arresta qui. Ibn al-Haytham introdusse nella concezione della scienza del Medioevo una considerazione fisico-matematica e non metafisica della luce, per cui la luce non sarebbe la forma sensibile dell'intelligibile, ma la forma del sensibile in quanto tale. Nella prima direzione si erano mossi invece gli autori di perspectiva medievale di ispirazione platonico-neoplatonica, come i maestri francescani Bartolomeo da Bologna, insieme a Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone, Giovanni Peckham e Witelo. La Perspectiva di quest'ultimo fu una parafrasi di quella di Ibn al-Haytham, con cambiamenti in ambito epistemologico per quello che riguarda la teoria della conoscenza. Per questo fu accolta con favore dai dotti cristiani che rifiutavano l'epistemologia empirista e la teoria della luce materiale e meccanica di Ibn al-Haytham. Così Witelo parafrasò Ibn al-Haytham, ma concepì, diversamente da lui, i visibili sensibili luminosi ancora nei termini metafisici di forme intelligibili che si colgono per il mezzo di quelle sensibili, che non hanno però mai nessuna realtà o verità in sé, in quanto sensibili.In altre parole, Ibn al-Haytham ebbe una concezione sperimentale e meccanica della luce: egli la considerò nella sua realtà sensibile, osservabile senza l'introduzione di forme o species intelligibili che sarebbero le forme sostanziali della realtà; le forme sono figure matematiche, riducibili a raggi che diffondono la luce secondo le leggi della geometria. A questo livello i fenomeni luminosi sono spiegati in termini geometrici e meccanici come movimenti di raggi luminosi. Di conseguenza Ibn al-Haytham superò la spiegazione della visione oculare data dai filosofi e dai medici arabi come Ḥunayn ibn-Isḥāq (lo Johannitius dei latini; m. nell'877), lo pseudo-Galeno (sec. 9°), ῾Isà b. ῾Alī (Jesus Halì; secc. 10°-11°) e Avicenna (Ibn Sīnā, 980-1037; Federici Vescovini, 1965b, pp. 89-112). La loro spiegazione era essenzialmente biologica e psicologica ed era fondata, da un lato, sull'idea della riflessione delle immagini da parte della superficie dell'occhio e, dall'altro, sulla dottrina medica della circolazione degli spiriti visibili (spiritus visibiles) nelle parti centrali del cervello. Questi spiriti erano concepiti come legati alle facoltà spirituali superiori dell'anima sensibile-razionale. Ibn al-Haytham invece attribuì all'occhio una struttura geometrica, pur riconoscendo una sensibilità nervosa al nervo ottico. Tuttavia la sua originalità più autentica consiste nel fatto che egli per primo sottolineò i caratteri di diafanità degli umori dell'occhio e in questo modo mise in luce le deviazioni per rifrazione di tutti i raggi luminosi che colpiscono e penetrano dentro l'occhio tranne uno: quello in linea perpendicolare (radius perpendicularis), che è anche esclusivamente quello che dà immediatamente l'immagine distinta, cioè precisa, del punto della superficie visiva da cui parte secondo le regole dell'ottica geometrica. Questo raggio perpendicolare è il solo che dà la visione corretta, perché tutti gli altri risultano deviati per la rifrazione che subiscono penetrando negli umori dell'occhio. È così evidente che Ibn al-Haytham ha modificato positivamente, superandoli, i dati dell'ottica geometrica di Euclide e di Tolomeo, nel senso che l'immagine, o apparenza visiva, non dipende tanto dall'ampiezza dell'angolo ottico (come diceva Euclide), quanto dalla frontalità o dalla perpendicolarità del punto del corpo luminoso, in relazione alla distanza relativa all'osservatore e alla presenza dell'oggetto visibile. L'immagine visiva, cioè, in prima istanza, dipende dalla determinazione dei punti della superficie visibile che devono trovarsi in linea perpendicolare con il centro dell'occhio. Essi costituiscono la superficie di base della piramide ottica, superficie che viene determinata, ossia misurata, in relazione alla distanza del centro dell'occhio dell'osservatore. Ibn alHaytham sostenne allora che la capacità della facoltà razionale dell'osservatore di distinguere le figure non si fonda solamente sulla considerazione dell'angolo ottico, allorché si tratta di stabilire le grandezze e le quantità visive. L'osservatore deve sempre compiere una serie di operazioni diverse di calcolo e di misura, mettendo in relazione la quantità dell'angolo ottico con la quantità della lunghezza dei raggi ottici, con la quantità degli spazi che li intervallano, che sono delimitati dalle loro estremità. Solo in questo modo, con l'intervento delle facoltà razionali superiori che compiono una serie di ragionamenti di calcolo e di misura, l'occhio è in grado di afferrare la quantità della cosa vista nella sua vera realtà. In altri termini, le immagini visive sono ricondotte da Ibn al-Haytham alle loro misure o qualità primarie, le superfici, le loro parti, i termini e gli spazi o gli intervalli tra di loro, in quanto le forme visive sono collocate in uno spazio matematico, omogeneo, quantitativo. L'importante conseguenza che ne trassero gli scienziati latini, come Biagio Pelacani e poi Leon Battista Alberti nel suo De pictura (Federici Vescovini, 1997), fu che le proprietà sensibili dei corpi (come il colore), sono ricondotte alle loro proprietà quantitative, determinate e finite, di un sostrato materiale, corporeo, e sono percepite mediante un ragionamento matematico fondato sull'osservazione sensibile.L'importanza dell'opera di ottica di Ibn al-Haytham consiste anche nell'elaborazione gnoseologica ed epistemologica della teoria dell'apparenza visiva dei visibili 'complessi' (come la distanza), di cui egli parla dettagliatamente nei due importanti primi libri gnoseologici del De aspectibus. La relazione gnoseologica tra il soggetto conoscente e l'oggetto reale viene così sostanzialmente a mutare rispetto all'impostazione intellettualista di Platone o di Aristotele, secondo un'epistemologia empirista unita a una spiegazione meccanicogeometrica del funzionamento dell'occhio.Così Ibn al-Haytham sorpassò l'insegnamento della p. antica di Euclide e Tolomeo, ponendosi il problema - che essi non si erano posti - della vera o 'falsa' immagine in relazione al soggetto percipiente. Ibn al-Haytham collocò al centro della sua perspectiva una vera e propria teoria gnoseologica, empirista e non intellettualista, in quanto si interrogò sulla costituzione della vera o della falsa immagine visivo-percettiva, della verità o della falsità della visione ottica, dell'errore nella percezione visuale: egli quindi pose per la prima volta in evidenza il tema del rapporto tra immagine percettiva e oggetto reale, stabilendo una relazione diversa tra visione ottica (geometrica), sensazione visiva, percezione interiore e verità oggettiva. Essa tuttavia fu sottaciuta, quando non fraintesa, dai perspectivi latini dei secc. 13° e 14°, fatta eccezione per Biagio Pelacani.Le Quaestiones de perspectiva di Biagio Pelacani, che egli redasse e lesse tra Pavia, Bologna, Padova e Firenze, dal 1374 ca. agli inizi del sec. 15°, costituiscono un'opera tra le più nuove e originali del Medioevo latino e segnano l'inizio dell'età moderna. L'autore stesso ebbe la consapevolezza di andare contro l'insegnamento dei suoi predecessori latini come Bacone, Peckham o Witelo; e ciò proprio in relazione alla sua interpretazione delle idee più nuove del De aspectibus di Ibn al-Haytham, soprattutto di fronte alla scelta tra un rifiuto o invece un'accettazione della gnoseologia empirista di questi.Infatti, alcuni perspectivi latini del sec. 13°, come Bacone, Peckham e soprattutto Witelo, contribuirono grandemente a mal comprendere o trasformare la dottrina di Ibn alHaytham su alcuni punti fondamentali, che invece Pelacani recuperò. Per es. molti di loro non accettavano l'idea che la visione oculare si spieghi con la legge meccanico-geometrica della visione retta, per il solo raggio perpendicolare rectus che penetra all'interno dell'occhio, o che la vista si compia per raggi ricevuti e non emessi, come sostenevano invece i platonici. Ma essi rifiutarono soprattutto il principio gnoseologico dell'evidenza sensibile, ossia il valore di certezza dato all'operazione dell'intuizione ottica connesso all'idea della percezione meccanica del raggio perpendicolare, che era un adattamento della teoria stoica della kataleptiké phantasía (il visus di Cicerone). Di conseguenza molti di essi, e soprattutto Witelo, non accettarono la distinzione, compiuta da Ibn al-Haytham e ripresa da Pelacani, tra la certezza immediata dell'intuizione (o visione ottica), spiegata con la regola meccanico-geometrica della penetrazione del raggio perpendicolare dentro l'umore glaciale dell'occhio, e la generalità dell'immagine che avviene invece per aspectus, ossia quell'immagine che si costituisce per tutti i raggi rifratti che partono dai punti dell'oggetto che non si pongono in linea retta con gli umori diversamente densi dell'occhio e che, quindi, vengono deviati, provocando un'immagine confusa e generica. In altri termini, i perspectivi del sec. 13° prima di Pelacani non accettarono la spiegazione geometrica e meccanica della visione oculare, connessa con l'idea della passività dell'occhio, né la teoria dell'attività delle percezioni interiori. L'occhio era infatti ritenuto dai platonici medievali più nobile dell'oggetto visivo e quindi non poteva essere ferito dalla luce, secondo l'interpretazione di un celebre passo del Timeo (45B, 1ss.).Con la p. di Biagio Pelacani la teoria della visione sensibile si spostò sul piano fisico-naturale e la sua teoria della luce e del colore si avviò a diventare una fisica e non più una metafisica della luce, proprio attraverso una rilettura più aderente alle teorie epistemologiche e gnoseologiche dei primi due libri del De aspectibus di Ibn al-Haytham.Il recupero della dottrina del vedere di Ibn al-Haytham entro il contesto generale di epistemologia, gnoseologia, psicologia, ontologia e logica di Pelacani condusse all'elaborazione di una dottrina delle immagini visive e del loro costituirsi ottico in quanto ricondotte alle loro proprietà matematiche così come otticamente percepite, e cioè secondo piramidi visive. L'elaborazione di Pelacani, anche per la sua critica alla teoria dello spazio come continuo infinitamente divisibile di Aristotele, giunse al risultato di una concezione dello spazio astratto, vuoto, geometrico e omogeneo, definibile per gli intervalli tra le figure, o spazio posizionale. E questa nozione di spazio matematico posizionale, unitamente all'idea della piramide visiva di Ibn al-Haytham e di Pelacani, fu preliminare alla scoperta dei principi fondamentali della perspectiva artificialis o pingendi degli artisti del Quattrocento italiano come Filippo Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Piero della Francesca.Così i capisaldi generali della perspectiva di Pelacani si possono ricondurre ad alcuni elementi che lo distaccano dai perspectivi latini del sec. 13°: egli rifiutò la teoria della luce come forma dell'intelligibilità del sensibile, o metafisica della luce, che era dottrina di derivazione platonico-neoplatonica, e non accettò più le nozioni fondamentali della filosofia naturale di Aristotele, centrata sulla dottrina del moto naturale e violento, degli elementi come forme sostanziali, del continuo pieno (l'horror vacui), ma ammise uno spazio vuoto, definibile come distanza tra gli oggetti (Federici Vescovini, 1994).Pelacani fu critico nei confronti dei perspectivi a lui anteriori, proprio intorno a quei concetti sopravvivendo i quali non sarebbe potuta sorgere una perspectiva artificialis. Il senso del filosofema fondamentale delle teorie prospettiche medievali anteriori, e cioè che la realtà è come la si vede (principio introdotto da Roberto Grossatesta e da Ruggero Bacone con la sua perspectiva intesa come scientia experimentalis, cioè visiva), venne trasformato: la realtà non è la visione del soprasensibile e quindi non la si vede e rappresenta secondo forme qualitative, colorate o luminose, che sono il medium per giungere all'intelligibile, ma la si vede secondo le figure corporee, che sono la 'realtà' del nostro mondo. Esse sono figure estese nelle tre dimensioni misurabili e raffigurabili secondo proporzioni e coordinate astratte che hanno per riferimento privilegiato l'occhio dell'osservatore, le percezioni superiori del suo intelletto e la sua vis comparationis (Leon Battista Alberti, De pictura, I), la quale misura la distanza dalla posizione degli oggetti rispetto alla distanza dell'occhio.Pelacani, in altre parole, introdusse una nozione di 'rappresentazione' visiva, fondata su una gnoseologia empirista, per cui ritenne che il principio della conoscenza è fondato sull'evidenza sensibile (la kataleptiké phantasía degli antichi stoici, il visus di Cicerone). E questa era una novità rispetto alle teorie conoscitive degli aristotelici medievali come Tommaso d'Aquino o Witelo, per i quali il senso era sì l'inizio del conoscere, ma solo come strumento e non come condizione necessaria. Ma ciò non basterebbe se il senso esterno non fosse connesso ai sensi interni, che sono le percezioni razionali interiori quali la memoria, l'estimativa e soprattutto la cogitativa. Le forme visive si colgono così nelle loro figure, dimensioni e proporzioni vere, perché sono rappresentazioni che costituiscono il risultato delle operazioni di calcolo e di ragionamento delle facoltà interiori ed esteriori dell'anima sensibile e intellettuale insieme. E l'assunto fondamentale è che le cose sono come vengono percepite otticamente, ossia secondo regole geometriche: l'esse est il percipi ottico.Così Pelacani, rielaborando originalmente la dottrina dell'apparenza visiva e le regole geometriche della costituzione dell'immagine di Ibn al-Haytham, attribuì alla perspectiva un'importanza di primo piano, modificando gli assiomi dell'ottica antica. Egli sostenne che la visione come rappresentazione visiva delle cose non segue tanto la grandezza dell'ampiezza dell'angolo visivo, come avevano detto Euclide e Tolomeo e avevano accettato i perspectivi latini prima di lui, quanto invece segue la proporzione delle distanze (ossia la 'remozione') degli oggetti dal punto di vista dell'osservatore, da cui dipendono gli angoli ottici: essa è una proporzione che si determina secondo un calcolo razionale. E così egli enucleò e chiarì una tesi fondamentale del De aspectibus di Ibn al-Haytham, introducendo un fondamentale cambiamento nei filosofemi che sottintendono la perspectiva antica e medievale: in altre parole, non esiste alcuna distinzione tra grandezza 'reale' (misura astratta, entità intelligibile) e grandezza apparente o soggettivo-visiva, in quanto l'apparenza reale è ricondotta alla rappresentazione ottica delle distanze degli oggetti dall'osservatore, distanze ricostruite secondo i complessi ragionamenti di calcolo e di misura dell'intelletto, che danno l'apparenza certa, o 'certificata', ossia vera della cosa.Ora, questo principio (Klein, 1975) sta alla base dell'elaborazione da parte degli artisti rinascimentali della perspectiva artificialis, nella quale le grandezze reali sono ricondotte a quelle apparenti tramite il sistema del punto di fuga e dell'intersezione della piramide visiva; così, il calcolo della distanza degli oggetti dal punto di vista dell'osservatore diviene problema fondamentale. Pertanto, Piero della Francesca nel suo sforzo di teorizzazione della perspectiva artificialis fu in grado di procedere nella direzione di ridurre la diminutio a una regola di proporzionalità strettamente numerica, indipendente da ogni considerazione di estensione òggettiva', secondo quei principi generali che già avevano teorizzato Ibn al-Haytham e Pelacani. La costruzione legittima si poté costituire nel suo aspetto formale quando si pose al centro il soggetto che la rappresenta, stabilendo una relazione tra punto di vista, punto di fuga e soprattutto punto di distanza. Dalla perspectiva medievale si arrivò quindi al De prospectiva pingendi di Piero della Francesca, al De pictura di Leon Battista Alberti, al Trattato della pittura di Leonardo da Vinci.
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