Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Gli artisti rinascimentali avvertono l’urgenza di rendere sulla superficie bidimensionale della tavola o della tela una realtà fatta di volumi tridimensionali scalati in profondità. E affrontano questo problema attraverso la riduzione dello spazio a un sistema di coordinate numeriche, specchio di un mondo equilibrato e armonico, in cui tutto è riconducibile a un canone proporzionale che pone l’uomo al centro dell’universo.
All’alba del Quattrocento Firenze è una città di strade e angoli. Le facciate degli edifici, gli stipiti delle finestre, le ringhiere e le balaustre, i conci dei basamenti e le pietre del selciato formano lunghe linee, distribuite su diversi piani, che corrono lontano e “sembrano proiettarsi in profondità dirigendosi verso uno stesso punto” (Luciano Bellosi, La rappresentazione dello spazio, 1980). Le vie, percorse da carri, sono animate dalla febbrile eccitazione dei traffici e dei commerci e sono popolate da uomini che l’esperienza di bottega ha reso capaci di misurare al semplice sguardo distanze e lunghezze.
In questa stessa città, secondo Antonio di Tuccio Manetti, Filippo Brunelleschi avrebbe dimostrato pubblicamente il metodo da lui ideato per restituire su un piano bidimensionale “diminuzioni ed accrescimenti che appaiono agli occhi degli uomini delle cose di lungi e da presso” (Antonio di Tuccio Manetti, Vita di Filippo Brunelleschi, 1482 ca.). Si tratta delle “tavolette”, realizzate probabilmente nel primo decennio del secolo e oggi perdute, che ritraevano due dei più importanti edifici fiorentini: il battistero di San Giovanni e piazza della Signoria con Palazzo Vecchio. Osservando, attraverso un foro passante, questi dipinti realizzati su argento brunito e riflessi su uno specchio, era possibile vedere le strade e le piazze di Firenze riportate con esattezza matematica su un supporto piatto.
Lo spazio continuo, omogeneo e isotopo, presupposto dalla costruzione di questo mondo matematico e astratto, viene teorizzato da Leon Battista Alberti nel trattato De Pictura (1435-1436): la realtà deve essere guardata, affinché la resa risulti in tutto e per tutto credibile, da un punto di vista determinato dall’artista in modo che la posizione dell’osservatore coincida con quella del disegnatore. Un punto focale, dunque, uno spettatore immobile, un solo occhio e un unico orizzonte sono i presupposti che permettono il convergere delle linee verso un medesimo punto di fuga, l’attuazione di una scala omogenea di grandezze e il compimento dell’unità prospettica della rappresentazione. E l’uomo, attorno al quale viene edificata questa costruzione astratta, è davvero il centro dell’universo, punto di partenza e di arrivo dei “raggi rettilinei che partono dall’occhio dell’osservatore in direzione degli oggetti” (Leon Battista Alberti, De Pictura).
Ma quella che anche oggi sembra la prassi corretta di raffigurazione e di visione del mondo è in realtà soltanto una delle tante possibili modalità di rappresentazione spaziale. Nel 1927 Erwin Panofsky scrive La prospettiva come “forma simbolica”, un saggio, tuttora capitale, in cui lo storico dell’arte tedesco evidenzia l’astrazione e la convenzionalità, rispetto allo spazio fisico ed emotivo dell’uomo, implicite nella prassi prospettica quattrocentesca e ne sostiene la profonda determinazione storica. In effetti, la creazione di un’immagine pittorica fondata su una griglia geometrica individuata matematicamente è una convenzione che ben si sposa con la mentalità rinascimentale. Ogni oggetto è inscritto in un sistema razionale di coordinate e ogni spazio viene configurato sulla base dell’applicazione di regole figurative equilibrate e armoniche, rivelatrici di un superiore ordine universale. Non sorprende che sia proprio il mondo mercantile e borghese della Firenze del Quattrocento a dare vita a una costruzione simbolica che riporta sulla carta un universo interamente misurabile, conoscibile e controllabile.
Questa realtà pittorica si basa su uno spazio definito “come un sistema di mere relazioni tra altezza, larghezza e profondità” (Erwin Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”, 1927). Tuttavia, in altre epoche, culture diverse avevano già affrontato la medesima urgenza di definizione spaziale. Gli antichi avevano utilizzato una forma di rappresentazione prospettica, detta perspectiva naturalis o communis, che rispondeva alla necessità di diversificare gli oggetti in base alla loro posizione, senza per questo arrivare alla costruzione di un sistema matematicamente predeterminato. Anche nel Medioevo la raffigurazione è un insieme di masse e superfici in cui lo spazio non unifica tra loro forme differenti, ma la relazione tra i corpi, non assoggettati a un unico sistema proporzionale, avviene principalmente attraverso rapporti gerarchici. La Vergine in Maestà è più grande del donatore inginocchiato ai suoi piedi perché più importante di lui, la chiesa che si deve erigere e commemorare ha una rilevanza maggiore rispetto agli altri edifici presenti nella composizione.
La prospettiva lineare albertiana, al contrario, si fonda sull’assunto che ogni punto dello spazio, ogni persona raffigurata, abbia lo stesso valore indipendentemente dalla sua posizione, dal suo grado e dalla sua funzione. Questa distanza tra lo spazio razionale quattrocentesco e quello psicofisiologico dell’uomo richiede quindi un forte intervento dell’intelletto nella percezione consapevole di astrazioni e convenzioni prospettiche.
In Santa Maria Novella, Masaccio realizza quella che è l’organizzazione spaziale più rigorosa e sistematica dei primi decenni del Quattrocento (1426-1428), scardinando le convenzioni figurative del suo tempo e dando vita alla prima reale teofania della storia della pittura. L’osservatore si trova davanti a uno spazio visivamente illusorio, a un muro che “pare sia bucato” (Giorgio Vasari, Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, 1568), e di fronte a lui appare la figura di Cristo, crocifisso sotto lo sguardo di Dio Padre.
La visione vertiginosa e sconvolgente della morte del Salvatore rasenta i limiti della dissacrazione, nel momento in cui il fedele percepisce che l’artista ha collocato la Trinità nel medesimo spazio dell’osservatore. Il figlio di Dio, la Madonna e san Giovanni Evangelista sono stati ritratti secondo la stessa scala di grandezza dei due donatori inginocchiati sul gradino, dello scheletro adagiato nel sepolcro sottostante, dell’uomo in carne e ossa che, sbalordito, guarda l’affresco dalla navata della chiesa.
Lo spazio pittorico e quello reale, e i personaggi che li popolano, unificati dalla concorrenza delle linee che li compongono verso il medesimo punto di fuga, hanno la stessa essenza e la medesima sostanza. È evidente a questo punto la rilevanza ricoperta da un metodo rappresentativo in grado di offrire l’efficacia di uno spazio ingannevole, elemento di stupore, conversione e persuasione. Parte da questo primo illusionismo spaziale di Masaccio il lungo cammino che porta, attraverso gli arditi scorci prospettici di Andrea Mantegna a Mantova, fino alle spericolate costruzioni illusorie di Correggio e, ancor più tardi, alle finte architetture dei quadraturisti e alla grande decorazione barocca.
Lo spazio pittorico è una “fenestra aperta” su un mondo da riprodurre, secondo la definizione che ne dà Leon Battista Alberti, e a sua volta la pittura diviene la scienza dello spazio e della sua rappresentazione. Ma se da una parte pittori della generazione successiva come Beato Angelico e Domenico Veneziano, applicando minuziosamente queste conquiste, compongono volumi delimitati da lunghi colonnati e complesse file di volte, in modo uguale e opposto quella stessa costruzione brunelleschiana viene applicata alla resa di una realtà non naturalistica, fantastica ed estraniante.
È sempre una finestra prospettica quella che si apre sugli irreali e improbabili palcoscenici notturni di Paolo Uccello, che pure, secondo Giorgio Vasari, “non ebbe altro diletto che d’investigare alcune cose di prospettiva difficili et impossibili”.
Le sue piatte figure che combattono su una griglia composta da incroci di lance, armature e corpi morti o che sono raffigurate in giardini segnati da metalliche aiuole perpendicolari, hanno la stessa verosimiglianza di esseri di carta ritagliata.
Invece come per Alberti, anche in Piero della Francesca, e nelle opere del suo allievo e seguace Luca Pacioli, esponenti massimi della trattatistica prospettica quattrocentesca, la pittura coincide con la prospettiva: “la pictura non è se non demostrationi de superficie et de corpi degradati o accresciuti” (Piero della Francesca, De prospectiva pingendi ). E nella sua Flagellazione di Urbino, come nelle tavole Barberini, nelle tarsie lignee del Palazzo Ducale e nelle opere degli artisti radunatisi attorno alla corte di Federico di Montefeltro, la prospettiva assume la potenza di una fantastica macchina teatrale – nei pavimenti piastrellati e nei cornicioni sporgenti, negli incroci degli archi e nella successione delle colonne.
E proprio l’enclave pierfrancescana e urbinate fa da sfondo alla formazione di Donato Bramante, che diverrà architetto di principi e papi proprio grazie alla sapienza prospettica e all’illusionismo spaziale appresi in gioventù nella sua terra natale.
Tuttavia, il metodo brunelleschiano di trasferimento di uno spazio tridimensionale su una superficie piana, che tanto scalpore e meraviglia aveva suscitato nei primi decenni del Quattrocento, diviene, nel tempo, un semplice elemento strumentale alla raffigurazione.
L’esibizione delle capacità dell’artista, delle sue conoscenze tecniche, materiali, anatomiche e, appunto, prospettiche, porta ora all’ostentazione di complicati schemi scientifici, matematici, costruttivi.
I profondi mutamenti sociali, mentali e culturali maturati in meno di un secolo rendono inattuali e desueti gli strumenti dell’arte del primo Rinascimento. E con le equilibrate strutture elaborate da Raffaello nelle Stanze Vaticane si assiste, forse, all’ultima grandiosa manifestazione di un’idea già in veloce dissolvimento, quella concezione di un universo superiore, ordinato e perfetto che aveva adeguato al proprio sublime modello i sistemi rappresentativi. Al fianco di una corrente antiprospettica che sempre è presente nella pittura rinascimentale – si pensi, fra tutti all’esibita bidimensionalità delle figure di Botticelli –, si viene infine a sviluppare un uso più eterodosso della griglia geometrica, mascherata dalle nebbie azzurre e sfumate di Leonardo da Vinci, sopraffatta dalla sovrastante umanità di Michelangelo o declinata nelle metafisiche e inquiete interpretazioni di Tintoretto.