Prospero Farinacci
Per diffusione in Europa (testimoniata fra l’altro dal numero assolutamente straordinario di stampe in Italia e all’estero) e per influenza sulla pratica forense, sulla legislazione e sulla stessa dottrina, l’opera di Prospero Farinacci sopravanzò di gran lunga quella di ogni altro criminalista di ancien régime, tanto che spesso è stata assunta come simbolo di concezioni e di ordinamenti penali perversi e opposti a qualsiasi principio di civiltà. Ma se è vero che «il passato è un paese straniero», nessun'altra opera, di nessun altro autore, può condurci con altrettanta efficacia a individuare le caratteristiche strutturali di un mondo lontano, le sue differenze e le sue latenti continuità con il presente. Nella Roma del Cinque e Seicento, dominata né più né meno di altre grandi capitali europee da violenza e sopraffazione, dalla corruzione e dagli intrighi di corte, dai sistemi di patronage e dalle logiche di consorteria, l’amministrazione della giustizia, esercitata o subita da Farinacci, mostrava tutto il suo volto di pedina mossa sulla scacchiera del potere.
Farinacci nacque a Roma il 1° novembre 1544. Figlio di Marcello, dottore in utroque, notaio capitolino per oltre cinquant’anni e titolare anche di altri uffici dello Stato pontificio, fu avviato presto agli studi giuridici. Nel 1561 si iscrisse allo Studium urbis, ma dal 1564 al 1565 dovette frequentare l’Università di Perugia, di cui più tardi ricordò come suoi maestri Tobia Nonio (Praxis et theorica criminalis, tit. II, qu. XIV, n. 15) e Rinaldo Ridolfi (tit. II, qu. XV, n. 26), noti al tempo loro, ma poi caduti in oblio. Il 9 dicembre 1567 conseguì a Roma la laurea; forse aspirò vagamente a una cattedra, che gli fu comunque negata a causa delle dissolutezze per le quali si era già segnalato. La sua vita, infatti, fu punteggiata in misura esorbitante da crimini e da episodi di corruzione e malaffare che provocarono ripetuti provvedimenti giudiziari a suo carico.
Non appena laureato, ebbe la nomina di commissario generale di Bracciano, feudo degli Orsini, ma già nel corso del 1568 passò alla luogotenenza del governatorato di Civitavecchia. Nel 1569 e nel 1570 fu consigliere del capo del rione Trastevere, dov'era nato e dove la famiglia possedeva beni; ricoprì questo ufficio anche nel 1581 e nel 1584. Nel 1577 aveva presentato, ma senza successo, la propria candidatura a fiscale nella Rota criminale di Genova, appena istituita. Si dedicò quindi all’avvocatura, nella quale conquistò negli anni un crescente e incontrastato prestigio.
Crebbe però anche la fama dei suoi misfatti. Già al principio del 1570 aveva subito una carcerazione, della quale non conosciamo i motivi. Nel 1580 il governatore di Roma, su ordine dello stesso pontefice Gregorio XIII, lo sospese dal «procurare», per i ripetuti reati commessi, anche se Farinacci riuscì a sfuggire alle «forche et alla galera». Nelle cronache della capitale fece scalpore un episodio del 1582, quando egli fu protagonista di una rissa che gli causò la perdita dell’occhio sinistro e una profonda cicatrice sul volto. Guarito a fatica e deciso a fare vendetta con ogni mezzo, nel 1584 fu sorpreso e arrestato dai birri mentre di notte, e in possesso di armi proibite (un archibugio), si aggirava a caccia dei suoi nemici. Per cinque mesi fu rinchiuso nel carcere di Tor di Nona, in attesa di giudizio. Ma morto Gregorio XIII il 10 aprile 1585 e «rotte», come d’uso, le carceri in sede vacante, poté ritornare ai suoi affari e dare impulso alle sue fortune.
In quell’anno difese e riuscì a salvare dalla pena capitale, a fronte di una cospicua composizione, Roberto d’Altemps, primo duca di Gallese, figlio del cardinale Marco Sittico, uomo di spicco nel potente partito curiale degli Aldobrandini, ricevendone in cambio una gratitudine preziosa e duratura. Il cardinale infatti gli affidò il governatorato dei propri feudi di Tossignano e Fontana in Romagna, lo designò nel 1587 come tutore di Giovanni Angelo d'Altemps (neonato figlio orfano di Roberto, che era morto nel 1586) e lo sostenne poi sempre nella carriera. Nel testamento (morì nel febbraio 1595) lo designò governatore perpetuo del feudo di Gallese, concedendogli anche di abitare nel suo palazzo romano.
Il 10 febbraio 1591 Farinacci ottenne la nomina, di grande rilievo, a luogotenente criminale dell’uditore generale della Camera apostolica, monsignor Camillo Borghese (poi papa Paolo V dal 1605). Nel 1594, per usufruire di una pensione ecclesiastica, prese la prima tonsura. Ma ben presto scoppiarono nuovi scandali. Nel 1595 fu accusato di sodomia con un sedicenne, che in un primo interrogatorio confermò le accuse. Le cose volsero in breve al peggio, perché nel corso dell’istruttoria emersero le sue scomposte iniziative di subornazione e intimidazione di accusatori, giudici e testimoni. Fu perciò dapprima spostato dalla luogotenenza criminale della Camera alla Sacra consulta, poi sospeso da qualsiasi attività e assegnato agli arresti domiciliari. Dal processo si salvò per le ritrattazioni del giovane (verosimilmente comprate) e per l’intercessione di prelati della cerchia del papa, in particolare del cardinale Antonio Maria Salviati. Pare che, nell’accondiscendere alle istanze di quest’ultimo, papa Clemente VIII (della famiglia Aldobrandini) esclamasse, giocando sul cognome di Farinacci: «Farina ista bona est, vel pollis est potius; sed non saccus cui ille includitur bonus est, sed foedus ac turpis» (questa farina è buona, anzi è fior di farina, ma il sacco che la contiene non è buono, ma turpe e ripugnante). Con motu proprio del 7 agosto 1596, il pontefice lo assolse con formula piena (plenarie in utroque foro) da ogni imputazione, quand’anche di delitti «gravi ed enormi». Farinacci poté quindi tornare alla Consulta, al governatorato di Gallese e all’avvocatura.
Del resto, il pesante rovescio influì poco sulle sue ambizioni. Mirava alla carica di procuratore generale del fisco, e sia nel 1595 sia nel 1596, proprio mentre pendeva l’istruttoria cui si è accennato, corse voce di una sua nomina imminente. Fu fermato dall'opposizione di influenti gruppi curiali, motivata fondatamente con la sua notoria corruttibilità. Nel 1597, e poi di nuovo nel 1599, fu sul punto di ricevere la nomina di giudice criminale del vicariato o del tribunale del governatore, ma la strada gli fu sbarrata ancora una volta.
Nel 1599 accadde l’episodio più frequentemente ricordato dai suoi biografi: la difesa assunta in agosto di Giacomo, Beatrice e Bernardo Cenci, imputati dell’assassinio del padre Francesco insieme con la seconda moglie di lui, Lucrezia Petroni. Il delitto e il processo hanno ispirato leggende popolari, opere letterarie, teatrali, cinematografiche e così via, che spesso hanno elevato Beatrice a eroina e martire di un padre e di una società perversa. In realtà il delitto giunse a conclusione di una torbida vicenda familiare e fu consumato dopo lunga premeditazione. La difesa di Farinacci (Responsa, cons. 66), in genere giudicata negativamente da storici e da giuristi, aveva in realtà, sulla base delle risultanze processuali, pochi margini a sostegno dei rei, la cui condanna fu eseguita l’11 settembre 1599.
La sua fama come criminalista era giunta nel frattempo al suo apice. Nel 1604 gli Avvisi di Roma riferirono (ma senza fondamento) di una sua nomina al tribunale del Torrone di Bologna. L’elezione, l'anno successivo, al soglio pontificio di Paolo V aprì nuove prospettive alle sue ambizioni. Nel maggio poté ritornare dalla Consulta alla luogotenenza penale della Camera, e il 14 febbraio 1606 poté finalmente ottenere l’ufficio di procuratore generale del fisco, carica con la quale si fece «Monarca di tutti li affari criminali, dipendendo da lui li Giudici quali soprafà coll’astutia, et col sapere».
In settembre fu addirittura a un passo dall’accedere al governatorato della capitale. Si frapposero ostacoli insormontabili, sollevati in particolare dai cardinali Antonio Maria Sauli e Michelangelo Tonti. Di fronte ai suoi ripetuti tentativi di ottenere la nomina, tra il 1608 e il 1610, Tonti, allora potentissimo in Curia, fu irremovibile, e giunse a minacciare di rendere pubblici contro di lui documenti di estrema gravità. Lo si sospettava inoltre di slealtà nei confronti dei Borghese, a causa dei persistenti legami con gli Aldobrandini, dei quali era stato creatura.
Fatti odiosi di estorsione e di corruzione venivano giornalmente alla luce. Il papa fu costretto a destituirlo dal fiscalato nell’aprile 1611. Farinacci perse anche la carica di uditore generale del ducato d’Altemps, rischiò un processo per appropriazioni indebite e, a scopo probabilmente intimidatorio, fu aperto un procedimento dell’Inquisizione per alcune sue proposizioni sospette di eresia. L’istruttoria però si concluse con un nulla di fatto, e il papa, che ne apprezzava le competenze giuridiche, lo ricevette già ai primi di maggio in udienza, in segno di clemenza. In dicembre lo consultò nella spinosa questione dell’arcivescovo di Salisburgo, Wolf Dietrich von Ratenau, incarcerato per ordine del duca Massimiliano I di Baviera. Nel 1615 Paolo V lo favorì ancora, accogliendo il suo ricorso per diffamazione contro il giurista Sebastiano Guazzini, che fu condannato.
La salute di Farinacci però declinava. Colpito da apoplessia alla fine del 1617, morì a Roma il 31 dicembre dell’anno successivo.
Nell’esercizio delle funzioni di giudice, Farinacci dispiegò un’eccezionale durezza che gli attirò accuse ricorrenti di ingiustificata crudeltà. Ma in effetti, oltre che funzionale alle pratiche estorsive cui era aduso, quest'attitudine era coerente con la concezione intimidatrice e dissuasiva delle procedure e della pena, che ispirò non solo il suo agire, ma anche le opere pubblicate, ossia la concezione, peraltro scontata nell’antico regime, né contrastata efficacemente nello Stato pontificio dall’opposto principio cristiano della misericordia, che i «delicta sunt acriter punienda, ut unius poena, metus possit esse multorum» (i delitti devono essere puniti severamente, perché la pena di uno possa essere il terrore di molti; Praxis, tit. III, qu. XVII, n. 3).
Grazie alle ripetute ristampe, e attraverso una storia editoriale assai complicata, il complesso dei suoi lavori sfiorò il numero impressionante di duecento tirature all’incirca, in Italia e all’estero. Questo semplice dato quantitativo è eloquente circa il rilievo che l’opera rivestì nell’Europa di ancien régime. Per nessun altro criminalista si registrano edizioni altrettanto numerose, segno che si trattava di letteratura al tempo stesso 'd’uso' e 'di autorità', e il fatto è tanto più rilevante in quanto tra Cinque e Seicento la cultura e gli ordinamenti giuridici dei Paesi europei si erano ormai separati tra loro. I suoi scritti furono oggetto di compendi, orientarono la pratica forense e nel corso del 17° sec. influenzarono anche la legislazione, non solo dello Stato pontificio. Con l’avvento di spiriti riformatori e rivoluzionari, dall’età delle codificazioni divennero emblema di tutti i vizi dell’antico sistema penale. Aspre critiche gli rivolsero, per es., Pietro Verri, Cesare Beccaria e Filippo Maria Renazzi, tra gli altri. Nella giurisprudenza e nella storiografia moderna hanno prevalso, sui moderati apprezzamenti, censure durissime, rafforzate dalle testimonianze di una vita nefanda sempre impunita, esempio tipico di ordinamenti e di amministrazione della giustizia che si vorrebbero cancellate per sempre.
La pubblicazione della Praxis et theorica criminalis – titolo dell’opera principale adoperato dall’autore nei rinvii interni all’opera stessa, divenuto poi comune tra i giuristi, ma non sempre riprodotto sui frontespizi – iniziò nel 1589 e si concluse solo nel 1616. I volumi venivano impressi man mano che erano completati, ma nella prima edizione i primi ebbero una differente intitolazione. Nel fitto accavallarsi delle ristampe, le divisioni in tomi, libri o partes non di rado oscillarono. Spesso più di una tipografia, in qualche caso consorziandosi anche con altre, ripropose gli stessi testi a breve distanza di tempo, talvolta negli stessi anni, aggiungendovi frequentemente altri lavori, dell’autore o di collaboratori e curatori: additiones, indici, sommari, decisiones della Sacra Rota. Né si possono escludere rimaneggiamenti, che andrebbero accertati caso per caso. Sulla base delle prime edizioni, i dati essenziali si possono così riassumere. L’opera fu composta da diciotto tituli, numerati progressivamente lungo le varie parti. A essi dovevano seguirne altri due, mai composti, uno de usuris e l’altro de simonia. Nei vari titoli erano distribuite le quaestiones, numerate anch’esse continuativamente per tutta l’opera. Ciascun titolo, salvo il quinto e il sesto, registra la data di completamento: il primo fu terminato nel 1581, l’ultimo nel 1614. I primi quattro, con diversa intitolazione, apparvero a Venezia per i tipi di Varisco e Paganini nel 1589, il quinto e il sesto nel 1593, il settimo e l’ottavo, di nuovo con diversa intitolazione, nel 1596, presso gli eredi Varisco. I restanti, dal nono al diciassettesimo, furono stampati a Venezia dai Giunti, man mano che l’opera cresceva, nel 1604, 1609, 1612 e 1613. Il diciottesimo apparve a Roma nel 1616 come Tractatus de haeresi, presso Andrea Fei.
La Praxis si proponeva ai pratici, in particolare a giudici e avvocati, come un «thesaurus totius criminalis materiae» (tit. XI, qu. CIV), tale da rendere loro superflua la consultazione della «aliorum librorum multitudo» (tit. XV, qu. CXXXV). Composta in buona parte attraverso la dettatura a vari collaboratori, l'opera era nutrita di materiale casistico ed era costruita in modo quanto mai farraginoso. Le strutture argomentative risentivano fortemente, da un lato della casistica gesuitica, dall’altro, delle tradizioni tardoscolastiche della giurisprudenza. Mentre l’uso assai probabile di prontuari di citazioni, corrente negli studi professionali, assicurava l’inserimento di una straripante catena di auctoritates, il ragionamento si articolava secondo uno schema ben noto ai giuristi fin dall’epoca del tardo commento. All’inizio di ciascuna quaestio era enunciata la regula, edittale o giurisprudenziale, cui seguivano, secondo il procedimento scolastico della distinzione, ampliationes, limitationes e sublimitationes, eccezioni e controeccezioni. La solutio era presentata come corrispondente alla communis opinio, o alla opinio magis communis, ma non di rado esprimeva la tendenza dell’autore ad ampliare la sfera dell’arbitrium iudicis e ad accentuare, secondo la tesi più rigorista, la severità del rito inquisitorio e la funzione deterrente della pena. Benché fossero escluse le analisi di natura puramente dottrinale, non mancavano elementi di rilievo teorico, per es., in tema di reato continuato, di recidiva, dolo e classificazione di alcune fattispecie criminose.
Accanto alla Praxis, notevole prestigio in Europa acquistarono i Consilia criminalia. Il primo volume apparve nel 1606 presso Varisco, a Venezia, e altri due nel 1615 e nel 1616. I tre libri ebbero successivamente una dozzina di stampe e sei editori, metà dei quali fuori d’Italia. Non minore rilievo ebbe il trattato De immunitate ecclesiarum et confugientibus ad eas, che apparve postumo a Roma nel 1621, presso Andrea Brugiotti, e che riguardava la delicata materia delle immunità reali e personali e del diritto d’asilo.
Dai manoscritti inediti, per i quali Farinacci lasciò istruzioni nel testamento del 1° ottobre 1618 e che pervennero prima al figlio Ludovico e in seguito al convento di S. Silvestro al Quirinale, fu tratta la seconda parte dei Fragmenta criminalia, brevi annotazioni ordinate alfabeticamente (Roma, Brugiotti, 1619; la prima parte era apparsa a Douai nel 1617, presso Wyon), variamente collocate dagli editori nelle ristampe. A Lione invece, presso gli eredi di Boissat e Anisson, uscirono un Repertorium iudiciale (1639), un Repertorium de contractibus (1642) e un Repertorium de ultimis voluntatibus (1644), curati da Zaccaria Pasqualigo, teatino di S. Silvestro. Celebri infine furono le vaste raccolte di Decisiones della Rota romana, a volte redistribuite o ristampate nelle varie edizioni, a volte già inserite nella Praxis e nei Consilia. I primi quattro volumi autonomi apparvero nel 1608 (Lione, Landry), cui se ne aggiunsero un’altra decina presso diversi editori fino al 1682. La dizione di Opera omnia, in nove tomi, alcuni dei quali suddivisi in partes, fu inserita nei frontespizi delle edizioni Palthenius di Francoforte (1616-1622) ed Endter di Norimberga (1616-1683), ma serie complete furono realizzate anche dai Giunti a Venezia e da Cardon (da solo o con Cavellat) a Lione. Queste ultime due sembrano le più affidabili.
F. Cordero, Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Roma-Bari 1985, pp. 339-403.
A. Mazzacane, Farinacci Prospero, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 45° vol., Roma 1995, ad vocem (con bibl. precedente).
N. Del Re, Prospero Farinacci giureconsulto romano (1544-1618), Roma 1999 (con ampia mole di documenti; da questo volume sono tratte le citazioni nel testo).
A. Marchisello, 'Alieni thori violatio'. L’adulterio come delitto carnale in Prospero Farinacci (1544-1618), in Trasgressioni. Seduzione, concubinato, adulterio, bigamia (XIV- XVIII secolo), a cura di S. Seidel Menchi, D. Quaglioni, Bologna 2004, pp. 133-83.
A. Mazzacane, Diritto e miti: il caso di Beatrice Cenci, «Studi storici», 2010, 4, in partic. pp. 953, 955-56.