MÉRIMÉE, Prosper
Letterato francese, nato il 28 settembre 1803 a Parigi, morto il 23 settembre 1870 a Cannes. Figlio del pittore e storico della pittura Léonor M. e di Anna Moreau, non fu battezzato, e tutta la sua educazione risentì di questa spregiudicatezza d'idee, di una famiglia del resto agiata e borghese, con relazioni cosmopolite. Cosicché egli fu presto in grado di accompagnare gli studî classici con altri di letteratura moderna, specie inglese e spagnola; più tardi apprese il russo, e, certo frequentando Beyle, ebbe il gusto e l'interesse delle cose italiane. Facilmente introdotto nel cenacolo romantico, non ne subì che molto parzialmente l'influenza, in quanto in lui, come in Stendhal, il classicismo settecentesco, volterriano, non si spense mai, e si mescolò al naturale dilettantismo.
Da tutte queste influenze ebbe origine il Théâtre de Clara Gazul (1825), mistificazione in cui si avverte, oltre alle fonti esotiche, inglesi e spagnole, il Racine et Shakespeare stendhaliano, assieme con le allusioni contemporanee: sotto il nome di una presunta commediante-autrice spagnola il M. faceva passare otto episodî drammatici, con un tono di asciutta satira, di crudo pessimismo, che da Diderot e Voltaire in poi era andato smarrito. Il successo del libro non fu eccessivo, ma il M. era lanciato, e anzi volle nella Guzla (1827) ricominciare, presentando delle apocrife canzoni illiriche. E se La Jacquerie (1828) è appena un abbozzo drammatico, con intenzioni storiche, nella Chronique du règne de Charles IX (1829) appare già l'originalità del M., la sua maniera di condire la storia settecentescamente concepita come serie di fatterelli, con quei tratti pittoreschi ed eccessivi, ch'eran proprî alla scuola romantica. S'è detto che la Chronique deriva da W. Scott: in realtà, lo spirito che l'informa ne è lontano e la composizione del racconto non ha eguali nel romanzo romantico. Mateo Falcone (1829) è, nella sua sobria tragicità, classicamente perfetto; in Tamango (1829), e peggio nella Vision de Charles IX (1829), il romanticismo macabro prende la mano al narratore, mentre una vernice mondana guasta il Vase étrusque (1830) e la Partie de tric-trac (1830).
Per ritrovare M. in grande stile occorre attendere Les âmes du purgatoire (1834) che ha i cupi colori d'un quadro spagnolo o fiammingo, e la mirabile Vénus d'Ille (1837), che sembra un innesto di Poe su un tronco gaulois. In Colomba (1840) c'è troppa compiacenza descrittiva, e non mancano figure di cartone, così come in Arsène Guillot fa capolino una sentimentalità che non sembra schietta. L'anno dopo, Carmen (1845), con l'apparente, arida pedanteria del racconto, ci ridà l'asciutto, espressivo M., con caratteri e scene indimenticabili: è, quasi, il suo canto del cigno.
Perché fino a Lokis (1869) il M. s'occupa di storia e di archeologia, traduce dal russo, fa l'ispettore dei monumenti e, dopo il colpo di stato del 1851, senatore (deve il seggio all'essere amico di vecchia data dell'imperatrice Eugenia, anzi della di lei madre), tiene una copiosa corrispondenza con Panizzi e con la contessa De Boigne, con le due "Inconnues" e con Sutton Sharpe, ecc.; pubblica delle Études sur l'histoire romaine (1844), dei Mélanges historiques et littéraires (1855), un Épisode de l'histoire de Russie, le faux Démétrius (1852), ecc.; ma sino alle Dernières nouvelles (1873: comprendono appunto Lokis e alcuni brevi e trascurabili bozzetti) non tenta di tornare sulla via maestra, e, quando lo vuole, non ci riesce più: la vena di Carmen è finita. In realtà, egli aveva sempre lavorato su fonti erudite, o sopra ricordi ed esperienze personali: la parte dell'immaginazione era stata minima, frequente invece la rielaborazione fantastica. Ma intorno al 1848, quando la relazione con Valentine Delessert (che, iniziata nel 1836, termina nel 1854) comincia ad avere delle intermittenze, la creazione artistica sembra affievolirsi: e il M. è assorbito dagli studî puramente storici.
Purtroppo, in questo campo, egli perde gran parte delle qualità di stilista e di narratore che s'era conquistate: gli appunti per la Vie de César sono confluiti nell'omonimo zibaldone di Napoleone III, ma resta la Histoire de don Pedro I (1848). Eppure, è di quel periodo l'H. B. (Henry Beyle, 1850), ossia il prezioso ritratto di Stendhal, che nel 1855 sarà integrato da altre Notes et souvenirs (cfr. Deux portraits de Stendhal, par Mérimée, nelle Éditions du Stendhal Club, Parigi 1928). Queste poche pagine sono d'importanza capitale per comprendere la formazione spirituale e l'deologica del M., la sua sensibilità, i suoi antecedenti letterarî. Egli rappresenta, come Baudelaire, la transizione dal romanticismo al realismo, e, se non fosse per l'impassibilità del libertino, annuncerebbe già in embrione la fin de siècle, di cui ha la crudeltà, le manie, ma non lo stile, sino all'ultimo, settecentesco. L'epistolario, che dalle Lettres à une inconnue (1873) curate da Taine, alle Lettres à une autre inconnue apprestate da H. Blaze de Bury, è in continuo aumento (nel 1932 si sono avute le Lettres à la famille Delessert, e nel 1933 le Lettres à la comtesse de Boigne), illumina a tratti una figura ambigua e singolare, che non è ancora a pieno svelata.
Ediz.: Edizione completa delle opere, in corso di pubblicazione, presso l'ed. Champion a Parigi. Si veda inoltre l'ed. di Colomba, a cura di M. L. Pailleron, Parigi 1927.
Bibl.: Rinnova completamente il tema la monografia di P. Trahard, La jeunesse de P. M., 1803-1834 (voll. 2); P. M. de 1834 à 1853; La vieillesse de P. M., 1854-1870, Parigi 1925-1931. Cfr. A. Filon, P. M., nei Grands Écrivains fr., Parigi 1898; F. Chambon, Notes sur P. M., Parigi 1908; L. Pinvert, Sur P. M., Parigi 1908; V.-M. Yovanovitch, "La Guzla" de P. M., Parigi 1911; E. Henriot, Courrier Littéraire, Parigi 1922, pp. 120-132 e Livres et portraits, Parigi 1927, pp. 248-255; A. Thérive, Du siècle romantique, Parigi 1927, pp. 189-217; P. Bourget, Nouvelles pages de critique et de doctrine, I, Parigi 1922, pp. 1-25; D. Gunnell, Sutton Sharpe et ses amis français, Parigi 1926; A. Cajumi, Galleria, Torino 1930, pp. 153-172.