proprieta
Diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico; coincide quindi con la titolarità di un bene, ed è il massimo e il più esteso di tutti i diritti reali. All’interno del pensiero filosofico occidentale possono essere individuate, a partire dalla grande controversia tra Aristotele e Platone, due tradizioni principali: quella che vede nella p. privata la causa principale dei conflitti umani e ne teorizza di conseguenza l’abolizione o un forte ridimensionamento; e quella che vede in essa la garanzia della libertà e la condizione dello sviluppo economico e quindi ne sostiene, con diverse argomentazioni, la legittimità e l’utilità.
Il capostipite della tradizione ‘critica’ è Platone, per il quale la p. è all’origine di tutti i mali umani: è la sete di guadagno e di appropriazione, infatti, a causare i conflitti tra gli uomini e a disgregare gli Stati. Di qui il disegno – nella Repubblica – di uno Stato ideale in cui le classi dirigenti (governanti e guerrieri) vivono in un regime comunistico (➔ comunismo), mentre le classi inferiori (contadini e artigiani) dispongono, soltanto in usufrutto, di una p. limitata. Libere da ogni interesse particolare, le classi dirigenti saranno devote esclusivamente all’interesse pubblico, permettendo allo Stato di raggiungere quella «perfetta unità» che costituisce il suo bene supremo. Le tesi platoniche saranno sottoposte da Aristotele, nel 2° libro della Politica, a una serrata critica. Per lo Stagirita la comunanza dei beni presenta anzitutto un inconveniente di fondo, legato alla natura umana. Gli uomini infatti tendono a occuparsi con maggiore impegno di ciò che sentono come ‘proprio’ rispetto a ciò che ‘è di tutti’: ne consegue che in un regime comunistico essi lavoreranno con minore impegno. Inoltre, una società senza p. privata sarà piatta e conformistica, perché verranno meno le differenze individuali: ma l’armonia sociale non scaturisce dall’abolizione della differenze, bensì dalla loro compresenza, così come l’armonia musicale scaturisce dalla varietà degli accordi e dei toni. Infine, la p. privata rende possibile la generosità: aiutare amici, stranieri o compagni è «la cosa più gradita», ma dà reale soddisfazione e ha valore morale soltanto quando i beni che si impegnano in tale aiuto siano propri. La p. privata, secondo Aristotele, arreca dunque vantaggi economici, sociali e morali: e ciò perché le sue radici stanno nell’amore di sé, ossia in un sentimento naturale e positivo che non va in alcun modo confuso con l’egoismo.
La tesi che sta al fondo del pensiero platonico – l’interesse privato come origine dei mali che affliggono la convivenza umana – verrà ripresa, in ambito cristiano, da alcuni Padri della Chiesa (Crisostomo, Ambrogio), dagli ordini mendicanti e dai movimenti ereticali sviluppatisi tra 12° e 16° sec. (valdesi, catari, anabattisti, taboriti). Le tesi contenute nella Repubblica ispireranno inoltre le moderne utopie di Moro (➔) e Campanella (➔), nei cui Stati ideali la p. è abolita perché considerata incompatibile con la giustizia. In questa linea di pensiero può essere collocato anche Rousseau, che lancia contro la p. l’invettiva più celebre del pensiero politico moderno: il genere umano si sarebbe risparmiato innumerevoli delitti, guerre e miserie – si legge nella 2° parte del Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini (1755) – se colui che per primo recintò un terreno, dicendo «questo è mio», fosse stato fermato in tempo, e si fosse proclamato il principio secondo cui «i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno». Il Ginevrino considera tuttavia impossibile l’abolizione della p. privata e si limita a vagheggiare una comunità di piccoli proprietari, fusi armonicamente in un ‘io morale collettivo’ capace di produrre una volontà che mira soltanto all’interesse generale. La critica della p. privata – e l’idea del suo superamento – sta infine al centro delle teorie socialiste che si vengono sviluppando a partire dal sec. 18°. Particolare rilievo essa occupa nel pensiero di Proudhon, il quale sostiene – in Che cos’è la proprietà? (1840) – che la p. è un furto, ma soltanto quando i mezzi di produzione sono concentrati in poche mani: in questo caso, infatti, il lavoro è separato dal godimento dei suoi frutti e la p. diviene una rendita parassitaria. Nel caso in cui, invece, il lavoratore possegga i mezzi di produzione (individualmente o in forma cooperativa), allora la p. rappresenta una libertà. Per questa ragione Proudhon è contrario alla statalizzazione dei mezzi di produzione: egli è infatti convinto che la p., messa nelle mani di un unico soggetto, finirebbe per distruggere la libertà. Su posizioni diverse è Marx, al quale si deve la più articolata critica della p. di tipo borghese-capitalistico. Egli sottolinea – nei Manoscritti economico-filosofici – che questo tipo di p. non coincide affatto con la libertà, come sostengono i liberali, ma con un potere sociale che aliena il lavoratore a sé stesso e al suo genere, perché gli sottrae il frutto del suo lavoro. Nel Capitale Marx cercherà di dare veste scientifica a questa tesi: servendosi della teoria del valore/lavoro, mutuata dall’economia politica classica, egli sostiene che il profitto nasce dall’indebita appropriazione, da parte del capitalista, di una parte del lavoro dell’operaio, appropriazione resa possibile dal fatto che il sistema capitalistico ha espropriato il lavoratore di quei mezzi di produzione che originariamente gli appartenevano. Marx è inoltre convinto che il capitalismo sia destinato a crollare sotto il peso delle sue immani contraddizioni economico-sociali, le quali – giunte al culmine – provocheranno una rivoluzione dalla quale nascerà una società comunista, fondata cioè sulla p. collettiva dei mezzi di produzione: in questa società scompariranno, insieme alla p. privata, le divisioni di classe e, per ciò stesso, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e ogni forma di conflitto sociale.
Sull’altro versante, le ragioni a favore della p. privata – dopo essere state argomentate, nell’antichità e nel Medioevo, da Cicerone (De officiis, I, 7 e II, 21) e da Tommaso d’Aquino (Summa theologiae, I, q. 96 e II, q. 66) – hanno trovato la loro più articolata espressione nei teorici del liberalismo (➔), che ne hanno argomentato in vario modo la legittimità e l’importanza. Per alcuni (come Locke e Kant) la p. è un diritto naturale, mentre per altri (come Hume, Smith e Bentham) nasce su basi utilitaristiche e per altri ancora (Constant) è l’esito di una convenzione sociale. Particolarmente innovativa è la teoria di Locke, che per primo fonda la p. sul lavoro. È vero, osserva il pensatore inglese, che Dio ha dato originariamente la terra e i suoi beni in comune a tutti gli uomini; ma è anche vero che il corpo e la mente sono di proprietà rigorosamente individuale. Di conseguenza tutto ciò che un individuo riuscirà a procurarsi con l’opera del proprio corpo e della propria mente – cioè, lavorando – diverrà suo. In un primo momento Locke pone dei limiti all’appropriazione dei beni, che poi vengono superati grazie all’introduzione della moneta. A questa fondazione della p. Kant e Hume obietteranno che un bene non appartiene necessariamente a chi vi ha dispensato il proprio lavoro. Kant vede nella p. non il rapporto uomo-cosa (il possesso empirico o sensibile, che per il filosofo tedesco coincide con la mera detentio), ma un rapporto giuridico intersoggettivo (il possesso intelligibile o razionale, che prescinde dal possesso fisico immediato e presuppone il riconoscimento o tacito consenso da parte degli altri): la p. è quindi un istituto che dipende per il suo funzionamento dall’osservanza di un sistema di regole condivise. Hume sostiene invece che la p. si fonda sull’utilità: gli uomini, con il tempo, hanno compreso che senza una limitazione del loro desiderio di possesso vi sarebbe stato un continuo conflitto per i beni; essi hanno inoltre capito che una società fondata sulla p. e sulla divisione del lavoro è in grado di produrre maggiore ricchezza (argomento presente, peraltro, anche in Locke, il quale sosteneva che un piccolo pezzo di terra coltivato privatamente rende cento volte di più rispetto a quanto renderebbe se lasciato in p. comune). Alle argomentazioni dei socialisti risponderanno con particolare vigore, nel Novecento, gli esponenti della Scuola austriaca (C. Menger, Mises, Hayek ➔), che abbandonano la teoria del valore/lavoro dell’economia classica e fondano le loro argomentazioni sulla teoria soggettiva del valore propria del marginalismo. Costoro sostengono che le economie basate sull’abolizione della p. privata e sulla pianificazione centralizzata producono una condizione di miseria diffusa e di oppressione: miseria diffusa, perché la pianificazione, per funzionare, presuppone la conoscenza simultanea di una immensa quantità di informazioni particolari che sono disperse tra milioni di individui e che è impossibile concentrare in una sola autorità; oppressione, perché attribuendo allo Stato il controllo di tutti i mezzi economici, lo si mette in condizione di controllare anche tutti i fini e si distrugge quindi ogni forma di libertà. Per gli esponenti della scuola austriaca il sistema di mercato, fondato sulla p. privata e su regole generali, permette agli individui di scambiarsi i beni e le informazioni di cui dispongono, dando vita a un processo sociale di scoperta che rappresenta il modo più efficace e più libero per produrre conoscenza e ricchezza. Al di là dei diversi modi di concepirne l’origine – e quindi di fondarne la legittimità – la maggioranza dei pensatori liberali è convinta che la p. privata e il sistema di mercato rappresentino uno degli ingredienti indispensabili per il mantenimento della libertà individuale e, al tempo stesso, il metodo migliore per spingere gli uomini a usare nel modo più produttivo beni e risorse naturalmente scarsi.