PROMETEO (Προμηϑεύς, Prometheus)
Titano, figlio di Giapeto e di Gaia-Themis o secondo altre fonti di Klymene o di altre madri. E poiché Giapeto è fratello di Kronos, si ha l'impressione, confermata del resto dalle parole di Eschilo, che P. stesso rientri nelle generazioni degli antichi dèi che precedettero Zeus e gli altri Olimpi. P. stesso è con tutta probabilità un antico dio del fuoco che ebbe ancora un suo culto accanto ad Efesto in non pochi centri del mondo ellenico. Nell'Accademia di Atene è ricordato un altare di notevole arcaicità in cui P. era figurato accanto ad Efesto: i due erano di aspetto non dissimile e P. era il più anziano ed autorevole (Edipo a Colono, Sch., 56). Non diversamente Pausania ci parla di una statua a Panopeus, nella Focide, di cui era incerto se rappresentasse P. od Efesto (x, iv, 1).
Nel mito P. compare come formatore degli uomini che egli avrebbe impastato di terra e di acqua; come donatore agli uomini del fuoco sottratto di nascosto a Zeus (e quindi simbolo di rivolta razionalistica contro gli dèi in età posteriore). Zeus in punizione lo avrebbe fatto incatenare da Efesto a una vetta del Caucaso, dove ogni giorno un'aquila andava a pascersi del suo fegato che durante la notte ricresceva, sino a che P. fu liberato da Eracle. Figlio di P. veniva detto Deucalione sposo di Pyrrha (e rigeneratore degli uomini dopo il diluvio), la quale era a sua volta figlia di Epimeteo, fratello di P., e di Pandora, la donna primigenia creata dagli dèi.
Altre immagini sono note unicamente da fonti letterarie, tra cui la più autorevole sembra essere un dipinto di Panainos (v.) in Olimpia, raffigurante la liberazione del Titano per opera di Eracle (Paus., v, 11, 6). Un dipinto di Euanthes è ricordato da Achille Tazio (Erot., iii, 6) e un rilievo con lo stesso protagonista era inserito secondo Manuel Chrysoloras nel propilo della Porta d'oro a Costantinopoli. Meno rassicuranti come valore documentario appaiono una statua in bronzo di P. torturato descritta nelle Ekphràseis di Libanio (115 b), o un'altra immagine del titano che disserta sull'ingratitudine degli uomini in un epigramma di Iulius Aegyptus (Anth. Pal., ii, 543, n. 8788). Tuttavia, anche nel caso che queste due ultime testimonianze non siano che pure esercitazioni letterarie senza riferimenti precisi ad opere d'arte realmente esistenti, resta peraltro l'attestazione che statue di P. dovevano incontrarsi con una certa frequenza.
Le più antiche immagini di P. che ci siano giunte consistono invece in monumenti estremamente più modesti, gemme incise, avorî e lamine bronzee che si scalano dalla metà del VII alla metà del VI sec. a. C. E. Kunze cerca di distinguere una tradizione peloponnesiaca in cui il tema sarebbe la punizione celeste, da una attica un poco più recente in cui interviene il liberatore Eracle. In effetti lo schema adottato per la figura di P. rimane sostanzialmente invariato: ed è difficile dire quando la figura del titano incatenato rappresenti un tema a sé o quando sia una riduzione del tema narrativo più vasto della liberazione. Il titano è figurato seduto al suolo o comunque stranamente raccolto su se stesso, le gambe ad angolo acuto e le braccia piegate fissate sul dorso mentre l'aquila si accosta in volo con il rostro puntato contro il petto del prigioniero. P. appare in questo schema su alcune gemme, a partire da una cretese della metà del VII, in un aröballos corinzio di Basilea e finalmente nelle lamine bronzee di scudi argivo-corinzie. La tradizione attica si afferma subito con estrema autorevolezza sin dalla fine del VII sec. a. C. con un grande cratere su piede diviso tra il Museo Nazionale di Atene e la Collezione Vlastos e assegnato al Pittore di Nettos e con il frammento Erbach. La continuità di questa tradizione figurata è inoltre attestata da ripetizioni meno grandiose e più meccaniche nella serie dei vasi tirrenici, tra cui spicca il cratere a colonnette Berlino F 1722.
Qualche autonomia rivela anche la tradizione laconica, quale è dato di misurare da un avorio di Artemide Orthia e dalla famosa coppa del Museo Gregoriano. In ambedue questi monumenti P. non è seduto a terra, ma come piegato ad arco a meglio presentare il costato all'aquila punitrice. E nella coppa almeno non è il motivo della liberazione, quanto una messa a fronte dei due titani fratelli, P. e Atlante, ambedue gravati da travagli d'ordine cosmico e affrontati in una sorta di supremo dialogo. Nella coppa del Vaticano P. a differenza del fratello appare giovanile e imberbe, con la lunga chioma fiorente preferita dagli artisti laconici. Altre coppe laconiche con un personaggio grave e seduto accompagnato da un'aquila in volo sono ritenute immagini di Zeus piuttosto che del grande punito: e ugualmente troppo incerta e frammentaria è la figurazione di un frammento clazomenio del British Museum (C. V. A., f. 590).
Le storie della punizione di P. cessano bruscamente nella tarda ceramica a figure nere e in quella a figure rosse: si può dire anzi che è la figura stessa del titano che scompare dalla scena. Isolata quindi e un poco misteriosa sembra la coppa di Douris della Bibliothèque Nationale che presenta, in un dialogo sostenuto e dignitosissimo, una Hera in trono e un dio stante e ammantato che potrebbe esser Zeus se non portasse iscritto accanto il nome del titano. E dato che una confusione di nomi sembra assai improbabile, non resta che rilevare l'estrema dignità di P. che domina sulla dea seduta e domandarci se non si tratta ancora una volta della costante analogia tra il titano ed Efesto e ricordare la storia del magico trono che imprigiona e avvilisce la grande dea.
Contraddittoria è nella tradizione letteraria la posizione di P. in relazione alla storia di Pandora. Secondo alcune versioni P. stesso avrebbe costruito la magica ingannevole creatura: secondo altre invece essa sarebbe stata creata dagli Olimpi per la perdizione del titano e dell'umanità. E come per un inevitabile scambio il fratello Epimeteo verrebbe anch'egli ad essere il rivelatore e la vittima di Pandora. A volte nella tradizione figurata non vi è una netta separazione tra i due fratelli: ed è caratteristico che in un cratere a volute di Ferrara (Pittore di Bologna 279), il personaggio che assiste e sovrasta alla misteriosa nascita della dea emergente dal suolo e che è comunemente detto Epimeteo, porta il caratteristico costume teatrale dionisiaco e la face del fratello Prometeo. Questo nuovo aspetto del titano assimilato a Dioniso e corifeo di una schiera di satiri danzanti con fiaccole ritorna in un notevole numero di vasi attici della seconda metà del V sec. a. C. L'identificazione di P. almeno in alcune di queste figurazioni è una sicura conquista di J. D. Beazley. Il nome di P. ricorre una volta accanto a un personaggio barbato con benda intorno al capo e corte vesti frangiate e decorate: e inoltre a differenza dei satiri egli porta una canna, come il narthex che servì a rapire il fuoco celeste. È quindi evidente che si tratta di una figurazione di ispirazione teatrale che riprende in chiave di dramma satiresco il mito del titano che donò il fuoco all'umanità. Allo stesso modo, la danza dei satiri con le faci può apparire come una facile trasposizione delle Lampadedromiai che si svolgevano in Atene in onore appunto di Prometeo. Né sarà inutile rilevare che per almeno mezzo secolo questa figurazione orgiastica e teatrale è l'unica che sussista per la figura di P. a misurare l'effetto immediato e determinante del teatro sulla trasformazione delle figure mitiche anche le più note e tradizionalmente fissate.
Una nuova versione che diventerà poi assai popolare della liberazione di P. è documentata per la prima volta in un gruppo statuario di Pergamo. Il titano appare in visione frontale, quasi crocifisso alla roccia, la gamba destra sollevata come a introdurre un motivo supplementare di inquietudine nella drammatica animazione della figura dalla muscolatura contratta. Lo schema ritorna sostanzialmente immutato in un dipinto pompeiano, nella decorazione del Colombario di Villa Pamphili e in numerosi rilievi e sarcofagi romani. Una statua frammentaria dello stesso schema è pervenuta dall'anfiteatro nel nuovo Antiquarium di Pozzuoli. Tuttavia, poiché la statua sembra in relazione a quella di un Issione legato alla ruota, è da ritenere che non si tratti della liberazione del titano, ma di una presentazione di grandi puniti.
È solo in tardi monumenti romani che appare il ciclo più completo e più estensivo della storia del titano. Nelle figurazioni fitte e sintetizzate ritornano i motivi dell'officina di Vulcano, apparentemente presa dal ciclo della preparazione delle armi ad Achille, e che sta qui a indicare il ratto del fuoco celeste e della liberazione per opera di Eracle nello schema fissato dal gruppo pergameno. Inoltre, in conformità alle tendenze simboliste del momento e di questa particolare classe di monumenti, le funzioni di P. si estendono. Egli non è soltanto il benefattore dell'umanità, ma ne è il creatore, che modella dal fango primordiale delle statue inanimate e infonde loro la vita e un'anima individuale. Non è facile stabilire quando questa nuova concezione dell'opera del titano, già in certo modo prefigurata dalla creazione di Pandora, viene ad affermarsi. Certo è solo in tardi monumenti, come sarcofagi della fine del II e del III sec: d. C. e in un arcosolio dipinto della Via Ostiense che incontriamo P. come un personaggio autorevole e barbato come Zeus o come un filosofo, a volte nudo, più spesso ammantato, che attende seduto al suo misterioso lavoro. Così ritorna in un mosaico africano accanto ad Aion, Gea e altre personalità mitiche. E questo motivo iconografico, così per l'intrinseca nobiltà del titano, come per i rapporti che vengono a stabilirsi tra il modellatore o l'animatore e il corpo inanimato disteso del primo uomo, è alla base delle più antiche figurazioni paleocristiane della creazione dell'uomo.
La liberazione di P. ricorre anche su una serie di specchi etruschi in forme sostanzialmente uniformi. P. grave e con un mantello attorno alle anche appare quasi seduto, con le braccia levate a indicare i vincoli.
Data inoltre la fama e la suggestione del personaggio non mancano monumenti più incerti in cui si è voluto ugualmente riconoscere storie di Prometeo. Così il frammento di sarcofago assai restaurato di Ince Blundell in cui le Oceanine inginocchiate supplicherebbero un presumibile Zeus per la salvezza del titano: oppure monumenti eternamente discussi quali il Torso di Belvedere, così tenuto a battesimo da K. Robert. Il frammento più suggestivo di questa serie è tuttavia un rilievo di Samo che raffigura parte di un corpo umano percorso e come decorato da sottilissime catenelle.
Monumenti considerati. - Gemma cretese: A. Furtwängler, Gemmen, tav. 5, 37. Aröballos corinzio, Basilea: J. L. Benson, Geschichte der korinthischen Vasen, p. 79, tav. 3. Frammento di Erbach, Vlastos: K. Kübler, Altattische Malerei, p. 8o. Cratere Berlino F 1722: E. von Lucken, Griechische Vasen, tav. 21. Avorio di Sparta: A. Dawkins, Artemis Orthia, tav. 100. Coppa laconica Vaticano: C. Albizzati, Vasi antichi dipinti del Vaticano, Roma 1924, tav. 17. Coppa di Douris, Bibliothèque Nationale: Mon. Inst., v, tav. 35. Cratere a volute di Ferrara: V. epimeteo. Gruppo di Pergamo: Jahrbuch, xl, 1925, p. 185. Dipinto della Casa dei Capitelli Colorati: Roscher, iii, p. 3097. Sarcofagi romani: O. Raggio, Journ. of Warburg and Courtauld Inst., xxi, 1958, p. 44 ss. Mosaico: Revue des Arts, vii, 1957, p. 194. Frammento di rilievo da Samo: Ath. Mitt., lviii, 1933, Beil. 7, 3.
Bibl.: K. Bapp, in Roscher, III, 2, 1897-902, c. 3032 ss., s. v. Prometheus; N. Terzaghi, in Studi e Materiali, III, 1905, p. 190 ss.; G. Krahmer, in Jahrbuch, XL, 1925, p. 133 ss.; J. D. Beazley, in Am. Journ. Arch., XLIII, 1939, p. 623 ss.; K. Kerenyi, Prometheus, Zurigo 1946; J. L. Benson, Geschichte der korinth. Vasen, Basilea 1953, tav. 3 b; E. Kunze, Archaische Schieldbänder, in Olimp. Forschungen, II, 1950, p. 92 ss. L. Eckhart, in Pauly-Wissoa, XXIII, 1957, c. 705 ss., s. v. Prometheus; L. Séchan, Le mythe de Promethée, Parigi 1961; D. Feytmans, in Mél. Grégoire, Bruxelles 1953, p. 151; Revue des Arts, VII, 1957, p. 194; L. Bernabò-Brea-M. Cavalier, Lipari, Il castello di Lipari, Palermo 1958, tav. XXV, 2; O. Raggio, in Journ. of the Warburg and Courtauld Inst., XXI, 1958, p. 44; F. Brommer, Vasenlisten, 2a ed., Morburgo 1960, p. 139; J. Charbonneau, in Mél. d'Arch. et d'Hist., LXXII, 1960, p. 256, tav. i.