Proiezione
Étienne Gaspard Robertson, alla fine del Settecento, rendendo di pubblico dominio i segreti delle sue fantasmagorie, aveva aperto la strada verso la consapevolezza della tecnologia della finzione, ovvero dell'insieme di tecniche necessarie per inventare e costruire suggestioni spettacolari basate sulla proiezione. Nel 1880 in Inghilterra J.H. Dallmeyer cominciò a commercializzare non più le lanterne magiche ma le lanterne da proiezione (optical lanterns), in un tentativo di razionalizzazione sistematica, malgrado gli spettacoli con i vetri dipinti potessero offrire sempre più meraviglie, rendendo perfino fantasmagorica la scienza, con 'vedute a movimento' che materializzavano la dinamica del Sistema solare, o la visione diretta di fenomeni come la cristallizzazione e la penetrazione dei liquidi arrivando a proiettare piccoli insetti viventi. Non vanno dimenticati i tentativi di tridimensionalità effettuati con l'uso degli anaglifi (p. e visione tramite due immagini sovrapposte ma codificate in rosso e in verde ‒ o blu) o l'applicazione della sintesi additiva (rosso, verde, blu) con tre immagini, sempre coincidenti, che restituivano oggetti statici di derivazione fotografica nei loro colori naturali. Nel 1877 Émile Reynaud aveva brevettato la sua variante di giocattolo ottico, il prassinoscopio (etimologicamente 'vedo l'azione'), basato non più sull'osservazione tramite buchi o fessure ma sulla riflessione dei disegni, riprodotti litograficamente, su un dodecaedro di specchi posto al centro di un bussolotto rotante. Perfezionando il sistema e trasferendo il tratteggio delle fasi del movimento sul vetro, nel 1880 egli mise a punto il prassinoscopio da proiezione che, tramite gli specchi, trasferiva su un piccolo schermo brevi azioni, sempre cicliche, ambientate scenograficamente grazie all'impiego, contemporaneo e integrato, di una piccola lanterna. Reynaud insistette poi su questa doppia p. pensando ormai a un macchinario complesso: il teatro ottico (1888). In esso, finalmente, si aveva la possi-bilità di sviluppare una narrazione come in precedenza con i vetri per lanterna che potevano susseguirsi senza soluzione di continuità ma privi di un eventuale movimento costante. Il primo tentativo di sfruttamento delle bande pellicolari, perfezionate tra il 1888 e il 1892 negli Stati Uniti da William K.L. Dickson per conto di Thomas A. Edison, si basò su un'apparecchiatura a visione singola, il cinetoscopio. In esso non esisteva alcun elemento meccanico che confermasse la necessità di far scorrere le immagini una per volta; come per i vetri da lanterna derivati dai primi giocattoli ottici era un grande otturatore rotante dotato di una sola fessura a offrire una visione alternativa del succedersi dei fotogrammi, permettendone la sintesi. Prendendo alla lettera le indicazioni scientifiche confermate dall'esperienza, infatti, la primordiale macchina da presa (il cinetografo) catturava 46 istantanee al secondo ed era, ovviamente, alla medesima velocità che ogni filmato andava riproposto a uno spettatore alla volta. Di contro i fratelli Lumière, constatato che per ottenere una corretta analisi del moto erano sufficienti meno fotogrammi e puntando su una macchina reversibile, concepirono per il loro Cinématographe (1895) una frequenza di 16 immagini al secondo, otto per ogni giro di manovella. La fabbricazione della celluloide non consentiva, inizialmente, di ottenere pellicola con una lunghezza superiore a 50 piedi (ca. 17 m) e, abbassando la velocità, ogni filmato durava il triplo: una cinquantina di secondi. Un unico problema subentrava nella p.: sullo schermo, infatti, appariva un fastidioso pulsare della luce che rendeva difficoltosa la visione. Nulla d'impossibile, anzi: era talmente straordinario vedere finalmente la fotografia animarsi ‒ nelle prime rappresentazioni si tratteneva fisso il primo fotogramma e solo dopo qualche istante iniziava il movimento ‒ che i primi spettatori quasi nemmeno se ne avvedevano. Si accettava, poi, la conditio sine qua non che non permetteva di andare oltre la mezz'ora o poco più di visione ininterrotta, pur di continuare a immergersi ora nella meraviglia della realtà riprodotta, ora in fantasmagorie sempre più complesse e straordinarie, non più ottenute direttamente in sala a ogni séance come avveniva prima, ma ormai progettate e costruite a priori. Per alleviare il fastidio nella visione, nei primi anni del Novecento la francese Gaumont regalava agli spettatori delle proprie pellicole un ventaglietto di carta nera bucherellato nella parte superiore (la grille: brevettato); bastava agitarlo costantemente davanti agli occhi per eliminare lo sfarfallamento (ingl. flicker). L'essenziale era infatti compensare lo scorrere alternativo delle immagini con le interruzioni del flusso della luce indispensabili alla percezione della sintesi del moto. Durante la ripresa quelle interruzioni rispondevano a un'altra logica: quella di impressionare nel modo più definito e corretto il negativo.L'evoluzione tecnologica degli elementi base della lanterna magica. ‒ Per quanto riguarda la luce furono molti i sistemi adottati e perfezionati negli anni per ottenere emissioni sempre più chiare e potenti: dalla luce 'ossieterica' (ossigeno-etere), alla 'ossidrica' (ossigeno e idrogeno), alla 'ossicalcica' (ossigeno-alcool). Tutte, più o meno, di pericolosa manipolazione, soprattutto considerando la celluloide un composto di derivazione organica facilmente infiammabile. L'avvento dell'era cinematografica coincise con l'inizio della diffusione dell'elettricità e nella lanterna (termine che da quel momento in poi avrebbe identificato contenitore e contenuto della fonte di luce) venne posizionato, al centro di uno specchio parabolico, l'arco voltaico, che riproduceva perfettamente l'intero spettro solare. L'introduzione di tale fonte non fu senza problemi nel senso che, scaturendo da due carboni innescati e poi separati, l'energia calorifico-luminosa ne consumava le punte, rendendo necessari prima continui controlli e poi l'utilizzo di apparati automatici atti a favorirne uno scorrimento progressivo e compensativo. Solo nel 1951 venne inventata una lampada a quarzo riempita di un gas raro, lo xenon, all'interno della quale la scarica tra due elettrodi produceva una fiammella luminosissima e prossima, ma non uguale, alle emissioni solari; il suo facile utilizzo la impose presto in sostituzione dell'arco.
Gli obiettivi invece, pur subendo anch'essi miglioramenti, soprattutto nella luminosità, possono considerarsi gli elementi che più rappresentano la continuità tra il passato e il presente, anche se la loro evoluzione si sarebbe accompagnata, nel corso del tempo, ai nuovi espedienti tecnologici atti ad aumentare la spettacolarità del cinematografo.
L'ingegno dei ricercatori e degli inventori si era profuso intorno al terzo elemento, ossia la gestione dei materiali trasparenti che dovevano conservare le informazioni legate, ormai definitivamente, alla riproduzione fotografica del movimento. L'idea del 'tamburo a specchi' di É. Reynaud venne saltuariamente ripresa, fino agli anni Quaranta, nei proiettori definiti a compensazione ottica, il cui principio poi sarebbe stato sfruttato nella fabbricazione dei tavoli di montaggio (la cosiddetta moviola). Poiché filmare, in sintesi, significa scattare una serie infinita di fotografie, la pellicola, opportunamente perforata ai bordi (l'altra, fondamentale, intuizione di Reynaud sfuggita ad altri pionieri come Étienne-Jules Marey), doveva scorrere regolarmente nell'apparecchiatura di ripresa, fermandosi per una frazione di secondo di fronte all'obiettivo e continuando poi il suo moto mentre un otturatore bloccava l'afflusso della luce in attesa che la porzione successiva prendesse posizione. Per ottenere questo movimento progressivo e alternativo furono vari gli espedienti impiegati. I Lumière introdussero la 'griffa', chiamata nei primi manuali forchetta perché s'infila nella perforazione, attivata da un eccentrico che ne comanda l'andamento alternativo. Georges Demeny, collaboratore di Marey, aveva ideato invece la 'camma eccentrica' o 'battente' che, senza impegnare la perforazione, a ogni giro faceva scorrere violentemente o meglio strappava la pellicola del tratto corrispondente a un fotogramma. Altri, addirittura in qualche caso moltiplicandone i bracci, avevano adottato la croce di Malta, derivata dalla croce di Ginevra già utilizzata in orologeria. La pratica, in tempi brevi, accantonata l'idea dell'apparecchiatura polifunzionale, confermò nelle macchine da presa la griffa, più precisa ma anche più delicata nella sua gestione meccanica, e nei proiettori la croce di Malta, magari immersa in bagno d'olio, più robusta nella concezione di un'apparecchiatura destinata a funzionare, contrariamente alla cinepresa, ogni giorno per molte ore.
Nei primi anni la pellicola veniva commercializzata senza perforazioni e così ogni produttore effettuava le proprie rendendo spesso incompatibili i suoi materiali con quelli delle ditte concorrenti o con parte delle apparecchiature disponibili. Si proseguì in questo modo fino al 1909 quando, in un congresso internazionale tenuto a Parigi, si definirono gli standard che ne normalizzavano caratteristiche e misure, permettendo così l'inizio del noleggio dei film che, ormai, cominciavano a diventare di lunghezza maggiore, anche perché con un semplice espediente si era finalmente risolto il problema del pulsare della luce sullo schermo. Se, infatti, il Cinématographe, come altre macchine immesse subito dopo sul mercato, era nato con caratteristiche multifunzionali (effettuava le funzioni di cinepresa, stampatrice, proiettore), le attrezzature, progettualmente, si erano poi diversificate. Nei proiettori fu possibile intervenire sull'otturatore. Sperimentalmente, era stato appurato che il passaggio dalla luce al buio non veniva più percepito, all'incirca, al di sopra di 50 intervalli al secondo; così fu sufficiente interrompere il flusso della luce non solo quando avveniva lo scambio del fotogramma impressionato, ma altre due volte mentre l'immagine rimaneva fissa sullo schermo: 16×3=48 (alla velocità di 16 fotogrammi al secondo) risolvendo in tal modo i fastidi provocati dalla visione.Edison aveva portato avanti la sua sperimentazione utilizzando apparecchiature alimentate da motori elettrici. L'arco voltaico diventò presto la fonte di luce più praticabile. E se, durante la ripresa, le apparecchiature attivate a mano rimasero le uniche possibili almeno fino alla metà degli anni Venti, i proiettori vennero azionati da motori elettrici. L'energia prodotta dai generatori autonomi in possesso degli ambulanti, i primi ad adottare la nuova forma di spettacolo, nelle sale era di-stribuita dai primi stabilimenti che cominciarono, intorno al 1905, a costruirsi un po' ovunque proprio nelle vicinanze delle prime centrali allestite nei centri storici delle città. Tale situazione creò un indotto anche amministrativo data la pericolosità della celluloide. Nelle prime p., infatti, il macchinario era posto in mezzo al pubblico in sale spesso riconvertite nell'uso, dai caffè alle birrerie, ai magazzini. Nei teatri il cinematografo inizialmente diventò una delle attrazioni degli spettacoli di varietà, e venne installato, provvisoriamente, in palcoscenico usando uno schermo da retroproiezione, reso il più possibile traslucido da irrorazioni continue di acqua e glicerina. Non pochi furono gli incidenti, come il tristemente famoso incendio avvenuto nel 1897 durante una fiera di beneficenza (il Bazar de la Charité) svoltasi a Parigi, costato centinaia di vite umane, che mise nel Paese addirittura in dubbio la possibilità stessa che il cinematografo continuasse a esistere.
Vennero così redatte le prime leggi (in Italia nel 1902, perfezionate poi nel 1908) che confinarono i proiettori prima in cabine ignifughe poi in vani esterni, separati dalla sala per il pubblico; tali leggi definirono le norme per la manipolazione e la conservazione delle pellicole e imposero precauzioni per evitare o circoscrivere gli incendi. Poiché il nitrato di cellulosa, componente della celluloide, bruciando produce ossigeno che continua ad autoalimentare le fiamme in caso d'incendio, vennero introdotte scatole metalliche parafuoco dalle quali la pellicola usciva o rientrava (bobina 'debitrice' e bobina 'avvolgitrice') attraverso dei piccoli canali di sicurezza all'interno dei quali l'ossigeno si poteva velocemente consumare. Inoltre furono introdotti accessori meccanici come saracinesche a mano o tenute sospese dal moto del proiettore, utili a bloccare il flusso dei raggi luminosi e caloriferi dell'arco voltaico in caso di incidenti. Per quanto riguarda lo scorrimento della pellicola, rocchetti dentati controllavano e guidavano, impegnando le perforazioni, il percorso in macchina.
Lo stabilizzarsi dell'esercizio aveva anche imposto il perfezionamento della strumentazione di cabina. I film venivano distribuiti in contenitori metallici (le 'pizze') capienti, al massimo, 300 m: il 'rullo' ‒ in ingl. 1000 feets, piedi, per un reel, detto anche bobina ‒, l'unità di produzione industriale che sarebbe divenuta, in quegli anni, uno standard permettendo di realizzare alla velocità di 16 fotogrammi al secondo, circa 15 minuti di racconto. Allungandosi i tempi i rulli si moltiplicarono. Si poteva allora proiettarli alternativamente con due macchine o attaccarli insieme dopo aver abraso la gelatina in coda a uno di essi per permettere a un collante a base d'acetone di far presa sul supporto del successivo. Nel caso di rottura della pellicola, si operava analogamente, perdendo a ogni modo qualche immagine a ogni giuntura (testa e coda di ogni rullo, sottoposti a usura, si presentano, ancora oggi, incompleti); tenendo inoltre ben presente, in entrambi i casi, il rispetto per l'equidistanza della perforazione e della scansione dei fotogrammi (quattro perforazioni per lato), per non incorrere nel fastidioso fuori quadro (l'interlinea visibile sullo schermo che taglia in due l'immagine) che solo a cavallo degli anni Dieci la tecnologia permise di correggere in p. rendendo mobile l'intero blocco meccanico. Per contenere la pellicola, agli inizi, esisteva solo una sorta di 'doppia forca' dalla quale la pellicola, guidata nel moto dall'azione della griffa, andava poi a depositarsi, libera, in un vano ricavato nella struttura lignea (cavalletto) che sorreggeva l'apparecchiatura, reso accessibile con una porticina, o, addirittura, in un sacco. Divennero così presto indispensabili bobine di varia capacità, con un lato staccabile (smontabili) per inserirvi all'interno, custodendolo, il rullo. Mentre dei bracci azionabili a mano permettevano velocemente di avvolgere e svolgere le varie pizze, montando il film in più tempi, per poi, a spettacolo ultimato, rismontarlo e riporlo, per il trasporto, nelle rispettive scatole.Nel tempo poco è cambiato. Gli avvolgitori ormai funzionano a elettricità mentre per le giunte ‒ eseguite inizialmente con precisione con un torchietto che consentiva, grazie alla presenza di denti, la collocazione precisa dei capi della pellicola ‒ negli anni Cinquanta il montatore italiano Leo Cattozzo inventò una pressa analoga che utilizzava, poi perforandolo, uno speciale nastro adesivo anche facile da rimuovere, evitando la perdita di fotogrammi. Sempre a partire dall'inizio degli anni Cinquanta, dopo anni di sperimentazioni e la verifica dei materiali più diversi, per la fabbricazione della pellicola venne adottato il triacetato di cellulosa, un supporto dalle caratteristiche meccaniche simili a quelle della celluloide ma non infiammabile, in seguito abbandonato in favore del resistentissimo poliestere.
L'intensità della luce dell'arco voltaico e la frequenza del motore erano controllati da reostati posizionati in cabina. Fino al 1926, infatti, la velocità della p. variava in funzione della musica che doveva accompagnarne la visione, eseguita dal vivo da uno o più esecutori che a seconda del tipo di sala cinematografica andavano dal solo pianista all'orchestra stabile. La sperimentazione di Edison voleva accoppiare l'immagine al suono già registrabile con il fonografo (1877). Per tutto il periodo del cinema muto si tentò di perfezionare la sincronizzazione, durante la ripresa e la p., delle due fonti separate con risultati quasi sempre deludenti e, soprattutto, senza poter disporre di un'amplificazione sufficiente per le esigenze di sale sempre più ampie (il Gaumont Palace, inaugurato a Parigi nel 1911, conteneva già 3400 spettatori). I progressi dell'elettronica permisero, nel 1926, la messa a punto del primo sistema sonoro, ancora basato sulla gestione separata dei due codici: il Vitaphone della Warner Bros., costituito da un giradischi (profeticamente attivato alla velocità di 33 giri e 1/3 al minuto) interallacciato meccanicamente con il proiettore, la cui velocità si era andata standardizzando in 24 fotogrammi al secondo (v. colonna sonora). A ogni rullo corrispondeva un disco di notevoli dimensioni letto da una testina che ‒ per garantire la regolarità della riproduzione ‒ scorreva dal centro verso la periferia. Nel 1993 l'americana Universal ha adottato, nel potenziamento della stereofonia, il DTS (Digital Theatre Systems) che introduce nella pellicola un time-code che a sua volta pilota la lettura di un CD-ROM sul quale è stata digitalizzata la colonna sonora. Il time-code rileva le eventuali rotture del supporto del film, conservando così il sincronismo tra immagine e suono. Una possibilità nemmeno immaginabile alla fine degli anni Venti e che, insieme alla fragilità dei dischi e all'approssimazione meccanica, ha portato velocemente all'obsolescenza del sistema, superato dalla codifica luminosa del suono inserita direttamente sulla pellicola. Proprio attraverso l'adozione del Movietone da parte della Fox Film Corporation, sempre nel 1926, venne confermata la necessità di rendere compatibile qualsiasi innovazione con la pellicola in uso, corredando, al massimo, il proiettore base dei necessari accessori tecnologici.Poche volte si è tentato di cambiare totalmente le apparecchiature di cabina. È accaduto con il primo sistema di colore basato sulla ripresa alternativa in successione di due fotogrammi in bianco e nero codificati in arancio e blu-verde (Kinemacolor, 1906) e che andavano riproposti in p., com'era avvenuto nella cinepresa, raddoppiando la velocità (32 fotogrammi al secondo) e inserendo filtri colorati nei settori non coprenti dell'otturatore. Per i successivi brevetti, sempre additivi, che puntavano alla tricromia (dal Chronochrome Gaumont, 1912, fino al Rouxcolor, 1932, e al Francita, 1934) ma anche per altri dai principi più complessi, si trattava invece ogni volta di sostituire l'ottica con insiemi di prismi e filtri che dovevano far coincidere sullo schermo più immagini, sempre ingegnosamente inserite in un unico positivo 35 mm in bianco e nero. Il procedimento è analogo a quello dell'ultimo sistema tridimensionale (1983 ca.): questo permetteva la sovrapposizione dei due indispensabili fotogrammi che lo spettatore decodificava tramite occhiali polarizzati. In passato, invece, sia per i primi tentativi in 3D con la polarizzazione (indispensabile dal 1952 per i film a colori) sia per i molti precedenti ‒ in bianco e nero con gli anaglifi ‒ era necessario usare due macchine da p. coincidenti e sincronizzate, compromettendo così temporaneamente l'assetto delle apparecchiature di cabina. Tale sistema era stato ancora adottato, eccezionalmente, nel 1927 per le poche séances dello sfortunato capolavoro di Abel Gance Napoléon (Napoleone) che contemplava alcune sequenze allargate su tre schermi, per un rapporto tra altezza e base di 1:3,99 (Polyvison), il massimo mai tentato nella storia del cinema, e che necessitava di tre proiettori sempre sincroni tra loro nella velocità e nella scansione degli otturatori. A partire dal 1952, con l'introduzione del Cinerama, costruito a sua volta su riprese con tre macchine e su proiezioni triple (145° di visione orizzontale per 55° di verticale, rapporto 1:2,5), il tutto venne sempre perfettamente sincronizzato, con il sonoro, stereofonico, registrato e riprodotto a parte tramite una quarta pellicola magnetica. Così come aveva provato a fare nel 1940 Walt Disney per il suo Fantasia, affidando la codifica ottica del suono su otto piste a una pellicola separata e montando, ogni volta, sala per sala, la complessa attrezzatura necessaria.
L'avvento del sonoro è l'unica reale rivoluzione tecnologica della storia del cinema. Da quel momento in poi le sale dovettero, infatti, in modo rigoroso, rispondere a precisi criteri di acustica mentre, nelle apparecchiature, si stabilizzò la velocità a 24 fotogrammi al secondo (frequenza minima utile a una sufficiente riproduzione della colonna) il che comportò anche la modifica dell'otturatore al quale sarebbero bastati due settori per mantenere la fissità della luce sullo schermo. Fu necessario inoltre introdurre la 'testa di lettura' fornita di un volano per mantenere costante il moto della pelli-cola che, ventuno fotogrammi dopo l'alternarsi instancabile della croce di Malta, torna continuo. L'affermarsi della colonna ottica ‒ compatibile nella riproduzione indipendentemente dai vari brevetti adottati in ripresa ‒ comportò il primo adattamento della superficie della pellicola alle nuove esigenze. Inizialmente fu solo il taglio di una piccola porzione di immagine, all'incirca di 2 mm di larghezza. Nel film muto lo spazio interno tra le due perforazioni era completamente dedicato all'immagine, con un rapporto di 1:1,33. Il primo sonoro ottico portò tale spazio a un formato all'incirca quadrato, per poi ritornare al più gradevole rettangolo con l'ispessimento dell'interlinea tra i fotogrammi. La 'finestra di proiezione' (o 'quadruccio') divenne così leggermente e proporzionatamente più piccola, oltre che eccentrica per evitare la visione della colonna collocata, nel senso della p., alla sinistra dei fotogrammi. Il formato 1:1,37 rimane il classico evocando, tra l'altro, il tipo di schermo televisivo che stava allora imponendosi, la cui misura in realtà risulta analoga a quella del film muto (1:1,33) tagliando leggermente le inquadrature ai lati nella riproduzione dei film.
Verso la fine degli anni Trenta si iniziarono a costruire i primi ingombranti e complessi videoproiettori in bianco e nero per largo schermo. Basati su una tecnologia chiamata eidophor, nel dopoguerra furono ulteriormente perfezionati anche in funzione del colore. Ma solo negli ultimi anni del 20° sec., dopo averci provato con molti sistemi, lo sviluppo del DLP (Digital Light Processing) della Texas Instruments ha permesso di cominciare a pensare a una radicale sostituzione di supporto e sorgente, imboccando la strada di un cinema non più fatto di pellicola e apparecchiature meccaniche ma affidato a supporti magnetici e quindi virtuale, informatico e digitale; una strada, peraltro, di pura simulazione rispetto alla qualità oggettiva dell'immagine di derivazione fotografica. All'inizio degli anni Cinquanta, proprio per contrastare la diffusione della televisione, il cinema era ricorso a espedienti e ritrovati già testati all'inizio degli anni Trenta e allora giudicati, probabilmente, eccessivi. Per riconquistare il pubblico, offrendogli scenari sempre più vasti e suggestivi, nel 1953 iniziò lo sfruttamento sia del Cinemascope (Fox) sia del Vistavision (Paramount). Per il primo si trattava di applicare un brevetto del 1927 (l'Hypergonar) basato, con lenti addizionali in ripresa e proiezione, sull'anamorfosi cilindrica. Volendo introdurre anche la stereofonia con l'inserimento di quattro piste magnetiche incollate sulla pellicola, inizialmente si rese necessario più di qualche cambiamento sul proiettore. Ma poi tutto ritornò compatibile con il reinserimento della colonna ottica e il rapporto iniziale assai spinto (1:2,55) si stabilizzò in una misura intermedia (1:2,35). Lo stereo magnetico continuò a essere saltuariamente praticato fino al 1974, quando l'avvento del Dolby, che rielaborava l'incisione della colonna ottica, pose le basi per i futuri sistemi digitali. Il Vistavision, invece, introduceva nel cinema lo sfruttamento orizzontale della pellicola adottato nel 1925 dalla Leitz per la fotografia, ampliando la superficie utile (rapporto 1:1,85) e coprendo non più quattro ma otto perforazioni. Questa tecnica rendeva necessaria la sostituzione delle apparecchiature, ma la sempre maggior qualità delle emulsioni ne permise la riduzione ottica nella normale pellicola. Così, per proiettarlo, si ridusse il quadruccio (ovvero il piccolo riquadro posto dietro l'obiettivo della macchina da presa o del proiettore che delimita i bordi dell'immagine), risultante troppo alto, facendogli tagliare l'interlinea, mentre un'ottica a focale più corta ingrandiva l'immagine proiettata sullo schermo, mantenendo inalterata l'altezza, a metà strada, nella larghezza, tra il normale e lo scope. Un formato panoramico, appunto, come poi verrà denominato quando, abbandonata la ripresa orizzontale, fu sufficiente inserire un quadruccio nella macchina da presa per permetterne l'utilizzo che, in Europa, divenne meno spinto, con un rapporto di 1:1,66. Nei proiettori, per ottimizzare le operazioni necessarie allo svolgimento di film di formato diverso, vennero introdotti mascherini intercambiabili, mentre le ottiche di lunghezza focale diversa vennero montate su torrette mobili. Tutti questi processi tecnici furono, data la ripetitività degli spettacoli, sempre a cavallo degli anni Cinquanta, completamente automatizzati. Ancora nello stesso periodo, e sempre per offrire la maggiore definizione possibile delle immagini (maggiore è la superficie proiettata, minori risultano gli ingrandimenti), si reintrodusse anche la pellicola di doppio formato, già utilizzata, sempre saltuariamente, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Vari i sistemi di ripresa adottati (Todd AO, 1954; Technirama 70, 1959 ecc.) che potevano sempre e comunque essere ricondotti a positivi 35 mm anamorfizzati, ma che apparivano straordinari nelle poche sale che si dotarono di proiettori bipasso, ovvero costruiti per gestire, con il cambio di pochi elementi, sia la pellicola normale sia, quando necessario, il 70 mm. L'acquisizione di queste nuove apparecchiature era l'ultima opzione divenuta indispensabile per tutti quei gestori dei cinema che volevano offrire ai loro spettatori il massimo della qualità, perché l'evoluzione e i perfezionamenti dei sistemi di riproduzione del suono, nonché gli accessori per una p. automatica e ininterrotta (con il piatto orizzontale a loop chiusa da 4000 m, quasi due ore e mezzo senza interruzioni) sono sempre stati progettati per integrarsi alle apparecchiature già sistemate in cabina.
L'unica totale anomalia rispetto al principio della compatibilità che, probabilmente, rimarrà nel tempo il feticcio del cinema chimico-meccanico del passato qualora la videoproiezione digitale diventasse prevalente, nacque nel 1970 utilizzando in ripresa e p. il 70 mm in orizzontale ovvero fotogrammi di enorme superficie. L'IMAX, messo a punto in Canada, non solo ha ripreso la tecnologia 3D con due macchine e occhiali polarizzati, ma nella variante OMNIMAX proietta addirittura su uno schermo emisferico coprendo una visione di 180°, mediante obiettivi che permettono di correggere e adattare l'immagine alla sfericità dello schermo. Con un sonoro separato da sei piste magnetiche coinvolge gli spettatori in brevi viaggi soprattutto di taglio documentaristico. Ormai diffuso quasi ovunque ma in singoli impianti gestiti direttamente dalla casa madre, si ricollega, romanticamente, proprio alle origini del cinema, quando i fratelli Lumière dimostrarono al mondo l'eccezionalità della riproduzione artificiale della realtà.
V. Mariani, Guida pratica della cinematografia, Milano 1916.
Les maîtres du cinéma, Émile Reynaud, Peintre de films, Paris 1946.
A. Abramson, Electronic motion pictures. A history of the television camera, Berkeley-Los Angeles 1955.
M. Calzini, Storia tecnica del film e del disco: due invenzioni una sola avventura, Bologna 1991.
M. Calzini, Cento anni di cinema al cinema: storia dei cinematografi dalla saletta dei Lumière ai Multiplex, Roma 1995.
L. Mannoni, D. Pesenti Campagnoni, D. Robinson, Luce e movimento, incunaboli dell'immagine animata 1420-1896, Pordenone 1995.
D. Pesenti Campagnoni, Verso il cinema: macchine spettacoli e mirabili visioni, Torino 1995.
M. Calzini, Il manuale dell'operatore di cabina, Roma 1996.
C. Montanaro, Il cammino della tecnica, in Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, 5° vol., Teorie, strumenti, memoria, Torino 2001, pp. 81-163.