PROGRAMMAZIONE ECONOMICA
. Questioni definitorie. - Per parlare di p. e. occorre innanzitutto precisare l'ambito dell'analisi. Ciò perché ogni soggetto che compia azioni attinenti al campo economico, consciamente o inconsciamente esplica un'attività programmatoria: e dunque ha un comportamento che potrebbe prestarsi a essere analizzato da quest'angolo visuale. L'individuo, per es., o forse, ancor meglio, la famiglia compie attività di tal genere nella misura in cui colui o coloro che la guidano stabiliscono i modi e i tempi in cui spendere i redditi correnti e futuri, nonché gli scopi che con quelle spese ci si prefigge di raggiungere. Così come compie attività programmatoria l'imprenditore che formuli un piano d'investimenti per la propria azienda in vista del raggiungimento di predeterminati obiettivi produttivi o di profitto. Il soggetto economico a cui peraltro viene più usualmente attribuita la vocazione a programmare è indubbiamente lo stato. Ma anche a voler parlare solo della p. e. a livello statale, occorre quanto meno fare una distinzione preliminare di natura fondamentale: quanto a dire, avvertire se s'intenda trattare della p. propria dei paesi a regime collettivista o invece di quella dei paesi a economia di mercato. La rilevanza di questa precisazione consistendo essenzialmente nel fatto che mentre nel primo tipo di paesi - cioè in quelli comunisti - i mezzi di produzione sono per la quasi totalità di proprietà dello stato (il quale, pertanto, può disporne nei modi ritenuti i più opportuni rispetto ai fini che ci si prefigge), nel secondo tipo di paesi tali mezzi sono in prevalenza di proprietà di privati cittadini: i quali potranno essere indirizzati a usare quei mezzi nelle direzioni che la p. e. si pone come auspicabili, ma non essere costretti a far ciò. Qui ci occuperemo della p. e. dei paesi a economia di mercato.
Programmazione parziale e programmazione globale. - Sia dal punto di vista metodologico che da quello operativo si usa distinguere un tipo di p. che riguarda una porzione soltanto di un sistema economico da quella che, invece, abbraccia l'intero sistema. Il primo tipo - denominato p. e. parziale - può concernere un dato settore produttivo (l'agricoltura, per es.); o un certo tipo di servizi (i porti, per es.); ovvero, ancora, una regione di un paese, amministrativa o economica che sia (un esempio tipico potrebbe essere fornito dall'esperienza rooseveltiana della valorizzazione del bacino del fiume Tennessee che dette origine a quell'organismo amministrativo ad hoc, noto in tutto il mondo con il nome di Tennessee valley authority). Si tratta di un genere di p. che, pur prefiggendosi scopi di rilievo, ha sempre obiettivi circoscritti e piuttosto limitati: e, come tali, di più agevole raggiungimento, richiedendo una mobilitazione, se non marginale, certo non molto importante delle risorse di un paese; nonché un apparato amministrativo per la realizzazione del programma di proporzioni alquanto modeste. L'esperienza programmatoria diviene invece estremamente complessa allorché essa intenda concernere non già un settore o una zona di un paese, bensì il paese intero e tutto il suo sistema economico: allorché, cioè, si abbia a che fare con la p. e. globale. Perché in tal caso si tratta di raggiungere non uno soltanto, ma una serie di obiettivi simultaneamente: predisponendo un piano coerente e compiuto atto allo scopo; e individuando le condizioni e gli strumenti che ne consentano l'attuazione. Un compito, come vedremo, davvero arduo.
Perché programmare?. - Il nostro discorso sulla p. e. globale in un paese a economia di mercato può prendere avvio da una domanda: perché un paese avente un'economia di mercato, cioè caratterizzato da un sistema economico che genera spontaneamente le forze occorrenti alla propria crescita, può giungere ad avvertire la necessità di affidare il suo sviluppo futuro a una politica di p. e. (chiamata, anche, "politica di piano")? Domanda, questa, certamente non peregrina: ove si pensi che dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, un grande numero di paesi del mondo occidentale - compresi alcuni tra i più sviluppati (Francia, Olanda, Belgio, Svezia, Danimarca, Italia, Gran Bretagna) - hanno sentito tale necessità. Ed ecco la risposta: la politica di piano viene a essere invocata in un paese allorché le forze spontanee sotto la cui spinta il sistema economico del paese in questione sta sviluppandosi hanno condotto e, presumibilmente, stanno conducendo verso risultati non ritenuti accettabili dalle forze politico-sociali. Il che, in termini positivi, equivale a dire che quella politica è ritenuta necessaria affinché il sistema economico evolva in direzione e con obiettivi diversi da quelli verso i quali s'indirizzerebbe in mancanza appunto di una politica di piano. Si ha un chiaro esempio di ciò pensando alle motivazioni che hanno contrassegnato il sorgere e l'evolversi di tal genere di politica economica in Italia. Già nel primo embrione di politica di piano italiana - identificabile nel cosiddetto "Piano Vanoni" degli anni Cinquanta - così come nei vari piani degli anni Sessanta nonché nelle prospettive di programmazione degli anni Settanta e oltre contenute nel documento che va sotto il nome di "Progetto 80", è dato trovare, quali obiettivi principali da perseguire, il risollevamento economico-sociale delle regioni meridionali del paese, la massima possibile occupazione della manodopera, l'attenuazione dei divari di reddito tra addetti ai vari settori dell'economia, l'approntamento di servizi civili per il soddisfacimento di bisogni collettivi quali l'istruzione, la sanità, la qualificazione professionale. Tutti obiettivi, questi, che corrispondono all'eliminazione di altrettanti squilibri e inconvenienti che lo sviluppo spontaneo (cioè non programmato) del sistema aveva ingenerato e probabilmente avrebbe potuto e potrebbe ancora ingenerare o rafforzare.
Le difficoltà di programmare. - Il problema di fondo di ogni processo programmatorio del tipo che stiamo qui considerando, dunque, è quello di trovare il modo per far sì che il sistema economico, nel suo evolversi, conduca al raggiungimento degli obiettivi che il programma si propone. Per affrontare tale problema occorre procedere a una serie di operazioni: la prima delle quali non può che esser quella di stabilire quali siano gli obiettivi che il particolare programma in preparazione intenda perseguire. È ovvio infatti che un programma non può porsi il raggiungimento contemporaneo di un numero qualsiasi di obiettivi corrispondenti ad altrettante esigenze del paese per il quale quel programma viene predisposto. Non si può, per es., pensare che un paese povero di industrie e con un'agricoltura arretrata possa, nel breve volgere di tempo abbracciato da un programma di sviluppo (solitamente cinque anni), raggiungere livelli d'industrializzazione o di produzione agricola paragonabili a quelli di paesi economicamente molto più avanzati. Nello stabilire gli obiettivi da perseguire, dunque, occorrerà fare delle scelte: cioè stabilire delle priorità, dando appunto la precedenza a quelli di cui si presenta più pressante la necessità di raggiungimento. In più si deve badare che tali obiettivi siano tra loro compatibili: cioè non contraddittori. Un esempio: sarebbe contraddittorio porre come obiettivi simultanei il raggiungimento del più alto possibile assorbimento di manodopera disoccupata e grandi investimenti industriali a tecnologia di avanguardia, caratterizzati, solitamente, da una necessità di manodopera alquanto scarsa. Così agendo si andrebbe infatti incontro a sicuro insuccesso del programma di sviluppo, urtando contro quel tipo d'incoerenza che, con un'immagine colorita, Ragnar Frisch - economista ed econometrico di fama mondiale - ha descritto come segue: la programmazione dovrebbe in tal caso condurre a risultati aventi le caratteristiche richieste dalle signore per le loro scarpe: piccole al di fuori e grandi e confortevoli al di dentro. Stabiliti gli obiettivi da perseguire - con il concorso e il consenso di tutte le principali forze politiche e sociali del paese: consenso che, anche se difficile da raggiungere in una società pluralistica, è tuttavia essenziale ai fini della riuscita del programma di sviluppo, perché è evidente che nessun programma potrà mai avere possibilità di successo se la sua attuazione viene ostacolata da importanti componenti della società, quali per es. i sindacati dei lavoratori o degl'imprenditori - si deve accertare se il sistema economico abbia le potenzialità necessarie per il loro raggiungimento. Un compito, anche questo, non certo agevole. Per dare un'idea delle difficoltà ad esso connesse, immaginiamo che il piano di sviluppo del paese di cui ci si stia occupando si ponga, tra i vari obiettivi, quello di creare un certo numero di posti di lavoro nel settore industriale di una data regione: al fine e di ridurvi la disoccupazione e d'irrobustire economicamente la regione in discorso. Un obiettivo, sia detto d'inciso, niente affatto irrealistico: visto che ha caratterizzato tutti i piani di sviluppo predisposti per l'Italia con riferimento specifico all'industrializzazione del Mezzogiorno. Ebbene: che cosa si deve fare per valutare se il sistema economico in esame possegga la potenzialità per raggiungere, nell'arco di tempo abbracciato dal piano, l'obiettivo in discorso? Intanto occorrerà stimare se, dal risparmio totale che il sistema economico dovrebbe formare negli anni del piano, potrà esserne convogliata a investimenti industriali nella regione prescelta una parte sufficiente a consentire l'occupazione del quantitativo di manodopera voluto. Ma tenendo presente, in questa stima, che gl'investimenti (cioè, in primis, gli stabilimenti) possono essere di vario tipo (tessili, o meccanici, o siderurgici e via dicendo): per cui a parità di capitale (vale a dire di risparmio) richiesto, assorbono manodopera in misura più o meno grande. E, d'altronde, dovendosi anche tenere a mente che non si possono incoraggiare esclusivamente certi tipi d'investimento solo in quanto assorbitori di quote maggiori di manodopera: anche perché, una volta realizzati, si potrebbe correre il rischio di vederli languire a causa della non ricettività, da parte del mercato, dei prodotti ottenibili. Ma pure ammettendo di essere riusciti a superare le difficoltà fin qui accennate, si dovrebbero poi predisporre gl'incentivi atti a indurre gl'imprenditori a effettuare gl'investimenti previsti: cioè a costruire le fabbriche del tipo previsto, nel luogo richiesto e nei tempi auspicati. Altro ostacolo, questo, di non poco conto in un paese a economia di mercato dove l'iniziativa economica privata è, normalmente, libera per dettato costituzionale. Per cui, come già accennammo, non è possibile costringere nessun cittadino, sia o no un imprenditore, a compiere atti economici da lui eventualmente non ritenuti convenienti. Né, d'altra parte, è immaginabile che ove gl'imprenditori privati non ritenessero di effettuare questo o quell'investimento previsto dal piano, a ciò potesse provvedere lo stato, con la creazione di imprese pubbliche. Non foss'altro perché, al limite, ciò condurrebbe il paese in discorso a trasformarsi in un'economia a stampo collettivista: con mutamenti istituzionali che la maggioranza della popolazione potrebbe non desiderare. Quello appena delineato è solo uno dei possibili problemi che i programmatori sono chiamati a risolvere per formulare un piano che abbia, almeno potenzialmente, la possibilità di essere realizzato. Ma ve ne sono in genere molti altri: e non meno complicati. Si pensi, solo per dare un altro esempio, a quelli connessi alla stima delle esportazioni e delle importazioni che un paese dovrebbe effettuare nel corso del tempo abbracciato dal piano onde consentire lo sviluppo del sistema produttivo nei termini auspicati. Limitandoci a considerare le sole esportazioni, e tenendo presente che esse possono rappresentare una quota importante della produzione di un paese (quando questo, com'è nel caso italiano, ha un'economia eminentemente trasformatrice e quindi fortemente aperta nei confronti dell'estero), è ovvio che quella stima avrebbe bisogno di essere effettuata in maniera molto accurata: mentre ciò non è consentito dalla natura stessa delle esportazioni, le quali possono subire fluttuazioni anche forti in conseguenza delle vicende congiunturali dei mercati mondiali. Esistono poi fattori che possono influenzare negativamente l'attuazione di un piano, anche del meglio congegnato, ma che sfuggono completamente al controllo degli organi preposti alla sua predisposizione. Per es. condizioni meteorologiche avverse che possono danneggiare i raccolti agricoli e indurre un paese a importazioni impreviste di derrate alimentari: con conseguente spesa di riserve di valute estere che, invece, avrebbero dovuto essere destinate all'acquisto di altri prodotti, magari di materie prime fondamentali per l'industria del paese. Oppure sommovimenti politici in paesi stranieri: con rincari imprevisti nei prezzi di prodotti energetici (emblematica, al riguardo, la crisi medio-orientale che, alla fine del 1973, ha portato al quadruplicarsi del prezzo del petrolio).
Conclusioni. - Qual è allora il grado di fiducia che può ragionevolmente assegnarsi alla p. dello sviluppo economico di un paese a economia di mercato? La risposta ci sembra implicita in quanto illustrato sin qui: si tratta di una fiducia relativa. La scienza economica, è vero, ha fatto passi notevoli nel campo della predisposizione dei piani di sviluppo, al fine di renderli intrinsecamente coerenti. Ha elaborato strumenti concettuali raffinati; statistiche sofisticate; modelli econometrici la cui soluzione può essere ottenuta solo tramite l'ausilio di calcolatori elettronici. Ma, ripetiamo, programmare lo sviluppo di un sistema economico significa, nella sostanza, mutarne l'evoluzione spontanea per indirizzarla verso gli obiettivi che il paese ritiene più urgenti. E questo implica la soluzione di una quantità di problemi tecnici, tutti estremamente complessi; in più, una volta risolti tali problemi, implica che non si verifichino fenomeni esogeni che possano turbare l'andamento desiderato del sistema economico. Il tutto in un clima di stabilità politica e sociale, al di fuori del quale può accadere che gli obiettivi scelti in un primo tempo possano essere ricusati in un tempo successivo, con sbandamenti ulteriori nella realizzazione del programma. Per l'insieme di queste ragioni, un piano di sviluppo economico non può essere riguardato che alla stregua di un quadro di riferimento: un quadro nel quale siano tratteggiati con sufficiente precisione gli obiettivi verso i quali s'intenda indirizzare il sistema, senza peraltro presumere che essi, sol perché assunti dal piano, saranno sicuramente raggiunti nei tempi e nelle misure prestabilite. È nell'imprimere certe tendenze evolutive al sistema economico verso i traguardi indicati dal paese che consiste l'utilità di una politica di piano. E la misura in cui ciò si verifica è il parametro del successo di tale politica.
Bibl.: Problemi metodologici generali: Autori vari, Programming techniques for economic development, with special reference to Asia and Far East, Bangkok 1960; V. Del Punta, Sul significato e sui limiti della programmazione economica, in Rivista di politica economica, giugno 1964; J. Tinbergen, Central planning, New Haven 1964; V. Marrama, Problemi e tecniche di programmazione economica, Bologna 1968; V. Del Punta, Programmazione economica razionale, Firenze 1970; A. Lewis, Principi di programmazione economica, Milano 1970; T. S. Khachaturov, Methods of long-term planning and forecasting, Londra 1976. Programmazione economica in Italia: Ministero del Bilancio, Schema di sviluppo dell'occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-64, Roma 1955; F. Di Fenizio, La programmazione economica (1946-1962), Torino 1965; Ministero del Bilancio, Programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-69 presentato dal Ministro del Bilancio Giovanni Pieraccini e approvato - sentito il parere del CNEL - dal Consiglio dei Ministri il 2-6-1965, Roma 1965; S. Lombardini, La programmazione. Idee, esperienze, problemi, Torino 1967; Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica: Progetto '80. Rapporto preliminare al programma economico nazionale 1971-75, Roma, apr. 1969; P. Saraceno, La programmazione negli anni '70, Milano 1970; G. Ruffolo, Rapporto sulla programmazione, Bari 1973; G. Crocioni, G. Fantuzzi, Regioni e programmazione. L'esperienza italiana 1970-75, Milano 1976.
Esperienza italiana di programmazione. - La coscienza della necessità di una politica economica coordinata e condotta secondo criteri di organicità venne in Italia maturando fin dall'immediato dopoguerra, attraverso una lunga fase di elaborazione dottrinaria, di discussioni e di tentativi parziali di programmazione. Il primo dibattito politico sull'argomento si svolse all'Assemblea Costituente negli anni 1946-47, e portò all'inserimento nella carta costituzionale (art. 41) del principio della p. secondo una formula che sancisce la libertà dell'iniziativa economica privata e nel contempo prevede che la legge determini i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica, privata e pubblica, possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Data la necessità di adottare urgenti misure per la ricostruzione del paese, l'attenzione dei governi non fu all'inizio tanto rivolta a recepire e applicare prontamente forme di p. quanto piuttosto a fronteggiare le esigenze del momento. Tuttavia, già nel periodo 1946-50 si manifestarono intenti interessanti di attribuire organicità alle misure di volta in volta decise. Un atto significativo di detto periodo fu la costituzione del Comitato Interministeriale per la Ricostruzione (CIR), con compiti di formulazione e coordinamento delle direttive di politica economica secondo una linea che incoraggiasse l'iniziativa privata e nel contempo indirizzasse le limitate risorse allora disponibili nel senso più utile alla collettività. Alla stessa logica s'ispirò la prima esperienza embrionale di p. generale avviata nel 1948 e sviluppatasi nel quadriennio 1948-51 per la realizzazione, nell'ambito nazionale, del Programma di Ricostruzione Europea (ERP) destinato a concretare un vasto piano di aiuti degli Stati Uniti all'Europa. Tale esperienza non andò esente da gravi lacune, in quanto non erano stati considerati nel programma italiano alcuni importanti settori industriali né erano stati indicati gli sviluppi che in termini di reddito sarebbero prevedibilmente derivati dalla sua attuazione. Sempre al 1948 risale l'iniziativa, circoscritta a un limitato settore ma con notevoli riflessi sullo sviluppo degli altri comparti industriali, rappresentata dal programma settennale di costruzioni edilizie (Piano Fanfani). Superate le più urgenti difficoltà del dopoguerra, l'azione dei governi si rivolse più speditamente ad affrontare, con una visione tendenzialmente globale, i problemi di fondo del paese, quali il risollevamento delle aree depresse, la disoccupazione e lo sviluppo produttivo. Finalizzato al primo fu il programma poliennale e straordinario di opere e iniziative pubbliche nel Mezzogiorno, presentato nel 1950 dal sesto governo De Gasperi e considerato come un'importante innovazione sia per la sua esplicita impostazione programmatica a lungo termine, sia per gl'imponenti mezzi finanziari che il bilancio dello stato avrebbe fornito con certezza per un periodo determinato. Lo stesso problema delle aree depresse come pure gli altri problemi sopra ricordati formarono oggetto dello "schema di sviluppo del reddito e dell'occupazione nel decennio 1955-64" predisposto dal governo Scelba nel dicembre 1954 e conosciuto come "Piano Vanoni" dal nome del ministro del Bilancio che ne curò l'elaborazione. Si trattò del primo serio tentativo di p. globale diretta a conseguire gli obiettivi suindicati nel quadro di un'economia di mercato, attraverso una politica di cooperazione internazionale e mediante interventi dello stato intesi a stimolare l'iniziativa privata nei campi agricolo, industriale e delle opere pubbliche. Peraltro, lo schema Vanoni non ebbe l'attesa applicazione per un'inesatta diagnosi della situazione italiana; per l'intervento di mutamenti strutturali (Mercato comune europeo, sviluppo e trasformazioni tecnologiche) di ampiezza imprevedibile; per una mancata revisione e aggiornamento; per l'insufficienza di strumenti atti a concretare gl'indirizzi generali. Mentre a livello politico si andavano manifestando sempre più chiaramente convergenze di fondo negli orientamenti della DC, del PSDI, del PSI e del PRI sull'esigenza di avviare nel paese una vera p. democratica - e si avvicinava così il momento della svolta nella vita politica italiana caratterizzata dall'ingresso nel governo dei socialisti, dal 1947 all'opposizione - la fragilità delle linee programmatiche formulate dallo schema Vanoni indusse nel 1961 il governo del tempo, presieduto dall'on. Fanfani, a incaricare una commissione di economisti, presieduta da G. U. Papi, di predisporre un nuovo schema finalizzato agli stessi obiettivi del precedente. Tale commissione avrebbe dovuto impostare una p. di tipo positivo-indicativo, con la preliminare individuazione dei punti chiave dello sviluppo economico del paese, e l'indicazione delle linee di un'azione volta a inserire più efficacemente l'organizzazione statale nello sforzo di correzione di quegli squilibri territoriali e settoriali che si erano manifestati nell'ambito del vigoroso processo di espansione dell'economia fino allora registrato. La commissione agl'inizi del 1962 era pervenuta all'elaborazione di un modello aggregato di prima approssimazione dello sviluppo economico italiano per il decennio 1960-70 e aveva inoltre promosso una serie di indagini nel senso prima accennato. Interruppe i suoi lavori allorché, conclusosi un periodo che dal 1947 aveva visto succedersi prevalentemente ministeri imperniati sui partiti di centro (DC, PSDI, PRI, PLI), prese avvio quella formula di governo di centro-sinistra che, salvo brevi parentesi, avrebbe retto il paese per quasi tutto l'arco degli anni Sessanta e agl'inizi degli anni Settanta.
Con la formazione del quarto ministero Fanfani, il principio della p. venne formalmente assunto come indirizzo di base della politica economica. L'elemento fortemente innovatore fu l'adozione di un differente criterio d'impostazione della politica di programmazione. Un criterio che - fondandosi sulla regolamentazione delle scelte di mercato attraverso l'intervento pubblico diretto a incidere sulle situazioni regionali, settoriali e sociali di arretratezza e di ritardo economico - modificava sostanzialmente la linea in precedenza perseguita dai governi e caratterizzata dal riconoscimento della massima libertà nella determinazione dei consumi e nella scelta degl'investimenti. I presupposti essenziali di tale indirizzo furono enunciati dal ministro del Bilancio La Malfa in una nota al Parlamento, nel maggio 1962. Gli studi preliminari alla fissazione in concreto degli obiettivi programmatici sarebbero stati svolti da una commissione di esperti e di rappresentanti delle maggiori organizzazioni imprenditoriali e sindacali così da corresponsabilizzare anche le parti sociali. La nota La Malfa suscitò critiche dalla destra, che vide nell'introduzione della p. l'inserimento nel sistema italiano di un elemento caratterizzante una società di tipo collettivo-marxista, e dall'opposizione di sinistra che, manifestando una certa sfiducia nella possibilità che le forze di maggioranza realizzassero effettivamente il programma, lamentò un'inadeguata considerazione per i problemi dello squilibrio del rapporto salari-profitti e della disoccupazione. Da parte sindacale, mentre la CGIL stigmatizzò il tentativo di strumentalizzare l'organizzazione dei lavoratori e di costringerla a un'inaccettabile rinuncia al miglioramento della condizione operaia, la CISL, pur nel rispetto della sua autonomia, si dichiarò disponibile a partecipare con gli altri gruppi economici alla definizione e alla gestione della programmazione. La Confindustria ritenne minacciato quel sistema economico di mercato che aveva dimostrato la sua idoneità a massimizzare il reddito nazionale e, definendo illusoria la convinzione di poter risolvere ogni problema attraverso un piano quantitativo e la fissazione di limiti dirigistici all'iniziativa privata, indicò nella p. concertata con il governo e gli altri gruppi d'interesse la via per ottenere uno sviluppo economico e sociale più equilibrato. A seguito dei lavori eseguiti dalla commissione per la p., conclusi con un rapporto del suo vicepresidente prof. Saraceno, nei primi mesi del 1964, per iniziativa del primo governo Moro, il ministero del Bilancio, retto allora dall'on. Giolitti, socialista, dette inizio alla preparazione di un progetto di programma quinquennale per il periodo 1965-69. Vivaci reazioni si svilupparono soprattutto per il proposito di attuare una profonda trasformazione del sistema e delle strutture economiche del paese, mediante una massiccia assunzione di iniziative produttive da parte dello stato e la centralizzazione nelle mani del potere esecutivo delle più importanti scelte economiche. Interrotto l'iter del piano Giolitti, anche per un'intervenuta crisi di governo, con l'avvento dell'on. Pieraccini, anch'egli socialista, al ministero del Bilancio in un gabinetto ancora presieduto dall'on. Moro, venne messo a punto un nuovo programma riferito al quinquennio 1966-70. Varato dal governo nel 1965, esso venne approvato dal Parlamento con legge nel luglio 1967, momento in cui la p. è divenuta per l'Italia una realtà. Il programma economico nazionale nasceva come la risultante di contrastanti istanze, scarsamente coordinate, con effetti negativi sul piano operativo per una dubbia compatibilità tra obiettivi e strumenti. Comunque nel nuovo programma si affermavano più esplicitamente, rispetto al precedente testo, alcuni indirizzi (quali la necessità di stimolare gl'investimenti produttivi, di contenere le spese pubbliche correnti e il ricorso del settore pubblico al mercato dei capitali, e infine di consentire la costituzione di un adeguato volume di risparmio all'interno delle imprese) diretti a porre l'industria in grado di svolgere il suo ruolo fondamentale nel processo di sviluppo. Ancora differenti erano le reazioni dei sindacati. La CGIL ribadiva la necessità dell'autonomia rivendicativa, mentre la CISL si rendeva disponibile alla collaborazione, a patto che si operasse responsabilmente per il raggiungimento degli obiettivi generali dello sviluppo. La Confindustria apprezzava il tentativo compiuto per presentare un quadro obiettivo delle future possibilità dell'economia italiana, ma rilevava incoerenze e contraddizioni del piano. Sotto il profilo politico, da destra si contestava l'ampiezza del previsto intervento pubblico diretto nell'economia, mentre dall'opposizione di sinistra si giudicava il programma fin troppo conservatore in quanto non esaltava sufficientemente la funzione direttiva e decisionale del settore pubblico. Unanime fu comunque il riconoscimento dei risultati essenzialmente negativi che caratterizzarono l'attuazione del programma, conseguenti sia alle già ricordate contraddizioni, sia al fatto che il documento non avesse indicato una priorità nelle azioni da svolgere in relazione alle necessità più urgenti e alle risorse disponibili per soddisfarle, sia alla scarsa partecipazione delle categorie economiche e sociali all'elaborazione del programma che aveva influito negativamente sui suoi contenuti e sulla sua operatività. Assumendo poi forma di legge il programma aveva finito per cristallizzare e congelare linee di politica economica che avrebbero dovuto essere elastiche e flessibili in relazione alle mutevoli esigenze della realtà. Mentre era in vigore il programma 1966-70, il ministero del Bilancio pubblicava nel 1969 un documento noto come "Progetto '80", avente per scopo d'indicare gli obiettivi sociali e alcune grandi scelte di politica economica su cui avrebbe dovuto essere impostato un nuovo programma per il periodo 1971-75. Il documento si manifestò di fatto come tentativo di "rottura" non tanto di un certo tipo di p. quanto di una determinata concezione del sistema economico su cui il paese era basato, ipotizzando un nuovo modello di sviluppo imperniato sulla preminente importanza dell'intervento pubblico diretto nell'attività economica. Il "Progetto '80" non ebbe peraltro seguito e l'attività di p. entrò in una fase di ristagno, anche per la crisi che - riflettendo la più generale crisi politica e di governo e la stessa collaborazione tra i partiti di centro-sinistra - aveva investito al vertice gli organi di programmazione. L'intervenuta fase di "meditazione", consentendo lo svilupparsi di un ampio discorso sulla nuova impostazione della politica programmatica, ha positivamente influito sugli orientamenti al riguardo adottati dagli organi politici. Il "Documento programmatico preliminare al programma economico nazionale 1971-75", preparato dal ministero del Bilancio - nuovamente affidato all'on. Giolitti, in un governo presieduto dall'on. Colombo - e reso pubblico nel settembre 1971, ha riflesso i nuovi orientamenti indicando scelte abbastanza precise in termini sia di azioni di politica economica, sia di obiettivi da perseguire, sia di impegni finanziari che questi comportano. Detti obiettivi sono stati considerati solo "punti di riferimento" per le azioni programmatiche, concepite a loro volta come suscettibili di essere via via corrette e aggiornate. Si è attribuito infine al programma stesso la natura di atto politico e non legislativo, mentre sono state chiamate le parti sociali a intervenire nella fase elaborativa del piano. I contenuti del Documento preliminare sono stati sostanzialmente recepiti dal progetto di programma predisposto agl'inizi del 1972 con riferimento - reso necessario dai ritardi di elaborazione - al quinquennio 1973-77. Tale progetto non è stato tuttavia approvato dal governo per la conclusione anticipata della legislatura. Lo svolgimento delle elezioni nella primavera del 1972, le successive vicende politiche e la necessità di fronteggiare la situazione di emergenza connessa alla crisi economica che ha investito il paese negli anni successivi, hanno di fatto interrotto il processo di programmazione. Soltanto sul finire del 1975, il quarto governo Moro ha riproposto l'opportunità di collocare le scelte di politica economica in un quadro programmatico, procedendo alla redazione di un documento incentrato da un lato sulla p. della spesa pubblica a medio periodo, e dall'altro lato su un disegno di ristrutturazione dell'apparato industriale del paese, con l'assunzione dell'impresa e dei suoi problemi al centro delle decisioni ritenute necessarie per superare la crisi. Anche tale iniziativa, che avrebbe potuto segnare un rilancio della p. in termini rinnovati, non ha avuto sviluppi. Il nuovo scioglimento anticipato delle Camere, verificatosi nella prima metà del 1976, e l'aggravarsi della crisi economica sono intervenuti a neutralizzare e a fare ulteriormente slittare nel tempo atti concreti di p., benché dalle varie forze politiche e dalle parti sociali sia stata reiteratamente manifestata, sia pure con orientamenti diversi, l'esigenza di adottare il metodo della politica di piano nella gestione economica del paese.
La legislatura successiva, iniziatasi con lo scioglimento anticipato delle Camere nel 1976, è stata caratterizzata da un'accresciuta sensibilità nei confronti della crisi economica, specie per ciò che concerne la parte imputabile alla crisi finanziaria dell'apparato pubblico. La crescita enorme della spesa pubblica, solo parzialmente e in ritardo seguita dalla crescita delle entrate tributarie, si è tradotta in un aumento incontrollato del disavanzo pubblico - passato dai 16.500 miliardi del 1975 agli oltre 40.000 previsti per il 1979. Il finanziamento di un deficit così rapidamente accresciuto ha determinato da un lato un riacutizzarsi dell'inflazione, per via dell'elevata crescita monetaria, e dall'altro un rallentamento del tasso di sviluppo del reddito rispetto a quello potenziale, per via del calo degl'investimenti produttivi determinato dall'assorbimento del credito. Le preoccupazioni connesse a tale situazione hanno suggerito l'opportunità di mettere a punto un insieme organico di interventi. Le iniziative in tal senso si sono concretate prima nel "documento Pandolfi", e poi nel programma triennale 1979-81. L'interruzione anticipata della legislatura, nella prima metà del 1979, ha però sospeso l'attuazione del programma triennale, che costituirà uno dei problemi principali della politica economica per il governo che si formerà nella prossima legislatura.
Bibl.: Assemblea Costituente, resoconto stenografico della seduta dell'8 febbr. 1947: Dichiarazioni programmatiche per la presentazione del III governo De Gasperi; Camera dei Deputati, resoconto stenografico della seduta del 31 genn. 1950; Dichiarazioni programmatiche per la presentazione del VI governo De Gasperi; Discorsi sul programma di sviluppo economico, Roma 1956; L. Lama, in L'Unità, 3 apr. 1962; Conquiste del lavoro, 20-27 maggio 1962; Annuario Confederazione generale dell'industria italiana, 1963; F. Di Fenizio, La programmazione economica, Torino 1965; Mozione conclusiva del 5° Congresso nazionale della CISL, in La programmazione dello sviluppo economico e le politiche salariali della CISL, Roma 1966; Ministero del Bilancio, La programmazione in Italia, ivi 1967, voll. II, IV, V; Ministero del Bilancio, Progetto '80 - Rapporto preliminare al programma economico nazionale 1971-75, ivi 1969; Ministero del Bilancio, Documento programmatico preliminare. Elementi per l'impostazione del programma economico nazionale 1971-75, ivi 1971; Il programma triennale 1979-1981, in Rivista di politica economica, genn. 1979, p. 93 segg.
Programmazione regionale in italia. - L'esperienza della p. r. in Italia non riguarda soltanto l'attività svolta a livello - o da parte - delle regioni quali unità amministrative, ma anche quella relativa ad altri ambiti territoriali sub-nazionali e caratterizzati dalla compenetrazione, attuata in varia misura, degli aspetti economici e di quelli territoriali. A seconda del grado di tale compenetrazione, il territorio ha costituito in alcuni casi semplicemente l'ambito entro cui operare nel formulare il disegno di razionalizzazione nell'impiego di risorse strettamente economiche; in altri ha invece assunto il carattere di una delle risorse il cui impiego la p. r. tende a razionalizzare. Sul piano del metodo, è dato riconoscere maggiore affinità a esperienze di programmazione riferentesi ad ambiti regionali, provinciali o anche sub-provinciali, di quanto non sia possibile fare riguardo a tentativi di programmazione riferiti ad ambiti regionali, ma riguardanti soltanto uno degli aspetti, l'economico o il territoriale. Conseguentemente, solo formalmente potrebbe asserirsi che i primi tentativi di p. r. in Italia siano da identificare nei "Piani territoriali di coordinamento", promossi dal ministero dei Lavori Pubblici e la cui formulazione venne affidata a livello regionale ai Provveditorati alle opere pubbliche. Di fatto, solo in uno dei predetti piani, e cioè in quello della Campania, sono stati tenuti presenti in sede di formulazione del piano taluni obiettivi strategici di carattere economico, quali l'occupazione, gl'investimenti necessari per conseguirne i livelli programmati e la loro distribuzione territoriale. Parimenti, l'esperienza della programmazione dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno non può essere fatta rientrare tra i casi di p. r., anche se ha certamente esercitato un'influenza assai rilevante su quest'ultima. L'esperienza della programmazione dell'intervento straordinario assume un rilievo particolare, non solo per le dimensioni finanziarie, ma anche - e soprattutto - perché non ci si è limitati alla formulazione di un programma - il piano pluriennale - ma si è provveduto alla sua esecuzione mediante un apposito organo, la Cassa per il Mezzogiorno (v.). Il fatto che il piano degl'interventi nel Mezzogiorno superi l'ambito di una regione amministrativa non potrebbe costituire, come si è già detto, elemento determinante per escludere che si sia in presenza di un caso di p. regionale. È invece determinante il fatto che, pur essendosi per legge definito l'ambito entro cui l'intervento straordinario doveva effettuarsi, si è formulato un mero programma d'investimenti, tendente pertanto al razionale impiego delle risorse finanziarie stanziate più che all'integrale razionalizzazione dell'impiego delle risorse dell'intera area meridionale. E tuttavia, le origini dell'attività di p. r. in Italia risultano strettamente connesse con la politica meridionalista. Già alla fine degli anni Cinquanta, la Cassa per il Mezzogiorno aveva proceduto all'elaborazione di monografie regionali in cui, accanto all'esposizione dei programmi d'intervento in ciascuna regione, attuata al fine di promuoverne una più efficace organizzazione, si tentava di realizzare un'inventario delle risorse regionali. Parimenti, un legame con la politica d'intervento nel Mezzogiorno presentano le esperienze maturate in Sicilia e in Sardegna.
In Sicilia l'impulso a procedere a un'attività di p. r. fu fornito dalle esigenze di attuazione dell'intervento previsto dal Fondo di solidarietà nazionale - istituito con l'art. 38 dello Statuto speciale della regione - e successivamente dalla partecipazione regionale alla formulazione dei programmi dell'intervento straordinario, effettuata dal Comiiato dei ministri per il Mezzogiorno con il "concerto" della Regione. A parte alcuni tentativi di programmazione settoriale, una prima esperienza di programmazione globale si ebbe già nel 1956 con il "Piano Alessi". Si trattava, in sostanza, di una previsione programmatica dell'evoluzione delle più rilevanti variabili macroeconomiche, del tipo di quella effettuata a livello nazionale con il "Piano Vanoni". Successivamente, in armonia con quell'accentuarsi dell'interesse per la programmazione economica in Italia, che condusse all'elaborazione del primo programma economico nazionale, il governo regionale costituì, con d.P. 21 marzo 1964, n. 28, il "Comitato per il Piano di sviluppo economico e sociale della Regione Siciliana". A norma dell'art. 3 del decreto, lo schema di piano si doveva proporre l'obiettivo di promuovere l'ordinato sviluppo dell'attività economica pubblica e privata, allo scopo di eliminare gradualmente il divario tra la media dei redditi da lavoro in Sicilia e la media nazionale, di eliminare gli squilibri tra le varie zone territoriali e i settori produttivi siciliani, di conseguire la massima occupazione delle forze di lavoro e un generale miglioramento delle condizioni sociali delle popolazioni. Il decreto, inoltre, dava facoltà al Comitato di elaborare schemi di provvedimenti legislativi, da presentare all'Assessore per lo sviluppo economico, ai fini dell'attuazione del piano. I lavori del Comitato condussero all'elaborazione di un primo "Progetto di sviluppo economico e sociale della Regione Siciliana per il quinquennio 1966-70" nel 1965, cui fecero rapidamente seguito altri omonimi progetti (il "Piano Grimaldi" e il "Piano Mangione", la cui prima stesura è dell'inizio del 1966). In tutti i casi, si è in presenza di programmi che pongono l'accento - analogamente a quanto avveniva a livello nazionale - sugli obiettivi da raggiungere, più che sui mezzi. Da quest'ultimo punto di vista può notarsi che il Piano Mangione individuava nell'industria siderurgica l'attività strategica su cui fondare lo sviluppo dell'economia isolana e riteneva che dovesse darsi preminenza, sul piano delle relazioni con l'estero, ai legami con i paesi del Mediterraneo; mentre il Piano Grimaldi puntava sull'attività di esportazione, senza discriminare tra aree e tra industria e agricoltura e tendeva a una migliore integrazione tra settori con un'analisi basata sui tipi di operatori.
La programmazione in Sardegna trae origine dalle norme statutarie anche più direttamente del caso siciliano. A norma dell'art. 13 dello Statuto, "lo Stato, col concorso della Regione, dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell'isola". A tal fine, nel 1951, d'intesa con la Regione, il governo nazionale costituì una "Commissione economica di studio per la rinascita della Sardegna", che portò a termine i propri lavori nel 1958. L'anno successivo, mentre la Regione istituiva un apposito organo, l'Assessorato alla rinascita, il Comitato dei ministri per il Mezzogiorno dava incarico a un gruppo di lavoro di formulare un piano d'interventi e di predisporre il disegno degli strumenti legislativi. In base al rapporto del gruppo di lavoro, il governo presentò al Parlamento un disegno di legge, recante norme per un "Programma straordinario per favorire la rinascita economica e sociale dell'isola", che comportava lo stanziamento di una somma di 400 miliardi di lire per il periodo dal 1962-63 al 1974-75, e che assumeva gli obiettivi individuati dalla Commissione economica di studio. Il disegno di legge in parola venne approvato con l. 11 giugno 1962, n. 588, e l'esecuzione del piano venne delegata alla Regione. Una dettagliata descrizione dei caratteri e dell'evoluzione del Piano Rinascita non è possibile in questa sede. Del resto l'interesse di alcuni aspetti che all'epoca potevano apparire innovativi e significativi - come la suddivisione del territorio in "zone omogenee" - può attualmente considerarsi assai modesto. Sembra invece interessante notare che il Piano si è articolato in "programmi esecutivi" pluriennali e che la l. 588 e quella regionale 11 luglio 1962, n. 7, previdero un'organizzazione della programmazione abbastanza complessa, che affidava al Comitato dei ministri per il Mezzogiorno l'attività di coordinamento tra interventi ordinari dell'amministrazione statale, interventi straordinari della Cassa per il Mezzogiorno e interventi ex lege 588; mentre a livello locale l'Assessorato alla Rinascita era assistito da alcuni organi consultivi (i Comitati di zona, il Comitato di consulta sindacale e sul piano tecnico il Comitato di esperti e il Centro regionale di programmazione). Il Piano Rinascita, che è stato rifinanziato con uno stanziamento di 1000 miliardi di lire con la l. 24 giugno 1974, n. 268, ha subito nel tempo vicende analoghe a quelle dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno. In particolare, il graduale riconoscimento dei tempi e dei limiti di uno sviluppo prevalentemente imperniato sulle attività agricole, ha condotto a un sostanziale spostamento del fulcro degl'interventi verso il settore industriale. Inoltre, e anche qui va sottolineata l'analogia con le vicende dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, le difficoltà di coordinamento tra interventi da eseguirsi sui fondi propri del Piano Rinascita, interventi delle amministrazioni ordinarie dello stato e interventi della Cassa per il Mezzogiorno, hanno fortemente attenuato la portata globale della pianificazione regionale, il cui controllo ha finito in pratica con il restringersi all'ambito degl'interventi finanziati con il Piano Rinascita e di parte dell'attività regionale. Una delle più rilevanti conseguenze del difetto di coordinamento è stato - come del resto è avvenuto per l'intero Mezzogiorno - il mancato rispetto del principio dell'aggiuntività dell'azione straordinaria di sviluppo rispetto a quella ordinaria, che è andata relativamente indebolendosi.
Un altro filone di studi per la programmazione economica è collegato all'iniziativa del ministero dell'Industria, che nel 1960 promosse la costituzione in alcune regioni (Basilicata, Marche, Puglia, Toscana, Umbria) di "Comitati di studio per i piani di sviluppo regionale". Particolare rilevanza presenta il Piano Umbro, pubblicato nel 1963, sia per l'integrazione tra prospettive di sviluppo e strumentazione istituzionale, sia per la compenetrazione tra aspetti economici e aspetti territoriali. Contemporaneamente, altre esperienze di programmazione sono state effettuate in ambiti sub-regionali (per es. le province di Torino e Pesaro, le aree di sviluppo industriale nel Mezzogiorno, poi le province di Venezia e Taranto).
La successiva esperienza di p. r. ha inteso svolgere una funzione preparatoria rispetto all'istituzione delle Regioni ordinarie. Essa è stata realizzata su iniziativa del ministero del Bilancio, che con d. m. 22 sett. 1964 istituì i "Comitati Regionali per la Programmazione Economica", composti dai rappresentanti degli enti locali, degli organi periferici dell'amministrazione statale, delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro e di alcune categorie di lavoratori autonomi e da alcuni esperti. Successivi provvedimenti legislativi conferirono ai comitati competenze relative al coordinamento di alcuni interventi statali a livello regionale. Il maggiore limite dell'esperienza di p. r. effettuata con i suddetti comitati, è costituito dalle modalità secondo cui gli schemi di sviluppo economico sono stati elaborati. Questi, in sostanza, non hanno fatto che riprodurre e riproporre - su scala ridotta - le medesime modalità e i medesimi obiettivi del programma economico nazionale, senza l'apporto di alcun rilevante contributo, che la conoscenza della specifica problematica locale avrebbe dovuto consentire. Infatti l'obiettivo del programma economico nazionale di tendere all'eliminazione delle disparità interregionali di reddito, si è tradotto negli schemi regionali di sviluppo nell'obiettivo di tendere all'eliminazione dei divari di reddito tra le diverse parti del territorio regionale. Inoltre l'uniformità "metodologica" non ha raggiunto l'obiettivo di un'articolazione del programma nazionale in piani regionali compatibili.
L'istituzione delle Regioni ordinarie, avvenuta in un periodo di revisione critica dei metodi della programmazione e di probabile sopravvalutazione dei limiti che l'attività di programmazione incontra nell'attuale organizzazione istituzionale, ha invece dato luogo a un'assai più ricca sperimentazione. I programmi regionali predisposti da molte Regioni già nel corso del primo quinquennio della loro esistenza seguono approcci diversi, ma nel complesso riposano più largamente sul riconoscimento dei connotati specifici delle varie realtà regionali. E tuttavia, nonostante le disposizioni statutarie in tema di programmazione e la recente normativa sui bilanci regionali, che ha introdotto i bilanci pluriennali come strumenti di programmazione, ancora non può dirsi che alcuna regione abbia effettivamente adottato il metodo di sottoporre le proprie decisioni al vaglio della compatibilità con gli obiettivi e la strategia del programma. Né, per la mancata formulazione di programmi da parte di tutte le Regioni ordinarie e per la carenza di indicazioni progettuali, ha potuto sinora trovare applicazione la norma dell'art. 9 della legge finanziaria, relativa al finanziamento dei progetti regionali di sviluppo.
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