Programmazione economica e politica industriale
La programmazione è un’opzione che si presenta ogniqualvolta sia necessario prendere delle decisioni, più o meno razionali, entro una sequenza di eventi tra loro concatenati o che si presumono tali. Il processo – in estrema sintesi – si svolge in tre fasi successive: vengono vagliate tutte le opportunità che si hanno di fronte; si stimano le possibili conseguenze derivanti dalle azioni che possono essere prese; si valuta, infine, quale serie di conseguenze sia da ritenersi maggiormente conveniente (Banfield 1959). Ovviamente non sarà possibile per qualsiasi decisore vagliare tutte le possibilità che gli si offrono e tutte le conseguenze che dalle sue azioni potrebbero derivare: si è quindi entro un contesto di razionalità limitata (Simon 1982-1990).
La teoria economica ha cominciato a occuparsi di programmazione e di previsione fino dalla fine del 18° sec., quando sono comparse le prime raccolte di dati sulla domanda di prodotti agricoli o sui budget familiari, ma l’uso generalizzato della pianificazione delle attività economiche è indubbiamente un fenomeno legato ai processi di industrializzazione e all’accelerazione dei processi economici indotti dalla realizzazione di una moderna società industriale.
Fu così che, a partire dalla fine del 19° sec., la programmazione entrò a far parte della quotidianità sia a livello microeconomico, specialmente nella gestione delle imprese manifatturiere, sia a livello macroeconomico, nella definizione di coerenti politiche economiche e industriali. In entrambi i casi, un ruolo decisivo nella sua diffusione lo giocarono: l’aumentata complessità tecnologica e organizzativa dei processi produttivi e della società, che rese necessarie forme di controllo molto più specializzate che nel passato; la crescente capacità delle istituzioni private, così come di quelle pubbliche, di produrre una mole ingente di dati quantitativi sulla propria attività, utili per istituire proprio quei controlli cui si è appena fatto riferimento; infine, la matematizzazione delle scienze sociali, quel fenomeno di progressivo avvicinamento – sotto il profilo metodologico – di queste ultime alle scienze fisiche, che fu avviato all’inizio del Novecento.
I primi studi di quella che si potrebbe definire economia applicata furono strettamente legati alle trasformazioni socioeconomiche indotte dalla rivoluzione industriale; ma fu soprattutto con i rivolgimenti sociali della prima metà dell’Ottocento, e in particolare dopo il 1848, che le raccolte sistematiche di dati sulle condizioni di vita delle classi lavoratrici si andarono diffondendo un po’ in tutta l’Europa: si registrarono così estese indagini sulla povertà in Sassonia, in Prussia e in Belgio.
L’altro e parallelo campo di applicazione della statistica all’economia fu lo studio della domanda. Alla metà dell’Ottocento, per es., Ernst Engel avviò uno studio per mettere in relazione l’andamento dei raccolti con la serie storica del prezzo del grano. Nei decenni successivi, gli sviluppi della statistica nel campo della correlazione favorirono l’approfondimento degli studi sulla domanda tra i quali, in riferimento all’Italia, è possibile ricordare l’indagine condotta nel 1907 da Rodolfo Benini e pubblicata sul «Giornale degli economisti» (1907, 35, pp. 1053-63) sulla domanda di caffè che faceva uso dei dati sul consumo di questo genere alimentare registrati tra il 1880 e il 1906, e la di poco successiva rassegna di Corrado Gini sulla determinazione empirica delle funzioni della domanda (Prezzi e consumi, «Giornale degli economisti», 1910, 40, pp. 99-114 e 235-49).
Negli anni Novanta del 19° sec. John Neville Keynes ancora sosteneva che la funzione della statistica entro la teoria economica fosse duplice: essa serviva per suggerire leggi empiriche che avrebbero potuto suscitare la ricerca di conseguenti spiegazioni di tipo deduttivo o, molto più semplicemente, aveva il compito di supportare il ragionamento deduttivo, permettendo un controllo dei suoi risultati attraverso la prova dei fatti (The scope and method of political economy, 1891). Fu negli anni tra le due guerre mondiali che questi sviluppi giunsero a piena maturazione.
La rapidità con cui il ciclo economico si invertì e la capacità di contagio manifestata dalla crisi finanziaria suscitò grande impressione tra gli economisti formatisi nella prima metà del Novecento. In breve volgere di tempo, essi si convinsero del fatto che il controllo del ciclo economico fosse l’oggetto peculiare dell’azione governativa e che il loro compito fosse quello di sostenere quest’azione attraverso lo studio sistematico della congiuntura. I problemi sociali generati dalla crisi economica, primo tra tutti quello della disoccupazione, avrebbero potuto trovare soluzione in sede politica solo se si fosse stati in grado di porre rimedio agli squilibri generati dallo sviluppo capitalistico.
Era questo l’obiettivo che muoveva economisti come Ragnar Frisch, Irving Fisher e Charles Roos, quando nel 1930 decisero di indire una conferenza internazionale per promuovere gli studi di economia applicata. Dalla riunione, presieduta da Joseph A. Schumpeter, nacque la Econometric society che, nel 1933, avviò la pubblicazione della rivista «Econometrica», con lo scopo di rendere pubblici gli avanzamenti nel campo dell’economia applicata, ma anche con il più ambizioso obiettivo di fare dell’econometria uno strumento per favorire un approccio matematico all’economia teoretica. Fu così che sul finire degli anni Trenta si cominciarono a progettare i primi sistemi di equazioni in grado di rappresentare il funzionamento delle singole economie nazionali, utili per comprenderne la dinamica sul lungo periodo.
Nel corso degli anni, parallelamente con lo sviluppo dei primi modelli meccanici per l’interpretazione del susseguirsi dei cicli economici, l’analisi delle serie storiche andò perfezionandosi, venendo a comprendere tra i fenomeni considerati non solo gli andamenti ciclici regolari, ma anche gli shock improvvisi e casuali, grazie soprattutto al lavoro dell’economista russo Eugen Slutsky e di Frisch (Morgan 1990).
Nel 1935 fu messo a punto il primo modello dinamico volto a dare conto del funzionamento di un’intera economia nazionale: quello sviluppato da Jan Tinbergen per la Dutch economic association. L’economista olandese, prendendo in prestito il principale suggerimento di Frisch, l’idea cioè che un modello di business cycles dovesse comprendere sia il meccanismo economico, sia gli influssi derivanti dagli shock esogeni, giunse a formulare un modello il cui principale pregio, in termini generali, era non solo quello di descrivere l’economia nazionale olandese, ma anche di fornire uno strumento utile per prevedere gli influssi che su di essa avrebbero avuto le eventuali politiche economiche.
Di lì a poco Tinbergen ebbe l’occasione di testare il metodo da lui stesso messo a punto su più ampia scala quando, nel 1936, la Lega delle nazioni gli commissionò uno studio volto a verificare le teorie dei business cycles messe a punto fino a quel momento.
Fu proprio sulla base di questi studi che il tema della rifondazione matematica della scienza economica si andò coniugando con il tema della programmazione: predisporre un modello econometrico in grado di spiegare le correlazioni esistenti entro un’economia nazionale significava infatti fornire a coloro che avrebbero dovuto prendere decisioni di politica economica informazioni circa le leve su cui si sarebbe potuto agire per influenzare le naturali oscillazioni congiunturali o per rispondere a particolari situazioni di tensione sui mercati; così come fornire strumenti di misurazione delle conseguenze quantitative che sarebbero derivate da eventuali interventi macroeconomici.
L’azione del governo si sarebbe potuta manifestare attraverso meccanismi di guida indiretti – per es., gli interventi di politica monetaria e fiscale proposti da John Maynard Keynes per sostenere il ciclo economico – ma anche, come ebbe modo di sostenere già negli anni Trenta Frisch sulle pagine del quotidiano norvegese «Tidens Tegn», attraverso una forma di programmazione moderata comprendente non solo la politica monetaria, ma anche politiche creditizie e commerciali, in grado di «guidare l’economia fuori dal caos presente, attraverso forme di pianificazione sociale» (R. Frisch, Plan or chaos, 5 novembre 1931).
In Italia la modellizzazione e la programmazione economica fecero il loro ingresso nel dibattito politico-economico nel secondo dopoguerra, ma una certa impostazione di tipo tecnocratico aveva trovato spazio già negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale, durante il primo quindicennio del Novecento, che aveva rappresentato una delle fasi di più intenso sviluppo del Paese dopo la sua unificazione politica (Bonelli 1978).
Il riferimento obbligato in questo caso è Francesco Saverio Nitti, intorno al quale si formò gran parte dell’élite destinata a diventare il personale dirigente degli enti pubblici nel periodo di tempo compreso tra le due guerre mondiali. Convinzione profonda del politico lucano era che l’intervento dello Stato nell’economia fosse un fattore determinante per favorire il progresso economico e sociale italiano. Partendo dal presupposto che la modernizzazione del Paese sarebbe passata per la sua industrializzazione, Nitti – che nel marzo del 1911 venne chiamato a dirigere il Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio nel IV esecutivo presieduto da Giovanni Giolitti – si pose concretamente il problema di provvedere i mezzi necessari affinché questo obiettivo potesse essere conseguito. In particolare, durante questa prima esperienza di governo, in collaborazione con il suo segretario particolare, Alberto Beneduce, si prodigò perché venisse approvata la riforma del settore delle assicurazioni del ramo vita, mediante l’introduzione del monopolio statale sul comparto, da esercitarsi attraverso l’Istituto nazionale delle assicurazioni (INA; cfr. Franzinelli, Magnani 2009).
Scopo precipuo di Nitti e Beneduce era quello di evitare che una parte rilevante del risparmio nazionale prendesse la via dell’estero, attraverso le numerose compagnie assicurative straniere operanti sul territorio nazionale e, al contempo, di orientare il risparmio degli italiani verso investimenti di lungo termine, che i risparmiatori stessi sarebbero stati altrimenti poco inclini a realizzare. In questo modo si sarebbe evitata una fuoriuscita di risorse dal Paese e, attraverso l’intervento pubblico, se ne sarebbe garantito un impiego in chiave industrialista, volto tra l’altro a ridimensionare la funzione di intermediazione fino a quel momento esercitata prevalentemente dalle cosiddette banche miste (Conti 1999).
L’INA fu il primo di una serie di enti pubblici, dotati di struttura privatistica, che verranno creati nel corso del quindicennio successivo per favorire un uso produttivistico del risparmio privato e sostenere il sistema economico nazionale e la politica dei governi. Nel 1914 Beneduce collaborò con Bonaldo Stringher, l’allora governatore della Banca d’Italia, alla creazione del Consorzio per sovvenzioni sui valori industriali (CSVI), cui fecero seguito altri istituti speciali: il Consorzio di credito per le opere pubbliche (CREDIOP), costituito nel 1919, poco dopo l’insediamento del primo esecutivo Nitti, dalla Cassa depositi e prestiti, dall’INA e dalla Cassa per le assicurazioni sociali; l’Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità (ICIPU), cui venne data vita nel 1924 per finanziare le public utilities; l’Istituto di liquidazioni costituito due anni più tardi per venire incontro alle esigenze delle imprese in crisi; l’Istituto di credito navale, costituito nel 1928 per sostenere l’industria cantieristica; e, infine, l’Istituto mobiliare italiano (IMI), creato nel 1931 nel tentativo di arginare le difficoltà delle banche miste che, sull’onda della crisi internazionale che aveva preso corpo a Wall Street due anni prima, si trovavano nella necessità di smobilizzare gran parte delle proprie partecipazioni (Piluso 1999; Lombardo, Zamagni 2009).
Non si poteva certamente parlare in quegli anni di una programmazione vera e propria, almeno non nei termini in cui questa sarebbe stata interpretata dai fondatori della moderna econometria nei due decenni successivi, ma indubbiamente la costituzione degli istituti prima menzionati era una scelta che andava nella direzione di imprimere allo sviluppo economico nazionale un coordinamento centrale o, quanto meno, di provvedere attraverso l’intervento pubblico alla raccolta delle risorse finanziarie necessarie perché un determinato sviluppo potesse avere luogo.
Le scelte di quegli anni portarono alla creazione di alcuni strumenti straordinari di intervento nella vita economica italiana che sopravviveranno all’epoca in cui furono istituiti e che diventeranno uno dei principali sostegni della programmazione postbellica. L’intervento riformatore delle burocrazie ‘tecniche’ si veniva d’altro canto a inserire in un tentativo più generale di ammodernamento dell’amministrazione pubblica, che faceva fronte alle difficoltà poste dalla sua realizzazione creando un ponte diretto tra il decisore politico e le tecnocrazie: gli istituti di credito speciale, le aziende autonome e, infine, gli enti pubblici economici con responsabilità diretta sulla gestione delle imprese industriali (Melis 1985). Quest’ultima tipologia di istituti rappresentò a un tempo l’esito finale del tentativo di riforma della pubblica amministrazione avviato nella seconda metà degli anni Dieci e la prima affermazione di un’inedita tendenza a organizzare il governo dell’economia attraverso istituzioni esterne all’amministrazione ordinaria dello Stato (Cassese 1976 e 1980).
L’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), sorto nel pieno della crisi economica degli anni Trenta con lo scopo preciso di accollarsi le partecipazioni industriali delle banche miste e di rimetterle sul mercato, diventò un ente permanente nel 1937. Fu lo stesso Benito Mussolini, nel marzo del 1936, in occasione della seconda assemblea nazionale delle corporazioni, ad affermare la necessità di un ‘piano regolatore’ per l’economia italiana con lo scopo, retorico, di rispondere alla crisi internazionale e raggiungere gli obiettivi della ‘rivoluzione fascista’ e quello, molto più reale e realistico, di rendere autonomo dalle importazioni il settore della difesa nazionale, attraverso un processo di allargamento della base produttiva (Farese 2009).
È in questo quadro che il ‘piano regolatore’ divenne, di fatto, una programmazione dell’autarchia, in direzione di un’economia bellica, ed è per questo che bisognerà aspettare il secondo dopoguerra per tentare di mettere in pratica più moderni sistemi di programmazione, sulle radici del più tradizionale nazionalismo di matrice radicale.
L’esigenza di programmare l’economia attraverso l’uso di moderne tecniche statistiche trasse alimento dalle prime esperienze di economia pianificata, come quelle di stampo sovietico, oppure le agenzie per lo sviluppo regionale messe a punto negli anni del New deal rooseveltiano. Il dibattito giunse però alla sua piena maturità solo nel secondo dopoguerra quando si presentò il problema di ricostruire le economie europee e gli Stati Uniti scelsero la strada dell’impegno internazionale, avviando nel 1948 il più grande piano di distribuzione di aiuti economici che fosse stato fino a quel momento realizzato: il Piano Marshall (Spagnolo 2001; Fauri 2010). Le nazioni che avessero deciso di aderire al programma di aiuti avrebbero dovuto presentare dinanzi all’Organizzazione europea per la cooperazione economica – l’organismo internazionale creato nel 1948 a Parigi per coordinare l’assegnazione dei finanziamenti – un programma di utilizzazione degli aiuti che avrebbe concorso alla formazione di un piano economico a lungo termine di livello continentale.
Processi di governo programmato dell’economia, sostenuti da ampie indagini sui meccanismi dell’economia nazionale, dovettero essere avviati anche in Italia, favoriti da tre elementi: il bisogno di conoscere l’effettivo stato dell’economia nazionale uscita dalla guerra, la necessità di partecipare ai programmi internazionali di distribuzione degli aiuti economici e quella preesistente cultura tecnocratica, che si era andata sviluppando nel corso degli anni Venti e Trenta e che guardava ora alla possibilità di programmare la ricostruzione economica come allo strumento privilegiato per porre rimedio ai guasti causati dalla dittatura fascista e dalle distruzioni belliche.
Pochi mesi dopo la fine del conflitto i lavori della Commissione economica del Ministero per la Costituente suscitarono un ampio dibattito sui temi della ricostruzione e della riconversione industriale, entro il quale un ruolo importante assunse immediatamente il nodo problematico rappresentato dal quesito circa i compiti dello Stato nella vita economica (Barucci 1978).
L’esito pratico di quel dibattito fu decisamente scarso: esso servì più che altro a mostrare le profonde divergenze che caratterizzavano il ceto dirigente italiano, diviso tra coloro che sostenevano un liberismo per certi versi ingenuo, che avrebbe voluto lasciare immutata la struttura economica del Paese, e quanti invece si facevano propugnatori di una sua modernizzazione in chiave industriale. Tuttavia, la pratica necessità di fornire un quadro dell’economia italiana alle istituzioni incaricate di distribuire gli aiuti provenienti dalla United nations relief and rehabilitation administration (UNRRA) e, dopo il 1948, dalla European cooperation administration (ECA) offrì a coloro che si erano fatti sostenitori della necessità di una qualche forma di programmazione economica l’opportunità di mettere in atto i propri propositi.
Non si trattava neanche in questo caso di una vera e propria pianificazione; era più che altro l’avvio di una sistematica raccolta di dati necessaria per poter giustificare le richieste di aiuto economico, fornendo previsioni di massima degli sviluppi settoriali dell’economia italiana. Ciononostante, presentare dettagliate indagini sul tessuto produttivo italiano e proporne la riorganizzazione attraverso l’assegnazione selettiva degli aiuti internazionali significava, nell’ottica dei dirigenti pubblici incaricati di redarre i piani di primo aiuto (un ruolo di primo piano fu giocato in questa occasione dall’Ufficio studi dell’IRI, allora diretto da Pasquale Saraceno), un’opportunità per ridefinire l’orientamento economico dell’intero Paese, modernizzandone l’industria e favorendo al contempo la diffusione di più moderne pratiche manageriali, secondo una visione dello sviluppo che era condivisa da una buona parte del ceto dirigente industriale operante all’interno delle grandi imprese italiane (Maione 1986).
Stretta tra l’aspra opposizione della Confindustria e la non meno severa critica sindacale, l’azione dell’Ufficio studi dell’IRI e quella dei comitati industriali rimasero tuttavia confinate entro l’ambito del Piano Marshall e della distribuzione degli aiuti. In breve tempo l’opposizione contro i propositi di riforma ebbe la meglio: i progetti pianificatori furono messi da parte e gran parte di coloro che erano stati coinvolti nei comitati sopra menzionati abbandonò, dopo pochi anni, i propri impegni pubblici per tornare a lavorare nell’ambito delle imprese di provenienza, private e non (Daneo 1975).
Prescindendo dagli esiti dei progetti riformisti di quel periodo, fu proprio nell’ambito di questa sorta di ‘ritirata strategica’ che le tecniche econometriche di cui si è parlato cominciarono ad avere rilevanza anche nel nostro Paese: a livello di impresa, così come a livello nazionale. In Italia, infatti, la diffusione e lo sviluppo dell’economia applicata, prima ancora di trovare un’ufficializzazione a livello accademico (fatto che avverrà con un certo ritardo rispetto ad altri Paesi; cfr. Rey 2004), furono fondamentalmente legati a due esigenze pratiche che iniziarono a farsi sentire intorno alla metà degli anni Cinquanta: quella manifestata dalle grandi imprese industriali di conoscere meglio i mercati entro cui operavano e quella, più prettamente politica, di porre un rimedio ai forti squilibri che il processo di crescita economica portava con sé. Un’esigenza quest’ultima su cui, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta e, soprattutto, dai primi anni Sessanta, sarà possibile costruire inedite alleanze politiche.
In entrambi i casi centrale rimase il tema della programmazione economica ed è forse per questo che tra i due piani si sviluppò ben presto un fecondo dialogo. Dialogo fatto di interscambi di esperienze, ma anche di coinvolgimento diretto dei protagonisti nell’uno come nell’altro ambito d’azione.
A livello di politica economica, un ruolo di primo piano nella diffusione dell’economia applicata lo giocò il neomeridionalismo, per i rappresentanti del quale l’indagine statistica rivestì, fin dagli esordi, un’importanza fondamentale. Nel dicembre del 1946, a Roma, Rodolfo Morandi – uno dei maggiori esponenti del Partito socialista, a quel tempo ministro dell’Industria e del Commercio – assieme ad alcuni alti dirigenti dell’IRI, tra cui Saraceno, e ai rappresentanti delle maggiori istituzioni economiche e finanziarie del Paese, fondò l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (SVIMEZ). In estrema sintesi, scopo dell’associazione era quello di studiare e analizzare le condizioni economiche delle regioni meridionali e di redarre piani praticabili per la loro modernizzazione, nella convinzione che esse potessero colmare la distanza che le separava dal più sviluppato Centro-Nord della penisola attraverso un intenso processo di industrializzazione (Nuovo meridionalismo e intervento straordinario, 1988).
Nel corso degli ultimi anni Quaranta e poi negli anni Cinquanta la SVIMEZ monitorò costantemente l’andamento economico del Mezzogiorno, suggerendo interventi privati e pubblici ed esercitando pressioni sui governi nazionali al fine di rimuovere possibili ostacoli a questi stessi interventi. Uno dei suoi principali contributi nella prima metà degli anni Cinquanta fu indubbiamente la stesura del cosiddetto Piano Vanoni, lo Schema decennale di sviluppo del reddito e dell’occupazione, presentato al Parlamento italiano dall’allora ministro delle Finanze, Ezio Vanoni, nel gennaio del 1955: poco meno di un decennio dopo la pubblicazione dei piani di importazione postbellici, la programmazione tornava con questo documento al centro del dibattito politico.
In una situazione politica radicalmente differente, caratterizzata dalla crisi dell’alleanza centrista che aveva governato il Paese nel decennio precedente e dalla ridefinizione degli equilibri interni alla Democrazia cristiana, e in un quadro socioeconomico profondamente trasformato – l’Italia era infatti in quegli anni alla vigilia del suo ‘miracolo economico’ – la programmazione sembrò nuovamente un rimedio agli squilibri che la crescita economica postbellica aveva contribuito ad acuire. L’approccio al problema era però completamente nuovo:
lo Schema, infatti, non [era] tanto preoccupato di dare certi sviluppi ai settori produttivi giudicati di importanza strategica, quanto di identificare il meccanismo operante nel sistema economico nazionale e, su tale base, individuare le azioni da svolgere per ottenere che tale meccanismo, nel suo procedere, [portasse] alla soluzione dei problemi che nel programma [erano] posti (Saraceno 1966, p. 30).
E cioè: la completa utilizzazione dell’offerta di manodopera, la riduzione del divario tra le regioni meridionali e quelle settentrionali e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti.
Nonostante l’eco suscitata dal documento, questo non trovò negli anni immediatamente seguenti una pratica applicazione, rimanendo sullo sfondo del dibattito di politica economica, come una linea guida cui i governi si sarebbero dovuti conformare, senza tuttavia fornire loro veri e propri poteri di indirizzo (Bottiglieri 1984). Il suo più sicuro successo fu quello di rivitalizzare il dibattito in merito alla programmazione, dibattito che però, per avere qualche ricaduta pratica, avrebbe dovuto attendere un ulteriore cambiamento del quadro politico.
Nel 1962 Ugo La Malfa, ministro del Bilancio nel primo governo di centro-sinistra – una coalizione composta dalla Democrazia cristiana, dal Partito repubblicano e dal Partito socialdemocratico, con l’appoggio esterno del Partito socialista – fece seguire il suo rapporto annuale sulla situazione economica del Paese da una Nota aggiuntiva sui problemi e le prospettive dello sviluppo economico e della programmazione. In questo documento La Malfa, riconsiderando l’evoluzione dell’economia italiana dall’inizio degli anni Cinquanta, giungeva alla conclusione che l’integrazione del Paese nei mercati internazionali avesse sì permesso il ‘miracolo economico’, ma avesse anche reso più marcati i tradizionali dualismi dell’economia italiana: innanzitutto aveva acuito i forti divari di produttività esistenti tra i vari settori produttivi e poi quello tra le regioni settentrionali e quelle meridionali.
Secondo l’analisi del ministro, l’intervento straordinario degli anni precedenti, realizzato attraverso le partecipazioni statali o per mezzo di istituzioni quali la Cassa per il Mezzogiorno, non era stato sufficiente a porre rimedio ai predetti dualismi; proprio in considerazione di ciò, La Malfa proponeva l’istituzione di un sistema di programmazione economica nazionale al fine di risolvere questi squilibri e indicare la via di un più razionale impiego del reddito pubblico, migliorando in questo modo la qualità di vita dei cittadini italiani. Se il Piano Vanoni aveva insistito sulla crescita del reddito, dei consumi, degli investimenti e del numero degli occupati, la nota di La Malfa aggiungeva a questi temi anche quello dell’analisi qualitativa dello sviluppo che attraverso questi strumenti si sarebbe potuto indurre.
Per tradurre il contenuto della Nota in un’azione politica concreta, pochi mesi dopo la presentazione del suo rapporto annuale di fronte al Parlamento italiano, il ministro del Bilancio costituì la Commissione nazionale per la programmazione economica (CNPE), una sede istituzionale che avrebbe permesso all’esecutivo, a esperti tecnici da questo nominati, ai rappresentanti dei lavoratori, a quelli degli industriali e alle altre principali istituzioni economiche del Paese di confrontarsi sui temi della programmazione e di discutere di un possibile piano a lungo termine per l’economia italiana. La commissione era presieduta dallo stesso ministro del Bilancio, mentre fu significativamente chiamato a svolgere la funzione di vicepresidente, con compiti esecutivi, il già menzionato Saraceno.
Come indicato dalla Nota di La Malfa, la commissione ignorò quasi del tutto le problematiche dei singoli settori produttivi e dedicò scarsa attenzione a quei meccanismi economici operanti nel Paese che erano stati centro della riflessione che aveva portato alla stesura del Piano Vanoni. Il rapporto finale della commissione, il cosiddetto Rapporto Saraceno, presentato nel 1963, si concentrò sul tema della crescita economica, ma anche – e in special modo – sugli aspetti qualitativi di questa, sui temi della scuola, della cultura, della sicurezza sociale, della sanità, dei servizi pubblici e delle attività ricreative, che vennero analizzati tutti quali elementi di un «ordinato progresso della società nazionale» (Saraceno 1966, p. 30).
A distanza di più di un quindicennio dai piani di aiuto postbellici, in concomitanza con la formazione del primo governo di centro-sinistra, un’alleanza politica i cui due principali capisaldi erano appunto la programmazione economica e la nazionalizzazione dell’industria elettrica (realizzata quest’ultima nel corso del 1962), sembrava che i propositi tecnocratici di riforma programmata del Paese, che nel corso degli anni Cinquanta non avevano trovato realizzazione, potessero finalmente avere successo.
Pareva infatti possibile superare una volta per tutte le strettoie di quella programmazione indicativa che nel corso degli anni Cinquanta aveva indubbiamente rappresentato un momento di innovazione dell’azione economica dei governi, ma i cui risultati si erano rivelati alquanto scarsi. In altre parole, sembrava finalmente plausibile una programmazione strutturale, in grado cioè di indicare un preciso piano di riforme, tale da modificare la struttura economica del Paese (Di Fenizio 1965; Lombardini 1967). Tuttavia, nonostante il lungo periodo di gestazione, il progetto fu caratterizzato da alcune debolezze intrinseche che ne resero gli esiti incerti e controversi.
Già nell’ambito della CNPE le proposte degli ‘esperti’ faticarono a trovare appoggio tra le parti sociali: da parte industriale perché, dopo l’esito sfavorevole della battaglia contro la nazionalizzazione dell’energia elettrica, si temeva che la programmazione si tramutasse in un’incontrollabile ingerenza politico sulla sfera economica; da parte sindacale perché, per converso, similmente a quanto era avvenuto nel dopoguerra, si paventava la perdita di autonomia del sindacato in favore di un avversato progetto neocapitalistico o al più di un tiepido progetto riformista (Carabba 1977; Berta 2001).
La scarsa presa sul reale del Rapporto Saraceno, conseguenza diretta del difficile dibattito politico avviato in seno alla commissione, fu al centro di quella sorta di ‘contro relazione’ intitolata Idee per la programmazione che Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini presentarono nel corso del 1963, nel tentativo di suggerire alcune misure pratiche che potessero promuovere l’avvio della programmazione economica. Tuttavia, il Parlamento impiegò circa quattro anni per giungere all’approvazione del primo piano nazionale a lungo termine per gli anni 1965-1969.
Durante i primi mesi del 1964 il nuovo ministro del Bilancio, il socialista Antonio Giolitti, incaricò l’Ufficio del programma – un ufficio tecnico dello stesso Ministero, che fin dal 1963 era stato posto sotto la supervisione di Giorgio Ruffolo – di redarre un piano quinquennale che fu poi presentato alla CNPE durante l’estate di quello stesso anno. Nel frattempo, all’interno della coalizione di governo si sviluppò un intenso dibattito sul contenuto della politica riformista, fortemente influenzato sia dall’arretramento della Democrazia cristiana alle elezioni politiche del 1963, sia dal peggioramento della congiuntura economica, determinato dalla fine della tregua salariale che aveva caratterizzato gli anni del ‘miracolo economico’, dalla rapida crescita della domanda e dal conseguente disequilibrio della bilancia dei pagamenti che si era venuto a determinare (Ciocca 2007).
Le tensioni politiche ed economiche portarono alla riformulazione del piano e alla sua sostituzione con una versione più moderata, specialmente sul fronte della programmazione urbana e industriale, e al continuo rinvio della sua approvazione: il dibattito parlamentare sul piano cominciò infatti nel giugno del 1965 e si concluse definitivamente solo nel luglio del 1967, con l’aggiunta di una nota di aggiornamento che faceva slittare il quadriennio di riferimento agli anni 1966-1970. Di fatto, il piano fu trasformato in una sorta di ‘modello di sviluppo’, che si poneva l’obiettivo di raggiungere il pieno impiego, di espandere gli usi sociali del reddito nazionale e di favorire l’industrializzazione delle regioni meridionali, ma che aveva però legami molto più laschi con le contemporanee politiche economiche.
Tra le culture della programmazione e il progetto politico di centro-sinistra si realizzò, di fatto, una saldatura solo parziale che indebolì la prassi programmatoria stessa e la rese facilmente vulnerabile sia alle difficoltà congiunturali e ai vincoli che queste posero nel corso degli anni, sia allo scontro politico che di fatto portò prima a una riduzione della portata del progetto e poi al suo definitivo accantonamento sotto i colpi della crisi economica, del conflitto sociale e di un uso sempre più politico dell’investimento pubblico (Lavista 2010).
I contrasti politici giocarono un peso notevole sulla capacità operativa degli organismi preposti alla programmazione che di fatto videro la propria azione ridotta a un difficile e macchinoso processo di coordinamento interministeriale. L’esempio più clamoroso, per quello che attiene la politica industriale, fu forse quello del cosiddetto fondo unico per gli incentivi previsto dai programmi economici nazionali; la mancata realizzazione di questo strumento lasciò di fatto il Ministero per il Bilancio privo di un controllo diretto sulle agevolazioni per l’industria, affidando il processo di coordinamento delle sovvenzioni alle sole capacità di negoziazione del neocostituito Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE). In questo modo gli uffici della programmazione, che avrebbero dovuto essere il cuore del governo economico, si trovarono molto presto a operare con scarse competenze dirette (Amato 1976; Cassese 1980).
Il mancato governo dei flussi finanziari e lo scarso accentramento decisionale impedirono la formulazione di una chiara politica industriale, favorendo l’approvazione di finanziamenti a pioggia, non inquadrati in un organico intervento programmato e, allo stesso tempo, il sempre più frequente utilizzo politico delle risorse pubbliche, con notevoli riflessi negativi sui conti dello Stato (Le leggi della politica industriale in Italia, 1986; Prodi, De Giovanni 1990; De Nardis, Traù 2005).
Alla fine di quel decennio non sembrò quindi possibile continuare a pensare a meccanismi di programmazione simili a quelli che erano stati messi a punto negli anni del centro-sinistra. Il quadro economico era d’altro canto enormemente mutato: un’elevata instabilità aveva preso a caratterizzarlo fin dalla dichiarazione di inconvertibilità del dollaro del 1971, mentre il meccanismo di sviluppo che fino al decennio precedente aveva garantito livelli sostenuti di crescita sembrava ormai definitivamente messo in crisi dagli shock petroliferi. I modelli di programmazione su cui ci si era in precedenza appoggiati sembravano quindi poco adatti a governare un quadro congiunturale in costante fluttuazione. Si iniziarono a studiare nuovi strumenti che potessero avere più immediati effetti anticiclici, riducendo l’orizzonte temporale della pianificazione. La programmazione di lungo periodo uscì dal dibattito politico-economico senza che, di fatto, i suoi propugnatori fossero riusciti a incidere in maniera sostanziale sul meccanismo di governo dell’economia. Certo, una qualche cultura della programmazione fu fatta propria dalle amministrazioni centrali: si pensi, per es., all’utilizzo che si prese a fare dei documenti di programmazione economico-finanziaria, ma non certo nel senso auspicato dai programmatori. La crisi degli anni Settanta e la fase di ristrutturazione del decennio successivo posero dunque termine a quello che rappresentò forse l’ultimo tentativo di pensare lo sviluppo del Paese in una prospettiva unitaria: una trasformazione economica che voleva anche essere una modernizzazione del tessuto sociale e una democratizzazione dello sviluppo.
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