Progettazione
di Renato De Fusco
Progettazione
sommario 1. Introduzione. 2. Definizione. 3. Aspetti linguistici della progettazione. 4. Progettazione e architettura moderna. 5. La progettazione scientifica. 6. Storia e progettazione. a) La presenza costante della storia. b)Il carattere d'individualità. c) La causalità. d) La selettività. e) Processo e sistema. f) La critica operativa. □ Bibliografia.
1. Introduzione
La progettazione in senso lato è un'attività che precede (o dovrebbe) ogni azione umana sia individuale, sia soprattutto collettiva. Si parla di ‛progetto di legge', di ‛piano o progetto economico', di ‛progetto di piano regolatore urbanistico', di ‛progetto architettonico', di ‛progetto meccanico' e così via. Ma poiché ogni volta il termine progetto definisce modalità proprie a ciascun campo d'applicazione, per cercare di approfondire il nostro discorso dobbiamo limitarci a un solo settore e indicarlo fin dalla presente introduzione. Diremo allora che in questa sede ci occuperemo della progettazione di un campo specifico, per quanto vasto, che va dalle arti visive al disegno industriale, dall'architettura all'urbanistica, sottolineando che lo stesso uso semantico del termine progettazione lo rende particolarmente pertinente al campo prescelto. D'altro canto non ci soffermeremo oltre il necessario sugli aspetti spiccatamente tecnici della progettazione, ma anzi allargheremo continuamente i limiti disciplinari al fine di cogliere la maggiore varietà e complessità del tema in esame. Per darne una prima idea, cominciamo col ricordare che in filosofia, presso gli autori esistenzialisti, il termine ‛progetto' indica tanto l'anticipazione di ogni possibilità fattuale quanto il modo d'essere e d'agire dell'uomo che fa ricorso a tali possibilità; ma, come osserva Heidegger in Sein und Zeit, ogni progettazione, in quanto anticipa possibilità che di fatto sono tali, ricade sul fatto stesso e non procede al di là; e altrove (Vom Wesen des Grundes): il progetto del mondo in cui propriamente consiste l'esistenza umana è anticipatamente dominato dallo stato di fatto che esso cerca di trascendere e perciò finisce per ridursi e appiattirsi a questo stato di fatto.
Accettando queste tesi si spiegherebbe il continuo scacco di tanti progetti di esistenza umana e di tanti artefatti che si verifica nella storia e segnatamente in quella contemporanea. Ancor più problematica e contraddittoria è la nozione di progetto per ciò che attiene alla dimensione estetica che, considerevole nel nostro campo, è al limite presente in ogni sorta di progettazione. Infatti, secondo l'estetica del pensiero ‛negativo', inteso come negazione dell'immediato, dell'esistente come dato ultimo e insuperabile, del mondo in cui domina la legge di necessità e il principio di prestazione, l'arte avrebbe la funzione di negare la non libertà che è propria del presente storico, di trascendere questo in nome del ricordo e della promessa di una natura e di una umanità conciliante. Ma qui si rileva il paradosso costitutivo dell'arte che negando la non libertà dell'esistenza umana, non può farlo che positivamente, ossia attraverso la seduzione della forma estetica che dà parvenza di realtà a ciò che non esiste. Anche a non voler seguire tale paradosso che porta coerentemente alla negazione dell'arte stessa, è indubbio che le aporie che l'arte manifesta nel presente contesto storico si ripresentano in quelle attività progettuali dove la componente estetica gioca un ruolo di rilievo. Trattando la stessa tematica Argan scrive: ‟Dalla hybris arcaica fino al razionalismo moderno l'umanità ha cercato di sottrarsi all'ineluttabilità del fato, al dettato di una volontà superiore. Ora ha il sospetto, l'angoscia di non aver fatto altro che ricalcare, negli schemi lucidi dei suoi progetti, l'oscuro disegno del fato: come chi fugga un nemico e quando non sente più il suo passo alle spalle e s'illude d'essere in salvo, se lo ritrovi davanti a un passaggio obbligato e non possa più evitarlo. A questo punto non si può che rimettere in discussione il senso della vicenda umana nel mondo: bisogna sapere se tutto quello ch'è stato fosse progetto o destino, se l'uomo abbia costruito secondo i propri disegni o se, credendo di farlo, non abbia fatto qualcosa ch'era già detto e deciso" (v. Argan, 1965, p. 14). Abbiamo già accennato alla risposta data dagli esistenzialisti. Tuttavia, pur riconoscendo il continuo scacco del destino che sembra avvalorare la loro tesi, non possiamo ancora, mancando una concreta alternativa, rinunciare alla ‛speranza progettuale', a una volontà umana e razionale di guidare gli eventi affrancandoli dalla casualità. Bastano questi pochi cenni filosofici ed estetici ad avvertirci dei numerosi limiti della progettazione, specie ove si riconosca la sua costituzionale natura ‛positiva'.
2. Definizione
La progettazione, relativamente al campo artistico-costruttivo (o del design per usare l'inclusiva dizione inglese), è un'operazione programmatica fissata da disegni, modelli, scritti o altro, che dà luogo a un processo il cui fine è la realizzazione di un artefatto. Che la progettazione sia anzitutto un programma, una previsione, una prefigurazione si evince dal fatto che, dovendo costruire un artefatto, spesso complesso e costoso, si rende necessario un ‛fare', per così dire, teorico che anticipa concettualmente e sperimentalmente la vera e propria costruzione, prevedendone la fenomenologia e riducendo al minimo lo scarto fra ideazione e realizzazione. Programmatica è inoltre la progettazione in quanto è proprio nella sua fase che vengono elaborati i dati raccolti, recepita la domanda sociale, valutati gli aspetti economici, avvertiti i moti del gusto o in generale le tendenze in atto e tutto ciò viene appunto tradotto in un progetto. Questo, pertanto, da un lato raccoglie le esperienze del passato e dall'altro, dando a esse, secondo le esigenze presenti, una confermazione, anticipa e serve a costruire un artefatto per il futuro. Queste dimensioni temporali, passato, presente, futuro, hanno un valore diverso a seconda dei campi progettuali, delle tecnologie, delle epoche storiche, ecc. In ogni caso stabilendo un ‛prima' e un ‛dopo', un tempo di ideazione e uno di realizzazione, costituiscono delle invarianti ritrovabili in ogni atto progettuale. E ciò non nel senso ovvio del fluire del tempo, ma in un altro più complesso che si lega al carattere processuale della progettazione, che abbiamo posto in evidenza sin dalla sua prima definizione. Infatti, parlare di processo per la progettazione non significa stabilire, poniamo nel caso dell'architettura, che l'embrionale abbozzo preceda il progetto di massima e questo il progetto esecutivo, ma significa parlare di una processualità tale che, per quanto ordinate e distinte possano essere le fasi ideative ed esecutive, colmerà qualunque iato fra questi due momenti, talvolta invertendoli: l'erigenda parte di una costruzione assai spesso, per un motivo o per l'altro, rimanderà l'architetto a rivedere l'equivalente soluzione progettuale. In ogni caso, anche quando non s'invertono questi tempi, è comune esperienza che nessuna costruzione può dirsi completamente progettata finché essa non sarà effettivamente eseguita.
Di fronte a tale confermata esperienza, delle due l'una: o la progettazione svolge solo limitatamente la sua funzione di esauriente programmazione, perdendo in realtà molte delle sue prerogative, o la progettazione dev'essere intesa in un senso assai più ampio di quello corrente e non presentare alcuna soluzione di continuità tra il suo momento teorico e la realizzazione di ciò che essa ha solo prefigurato. Certo, questi aspetti di una processualità non completamente prevedibile e ‛ordinata' dipendono molto dal livello tecnologico di un dato settore e dalle tecniche esecutive cui la progettazione affida la realizzazione del suo programma. Ma è proprio vero che una tecnologia perfetta è quella che richiede una previsione progettuale impeccabile e non piuttosto una tanto flessibile e aperta da consentire revisioni e ‛ripensamenti' progettuali intanto che realizza un dato programma costruttivo? Comunque stiano le cose, appare indubbio che la progettazione è di per sé un processo che va dall'ideazione alla realizzazione. Peraltro insistiamo sulla nozione di ‛processo' perché più avanti a essa associeremo quella di ‛sistema'.
3. Aspetti linguistici della progettazione
Come prefigurazione di un processo che porta alla costruzione di un artefatto, la progettazione implica un atto comunicativo, un insieme cioè di segni che rendono possibile la comunicazione fra progettisti, esecutori e utenti, ossia un vero e proprio linguaggio, meglio ancora un sistema semiotico. Ma per specificare la natura di tale linguaggio è necessario a questo punto porre a confronto più sistemi di oggetti che nascono dalla progettazione. Abbiamo detto all'inizio di volerci occupare specificamente della progettazione architettonica, ivi compresi i campi del disegno industriale e dell'urbanistica; qui, per motivi di didascalico confronto del nostro con altri sistemi di oggetti, accenneremo alla progettazione in altri due campi, quello delle arti visive e quello definibile genericamente come mondo tecnologico. La progettazione relativa a quest'ultimo è la più ‛positiva', quella che presenta meno scarti fra ideazione e realizzazione, la più formalizzata e la più moderna, se è ‟attendibile supporre che l'inizio dell'uso attuale della parola sia nato con la codificazione degli interventi pubblici di edilizia e di ingegneria civile promossa dalla Rivoluzione francese e trasmessa nella normativa degli Stati italiani all'epoca dell'occupazione napoleonica" (v. Gorio, 1969, p. 56).
Per tali caratteristiche il sistema dei segni di questo tipo di progettazione è rigidamente codificato e trova il suo esito esclusivamente nel sistema dei prodotti tecnologici, dei quali è (o dovrebbe essere) la mera anticipazione. In altri termini, poiché il frutto di questa progettazione è un sistema di oggetti, che teoricamente valgono solo ad assolvere determinate funzioni e non hanno un'intenzione comunicativa, esso non dovrebbe essere un vero e proprio linguaggio; la valenza comunicativa di una tale progettazione dovrebbe limitarsi alla dimensione che intercorre tra il programma e la sua realizzazione, quel tanto cioè necessario affinché i ‛messaggi' progettuali vengano trasmessi ai tecnici deputati al funzionamento di macchinari. In sostanza il tipo di progettazione in esame è un linguaggio tecnico che non esorbita dalla specialistica cerchia degli addetti ai lavori e l'esito stesso di tale processo è un prodotto ‛finito'; questa caratteristica escluderebbe tali prodotti dal novero di qualunque forma di linguaggio, che rimane per sua natura indefinita e aperta potendosi utilizzare in vari modi e in diversi contesti, ogni volta assumendo una diversa significazione. Tutto ciò, beninteso, vale a un livello rigorosamente teorico perché non è da escludere in questo processo, supposto tecnicamente ineccepibile, la presenza di qualche elemento di ‛disturbo'; come pure non è detto che, nonostante l'intenzione meramente tecnologica, quei prodotti finiti non possano in qualche modo essere utilizzati a fini di comunicazione. Comunque, assunta nella sua definizione teorica, la progettazione tecnica ha un codice forte, non consente scarti fra ideazione e realizzazione, si limita comunicativamente alla fase lavorativa e costituisce per tali proprietà un parametro e un modello tipico per tutte le altre forme di progettazione che mirano a una sistematicità ordinata ed esaustiva, specie per quanto concerne la netta separazione delle fasi del processo.
All'estremo opposto sta la progettazione relativa agli oggetti d'arte. Essa si avvale di disegni, modelli o altro che hanno sì un carattere di prefigurazione e di programma, ma assai spesso anche un loro autonomo valore. Talvolta l'abbozzo di un dipinto, il cartone di un affresco, l'armatura d'una scultura, l'appunto per un'opera appartenente alle tendenze artistiche più recenti (informale, pop art, arte programmata, arte concettuale, ecc.) hanno una riuscita e una validità espressiva maggiore dell'oggetto o dell'immagine che intendono prefigurare. Queste caratteristiche di autonomia comportano un notevole scarto fra progetto (e già questo termine appare improprio) e realizzazione, nonché una processualità fra ideazione ed esecuzione con fasi assai indistinte, nelle quali è sempre la figura dell'artista a intervenire direttamente. Questi teoricamente opera affinché l'immagine finale sia la più fedele all'originario progetto, ma in realtà producendo di volta in volta sempre nuove immagini, o staccate da quella finale (ancora disegni, modelli, appunti) o nel vivo del corpo di essa, fino a un indeterminabile punto che sembra esaurire la sua capacità inventiva e tecnica. Il sistema degli oggetti nato da questa magmatica forma di progettazione, oltre che per il suo valore estetico, può studiarsi come linguaggio, o addirittura come l'una e l'altra cosa insieme, da una prospettiva che identifica appunto arte e linguaggio. In ogni caso l'attività prefiguratrice, quando rimane tale, ossia non produce elaborati autonomi, vale come protolinguaggio, mentre è lecito considerare linguaggio il sistema degli oggetti concepiti e realizzati con un'intenzione comunicativa, sia pure con tutte le specificità e le ambiguità del messaggio artistico.
Rispetto al tipo di progettazione tecnica, cui prima abbiamo accennato, che ha un codice forte, un massimo d'ordine e un grado minimo di comunicatività, quello degli oggetti d'arte ha, viceversa, un codice debole, un massimo di ‛disordine' e il più alto grado di espressività. Anche su questi giudizi vanno avanzate delle riserve: a parte l'uso non sempre proprio dei termini, cui ricorriamo per semplicità didascalica, non è affatto detto che nel secondo tipo di progettazione vi sia sempre disordine, espressività, mancanza d'intenzione funzionale, ecc. La fenomenologia dell'arte contemporanea è così vasta e complessa da sconfinare spesso in altri campi, da far propri i metodi della scienza e della tecnica, da tentarne un'imitazione ecc., per cui la relativa progettazione non risponde alle caratteristiche che più sopra abbiamo evidenziato. Comunque ci sembra di poter dire che, fra i due tipi di progettazione chiamati qui in causa come parametri di due opposti processi, il primo risponde alla logica dell'utilitario e il secondo a quella dell'immaginario.
E veniamo al tipo di progettazione che costituisce il tema centrale delle nostre note, quella architettonica. Anche qui, considerando l'architettura non solo come sistema di artefatti deputati ad assolvere determinate funzioni, ma anche come sistema di comunicazione, ossia un linguaggio, la progettazione relativa è un protolinguaggio. Questo, al pari della progettazione tecnica, si basa su un codice forte e specializzato e non dovrebbe avere, come nel caso della progettazione artistica, degli elaborati aventi virtù espressive proprie o un proprio grado di autonomia, tutto il processo progettuale essendo finalizzato al prodotto, alla realizzazione del linguaggio architettonico, ovvero alle vere e proprie fabbriche. Tuttavia vi sono dei disegni architettonici - si pensi ad alcune immagini di facciata o di prospettiva - che hanno un carattere autonomo non tanto come ‛disegni' che rappresentano temi architettonici (tipologia cui pure accenneremo più avanti), ma come simulacro dell'architettura che s'intendeva realizzare. E come spesso accade, nel caso di edifici rimasti incompiuti o distrutti essi costituiscono l'unica testimonianza dell'iniziale programma architettonico o del primitivo stato di una fabbrica. L'importanza della progettazione quale documento vale soprattutto nei casi di quelle architetture utopistiche o d'avanguardia che, a nostro avviso, sono tali proprio in quanto si arrestano allo stato di progetto. Ma, anche considerando che il fenomeno dell'avanguardia riguardi esclusivamente l'area protolinguistica o progettuale, è utile svolgere qualche considerazione su tale complesso problema.
A differenza dell'avanguardia artistico-letteraria, che dopo i primi momenti di scalpore viene assorbita dall'editoria, dal mercato e dai musei, ossia rientra nel circolo produttivo tradizionale, e a differenza di altri ‛progetti', propositi e programmi (piani economici, manifesti politici, ecc.) che all'opposto si dissolvono letteralmente quando non vengono attuati, l'avanguardia architettonica, operando su disegni e progetti, rimane sì anch'essa irrealizzata, ma ci fornisce tuttavia un'immagine di ciò che gli autori intendevano fare. Cosicché questa particolare attività, occupante un'area ricca di valenze e di significati, tra la pura fantasia e i primi ostacoli della contingenza, vive una sua ambigua dimensione fra teoria e prassi e, grazie alla presenza di quelle immagini, rappresenta un singolare documento assai significativo d'una critica fatta d'azione, specie in un momento come quello attuale, in cui nessuno può ignorare il potenziale insito nell'area del dissenso. In altri termini, da quando l'architetto ha abbandonato il ruolo del disponibile artefice e assunto quello, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, del critico ‛d'azione', il fenomeno tipico dell'avanguardia occupa un posto di primo piano nella fenomenologia della progettazione.
Dopo questi cenni al caso limite dell'avanguardia, ritorniamo al rapporto fra progettazione e architettura, ovvero tra protolinguaggio e linguaggio architettonico, considerando in primo luogo il problema dei disegni.
‟L'atteggiamento critico degli studiosi tedeschi - scrive L. Grassi - nei confronti del problema del disegno ha assunto un orientamento decisamente teoricizzante. Da un lato, si è insistito molto sul significato, i nessi e caratteri della scrittura disegnativa o grafica dell'artista (Degenhart); dall'altro, muovendo da una presunta diversità costitutiva tra il disegno del pittore, dell'architetto e dello scultore, si è indagato, più o meno astrattamente, su una distinzione tra un Architekturzeichnung (Linfert) e un Bildhauerzeichnung (Keller, Heydenreich, Gradmann)" (v. Grassi, 1947, p. 79). L'autore italiano, pur riconoscendo l'impegno e l'utilità filologica di questi studi, tende a tenere unite, nel nome dell'unità dell'arte, tutte queste forme di disegno e, per quanto concerne il disegno d'architettura, rileva che nel progetto, mentre si perde il senso grafico dell'originario disegno figurativo, si esprime per intero il significato artistico dell'opera architettonica: ‟in realtà il progetto è ‛pura architettura', individuazione spaziale; ma non rientra nel problema del disegno inteso quale diretta partecipazione grafica dell'artista. Un progetto, in quanto pura architettura, immateriale suggestione spaziale, può, in questo senso, considerarsi opera d'arte compiuta, in cui l'architetto (indipendentemente dal suo desiderio di vedere ‛costruita' la sua concezione) ha già detto tutto; anzi, il fenomeno della creazione architettonica, in quanto problema teoretico dell'estetica, si compie e si esaurisce proprio nel progetto e attraverso il progetto. Nonostante la definizione, il progetto costituisce, dunque, un fatto spiritualmente compiuto, e non è un disegno, anche se materialmente lo è" (ibid., p. 84). Le palesi aporie di una tale concezione romantico-idealistica sono evidenti; essa tuttavia vale come punto di partenza per il nostro discorso sul disegno, che non mira tanto a definire dove e quando il disegno sia arte, se nel disegno come autonoma esperienza figurativa o nelle varie fasi del progetto architettonico, quanto a studiare la fenomenologia del disegno architettonico e le sue relazioni col disegno figurativo autonomo, entrambi considerati come linguaggi.
Una seconda posizione rispetto al nostro tema è quella espressa da V. Ziino, che opera una distinzione tra linguaggio architettonico e disegno. ‟Il linguaggio dell'architetto - egli scrive - non è un sistema di segni convenzionali. Tali sono, invece, gli elaborati grafici del progetto: sistemi convenuti che non hanno alcun valore architettonico, perché del tutto estranei all'opera che rappresentano [...]. Distinguendo nettamente linguaggio e disegno, tecnica del linguaggio e tecnica grafica, non s'intende sottovalutare l'importanza che il disegno può avere nella preparazione dell'architetto" (v. Ziino 1950, pp. 117-118). Sebbene il linguaggio architettonico, ossia le vere e proprie fabbriche, sia anch'esso riconducibile a segni, come insegna la semiologia dell'architettura, è già significativo che Ziino distingua l'architettura realizzata, chiamandola linguaggio, dal progetto, del quale non sembra ancora in grado di fornire una definizione linguistica. Anche per Zevi l'architettura è un processo creativo che si svolge nel tempo, per cui se è vero che il progetto non è architettura, mancando in esso la concreta realtà dello spazio architettonico, serve tuttavia al fare architettonico e alla lettura critica delle opere realizzate: ‟se il fatto artistico non è considerato staticamente, l'impegno critico non consiste nella mera descrizione delle immagini e delle riflessioni suscitate dalla visione dell'edificio, ma proprio nell'identificazione del processo creativo che va dalla prima intenzione fissata in uno schizzo al progetto di massima, da questo alla stesura esecutiva e infine all'opera costruita" (v. Zevi, 1960, p. 129). Cosicché in questa concezione dinamica del fare architettonico il disegno nelle sue varie fasi è considerato come ‛strumento' operativo e critico a un tempo, serve per fare e per interpretare l'architettura. Ma Zevi distingue gli elaborati di progetto dai disegni originali degli architetti: ‟i grafici dei progetti sono di regola affidati a disegnatori di mestiere e perciò anonimi, mentre gli schizzi ‛a mano libera' dei maestri sono opere d'arte compiute [...] il disegno di una personalità artistica è valido in sé, non come prefigurazione e nemmeno come poesia del ‛non finito'. Il pregio degli schizzi architettonici è indipendente dall'edificio che eventualmente potrà derivarne dando luogo ad un'altra opera, affatto distinta" (ibid., p. 130). Non condividiamo questa differente valutazione dei suddetti tipi di disegno, né l'autonomia artistica e polivalente degli embrionali disegni redatti direttamente dagli architetti. Anzitutto ponendo una tale distinzione si contraddice quell'unitario processo del fare o più esattamente del programmare l'architettura che muove appunto dall'unitario convergere di tutte le fasi della progettazione, in ognuna delle quali è sempre da presupporre l'interessata e vigile presenza del progettista e quindi la sua costante azione ‛creativa', proprio nel senso progettuale. Inoltre si può dire che nessuna fase di questo processo del fare architettonico, che consideriamo un programma attuantesi per gradi, possiede una sua completa autonomia. L'indipendenza dei disegni originali dall'architettura costruita vale solo per alcuni casi eccezionali, dove peraltro tali disegni, più che rimandare a un'architettura vera e propria, vivono nell'ambito di alcune esperienze figurative, vanno giudicati come autonoma esperienza artistica avente l'architettura come pretesto, come ‛soggetto' della rappresentazione. È il caso di molti disegni di E. Mendelsohn, i quali indicano più un momento del gusto figurativo, quello appunto dell'espressionismo, che non una concreta prefigurazione architettonica. Del resto, il forte legame tra i disegni originali di Ch. R. Mackintosh o di F. Ll. Wright e le opere che essi prefigurano conferma l'interdipendenza tra il programmare e l'eseguire, la non autonomia del disegno architettonico dall'architettura vera e propria.
Certo, tale interdipendenza, mentre rende difficilmente assimilabili i disegni architettonici al disegno come autonomo genere artistico, non toglie a essi un valore di artisticità fruibile ‛anche' indipendentemente dall'opera cui alludono o cui servono. Ma si tratta di artisticità nel senso indicato da L. Pareyson (v., 1963, p. 247) e prima di lui, sia pure con altri termini, da Croce e da Dewey, e non di autonomo valore espressivo. Questo è il fattore risolutivo che distingue i disegni d'architettura dal disegno come manifestazione d'arte. Il riferimento a una distinzione estetica serve a convalidare la nostra tesi del disegno architettonico (dallo schizzo al progetto esecutivo) come appartenente alla ‛pratica esperienza'; esperienza che si qualifica con una componente e un grado di artisticità senza necessariamente confondersi col fare artistico.
Abbiamo in precedenza definito la progettazione come un protolinguaggio; cerchiamo ora di penetrare meglio la sua natura. Esso ha una funzione strumentale, pragmatica; è un insieme di segni tratti di volta in volta, e a seconda dell'interprete, dal disegno come autonoma esperienza artistica e dalle arti figurative in genere, dalla geometria, dalla topografia, dalla statica grafica ecc., in relazione e al servizio del linguaggio-oggetto ossia dell'architettura in carne e ossa. Perdendo la sua funzione strumentale, quella cioè di programmare nuove architetture, questo protolinguaggio perde il suo più peculiare carattere. Come la critica, che può considerarsi un metalinguaggio rispetto all'arte, se perde il contatto con le opere reali, rientra nell'estetica (e in un'estetica ‛sistematica' ormai in disuso), così il disegno d'architettura, se perde il contatto con l'opera, rientra nel disegno ‛artistico' (e in un genere a ‛tema architettonico' anch'esso legato a un gusto a noi estraneo). Per le suddette caratteristiche ‛pratiche' e per appartenere alla sfera dell'artisticità il protolinguaggio architettonico si differenzia sia dalla progettazione dei sistemi d'oggetti tecnici, sia dalla progettazione di quelli artistici. A questi aspetti che ne fissano la natura, bisogna aggiungerne altri che giustificano la considerazione della progettazione come protolinguaggio. Certo, esso comunica attraverso segni e codici, ma qual è la significazione di cui tali segni sono portatori? Come definire il carattere semiotico del protolinguaggio?
Per rispondere a tali domande è necessario rifarsi a una concezione semiologica della vera e propria architettura. In altre occasioni (v. De Fusco, 1967, p. 170, e 1973, p. 98) abbiamo proposto di definire segno architettonico l'unità minima dotata di spazio interno, ossia un invaso, che abbiamo chiamato ‛significato', il cui ‛significante' (per usare la nota dicotomia saussuriana) è dato dall'involucro murario che definisce e conforma l'invaso suddetto. Sottosegni di questa unità minima dotata di spazio interno sono la pianta, le facce interne e quelle esterne dell'involucro che la delimitano. Ora tali sottosegni, che presi isolatamente, essendo bidimensionali e non contenendo spazi interni, mancano della componente ‛significato' del segno, hanno tuttavia una loro significazione. Tutti possono rilevare che una pianta, una parete, una facciata denotano uno stile epocale, un momento del gusto, una tendenza architettonica, una caratteristica tipologica ecc. Siamo in presenza cioè d'una significazione, per così dire, secondaria e subordinata a quella primaria, data, ripetiamo, dall'insieme di tutti questi sottosegni e dello spazio che essi racchiudono e conformano, quella che emerge dall'unità spaziale del segno in tutta la sua globalità. E tuttavia, proprio questa significazione subordinata offerta dai sottosegni è quella che funge da tramite fra progetto e opera, fra protolinguaggio e linguaggio architettonico. Infatti, accantonando l'immagine iniziale, il primitivo abbozzo d'un organismo architettonico, che è sempre concepito come fenomeno globalmente segnico, tutti gli altri elaboratori di progetto (piante, pareti, facciate ecc.) altro non sono che prefigurazioni dei veri e propri sottosegni architettonici. Pertanto alla domanda sulla significazione del protolinguaggio architettonico rispondiamo che essa preordina e programma il significato dei sottosegni, che a loro volta ci daranno percettivamente il senso dello spazio degli invasi, ovvero il ‛significato' dei segni architettonici. Questa gradualità: sottosegni protolinguistici, sottosegni linguistici costruiti (la pianta, le pareti, la facciata), realizzazione dei veri e propri segni spaziali delle fabbriche, conferma quel grado di processualità che abbiamo visto essere peculiare del progetto architettonico. Ma c'è di più; avendo considerato pianta, pareti e facciate come sottosegni aventi comunque una marca semantica, dove trovare quegli elementi che in linguistica si definiscono di seconda articolazione, ovvero aventi solo un carattere opposizionale ma nessun significato? Rispondiamo che questi si possono riscontrare solo al livello protolinguistico e sono riducibili a pochi tratti orizzontali, verticali, obliqui e curvilinei che, privi in sé di qualche marca semantica, ci consentono in pratica di disegnare tutto. Ora, il potenziale del progetto sta proprio nel disporre di questi elementi di seconda articolazione con i quali, oltre a iniziare (beninteso dopo l'intuita embrionale immagine del tutto) il processo progettuale prefigurando sottosegni, possiamo anche effettuare prove e riprove prima di disegnare definitivamente una pianta, una parete, un prospetto. Possiamo dire che sistemi di segni, segni e sottosegni, tutti fattori aventi una carica semantica, dipendono e sono generati da tratti puramente opposizionali e aventi un grado zero di significazione; in modo del tutto analogo a quello per cui nella lingua parlata pochi fonemi danno luogo a un certo numero di parole e queste a loro volta a tutto l'universo del dicibile.
Ma anche nell'economia del presente discorso, pur avendo individuato un'analogia fra sottosegni protolinguistici (disegni di pianta, di pareti ecc.) e sottosegni linguistici (la vera pianta, pareti ecc.), analogia che ci consente di omogeneizzare i due tipi di linguaggi e, in pratica, di passare dal programma alla realizzazione di un'opera, non abbiamo ancora definito il legame, peraltro storicamente mutevole, fra questi due tipi di sottosegni. Per non appesantire di cognizioni teoriche il nostro testo, ci proponiamo di affrontare tale problema nel capitolo seguente, nel quale intendiamo trattare il legame suddetto accennando al rapporto fra progettazione ed esperienza dell'architettura moderna.
4. Progettazione e architettura moderna
In prima approssimazione si può dire che la storia del progettare coincida con la storia dell'architettura, che l'evolversi del concetto di conformazione dello spazio sia indissolubilmente legato al modo di rappresentarlo e di prefigurarlo; valga per tutti l'esperienza rinascimentale, dove tra progettazione e architettura, grazie al condiviso e diffuso codice della prospettiva, esiste uno scarto minimo e dove le stesse conformazioni architettoniche sono in pari tempo conformazioni e rappresentazioni dello spazio. Ciò vale assai meno per l'età contemporanea, della quale ci occupiamo specificamente in questa sede, per un'epoca in cui tra progetti e realizzazioni c'è spesso un divario assai accentuato dovuto proprio ai radicali mutamenti verificatisi nelle metodologie e nell'idea stessa di progettazione. Inoltre anche a livello teorico, se da un lato si riconosce, come abbiamo appena fatto, un'interdipendenza fra protolinguaggio e linguaggio, dall'altro si avverte anche una notevole alterità. Pertanto tenteremo di studiare la storia di questa relazione ora individuandone i punti di convergenza, ora quelli di divario.
Sebbene il disegno d'architettura sia una pratica assai remota, tanto che lo stesso Vitruvio parla di tre figure per rappresentare le tre dimensioni dell'architettura, abbiamo già accennato al fatto che la nozione di progetto, la codificazione dei suoi elaboratori e dei suoi segni sono di origine e concezione recente. Tecnicamente la moderna progettazione dipende dalle regole della geometria descrittiva e dall'adozione del sistema metrico decimale. ‟Le regole della geometria descrittiva sono formulate da G. Monge (1746-1818), tra gli ultimi anni della monarchia e i primi della Rivoluzione. Generalizzando i metodi introdotti dai trattatisti del Rinascimento, Monge dà forma rigorosa ai vari sistemi di rappresentazione di un oggetto tridimensionale sulle due dimensioni del foglio di carta; i progettisti sono così in possesso di un procedimento universale per determinare univocamente, attraverso i disegni, qualsiasi disposizione degli elementi costruttivi, per quanto complicata, e gli esecutori hanno una guida per interpretare univocamente gli elaborati grafici. Il sistema metrico decimale è introdotto dalla Rivoluzione francese, nel suo sforzo di cambiare tutte le istituzioni della vecchia società secondo modelli razionali" (v. Benevolo, 1960, pp. 46-47).
Indubbiamente l'architettura cominciò subito ad avvalersi della geometria descrittiva, ma questa trovò più immediata, coerente e logica applicazione nel campo dell'ingegneria, dell'architettura degli ingegneri e nella progettazione tecnologica. Vogliamo dire che, se i grafici di progetto ottocenteschi si avvalsero pienamente del metodo descrittivo, ciò che distingueva il momento più ‛architettonico' di essi andava oltre le indicazioni meramente tecniche di tale metodo. Si apriva così un divario fra rappresentazione e conformazione dell'architettura, già avvertibile in fase progettuale, che rimarrà quasi costante in tutto il movimento moderno. In particolare quel tanto di riduttivo che caratterizzava la geometria descrittiva non veniva sempre utilizzato dagli architetti che, di volta in volta, sembrano inventare un protolinguaggio progettuale per aderire maggiormente alle nuove esigenze del linguaggio architettonico. A cominciare con l'art nouveau, poiché esso intendeva recuperare ‛artigianalmente' la tecnica del ferro alla dimensione estetica, gli elaborati di progetto di un V. Horta, ad esempio, non si distinguono tanto per ciò ch'essi hanno tratto dal metodo descrittivo, quanto per il loro valore di prefigurare il dettaglio; poiché ogni elemento del linguaggio-oggetto ha una forma particolare, tali progetti mancano di valore sintetico e sono, viceversa, analitici, in una scala assai prossima al vero, per non perdere alcuna curva o controcurva, alcuna modulazione di dettaglio passando dall'ideazione all'esecuzione. Peraltro la consistenza lineare del gusto art nouveau, nonché la teorizzazione in chiave di Binfühlung per cui ‛la linea è una forza' avente un'affinità morfologica con le nostre sensazioni, portarono a un accostamento assai forte, quasi a una coincidenza tra linea disegnata e linea costruita, unica forse in tutta la storia della progettazione. Quanto poi il risultato morfologico della fabbrica da realizzare dipendesse dagli esperimenti fatti in sede di progettazione è dimostrato nel modo più emblematico dai procedimenti di un A. Gaudí. ‟La plastica strutturale di Gaudí si basa sul sistema utilizzato per la Cappella della colonia Güell a S. Coloma de Cervelló (1898-1915). Per questo progetto Gaudí preparò un modello di funi che riproduceva le linee strutturali della costruzione; alle funi vennero legati dei pesi proporzionali ai carichi che avrebbero dovuto essere sopportati da ogni nodo; i poligoni formati da queste funi davano la forma, ribaltata, della risultante delle forze degli archi dell'edificio. Veniva così ad essere possibile una struttura a volta senza contrafforti e senza archi rampanti, poiché la pressione della volta era direttamente assorbita da colonne convenientemente inclinate. Su questo schema Gaudí progettò in seguito le navate della Sagrada Familia" (v. Cirici-Pellicer, 1963; tr. it., pp. 153-154).
Se questo modo di progettare mostra tutta quanta la processualità del fare architettonico, indica la ricerca di qualcosa che non è dato a priori ma che scaturisce appunto nell'atto stesso del fare, al polo opposto troviamo i contemporanei progetti di O. Wagner. Questi non accusano alcun travaglio o ricerca elaborativa e sembrano unicamente mirare a riprodurre, prefigurandola, quella che sarà la definitiva immagine architettonica. La peculiarità di queste classicistiche tavole wagneriane, peraltro assai attraenti, sta nella loro pretesa oggettività a rappresentare il linguaggio-oggetto; una prova in più per confermare la scarsa autonomia del disegno architettonico.
Un altro significativo caso della fenomenologia del protolinguaggio architettonico è offerto dai disegni di Ch. R. Mackintosh. Gli elaborati di progetto, al di là d'una cura minuziosa, non presentano caratteristiche di rilievo, ma le sue prospettive - pensiamo a quella per la Haus eines Kunstfreunds, per la Scotland Street School e per la più nota Hill House - indicano l'intenzione di introdurre anche nella rappresentazione architettonica e dell'ambiente circostante motivi analoghi a quelli che egli usa nella decorazione parietale e negli elementi d'arredo: così gli alberi sono ridotti a un groviglio di linee racchiuse in una sagoma ovale, oppure a una massa di cerchietti che restituiscono l'effetto del fitto fogliame; così i cieli sono attraversati da densi tratti lineari che rappresentano le nuvole ma anche uno sfondo, talvolta completamente nero, sul quale risalta la bianca sagoma dell'edificio. In altri termini Mackintosh non mira solo alla rappresentazione fedele dell'oggetto architettonico e del suo contorno, ma inventa anche il modo e gli elementi figurali per rendere tale rappresentazione.
Se passiamo dall'art nouveau, dove i cenni ai pochi casi suddetti indicano il vario rapporto fra i progetti o disegni e l'architettura, al protorazionalismo, la relazione tra linguaggio progettuale e linguaggio-oggetto subisce un forte appiattimento. Questo si deve a molti fattori. Motivi etico-estetici (A. Loos), tecnico-economici (A. Perret), urbanistici (T. Garnier), di tipologia edilizia industriale (P. Behrens) rendono il protorazionalismo una grande riduzione e addirittura una semplificazione che elimina ogni accento figurale. Per un'architettura così intenzionalmente povera, da un lato pressata da motivi pratici e dall'altro ispirata al modello classicistico, dove molti fattori sono da sempre codificati, i documenti della progettazione risultano irrilevanti rispetto al linguaggio-oggetto. Ma tale carenza non ci autorizza affatto a ritenere che il protorazionalismo manchi di un suo travagliato momento progettuale. Intanto con questo stile nasce l'industrial design, per molti aspetti anticipato dal movimento inglese e dall'art nouveau.
Quello del design è un problema affatto nuovo per la progettazione: si tratta in sostanza di quantificare gli oggetti d'uso una volta prodotti dall'artigianato, di adattare il processo della loro produzione alle tecniche industriali e in pari tempo di qualificare quei manufatti che già da oltre mezzo secolo l'industria produceva imitando modelli eclettici. In tal modo tutto l'impegno passava dall'accurata elaborazione degli oggetti singoli, per ognuno dei quali, nel mondo artigianale, si ripeteva un apposito processo lavorativo e per i quali la progettazione era assai rudimentale, coincidendo sostanzialmente con la fase esecutiva, alla progettazione di un unico ‛perfetto' prototipo ripetibile poi illimitatamente dalla tecnica industriale. Tale progettazione, dovendo prevedere il minimo scarto con l'esecuzione, indicare ogni fase elaborativa, adattarsi a uno specifico procedimento, a un apposito materiale, ecc., non si differenzia sostanzialmente dai metodi della progettazione meccanica. Da questa tuttavia si distingue per una precisa intenzionalità estetica, ma tale componente è difficilmente isolabile dall'intero procedimento, né può rappresentarsi in appositi disegni e modelli. Anzi la validità estetica dell'industrial design è tanto più apprezzabile - almeno in teoria e nella fase più autentica di questo genere di progettazione - quanto più aderisce al processo di fabbricazione, tendendo a eliminare gli stessi accenti ‛estetici' riscontrabili come tali nel passaggio dall'ideazione all'esecuzione. Per i motivi suddetti nessun progetto possiede una sua propria autonoma espressività artistica, nessuno degli eleborati di progetto è migliore dell'oggetto cui dà luogo, l'obiettivo ‛ideale' essendo quello di una sostanziale coincidenza fra protolinguaggio e linguaggio-oggetto.
Il razionalismo architettonico fa propria la metodologia del design, tanto che si auspica un modo di progettare unitario per ogni settore d'intervento, dal più piccolo artefatto all'architettura e da questa all'urbanistica; tuttavia il campo architettonico rimane quello più complesso perché in esso si registra una più radicale svolta nella progettazione.
Quanto al linguaggio-oggetto, l'architettura razionalista, affrancandosi dal classicismo del protorazionalismo, grazie all'influsso dell'avanguardia figurativa, elabora nuovi termini, un gusto nuovo e persino una nuova concezione dello spazio. Com'è noto, questi aspetti si traducono in conformazioni architettoniche in cui prevale il rigore della geometria, la libertà stereometrica, la pianta libera, la dissimmetria, la scomposizione del volume in piani o, quanto meno, una nuova articolazione volumetrica, la cosiddetta quarta dimensione, ecc. Questi radicali cambiamenti si riscontrano ovviamente anche a livello del protolinguaggio, o meglio a quello degli elaborati di progetto. Scompaiono (nel senso che non vengono conservati perché giudicati privi di valore) schizzi e abbozzi - con le eccezioni che vedremo, segnatamente quella di Le Corbusier - a vantaggio degli elaborati tecnici di progetto. Sintomatica è anche la scomparsa della prospettiva, revocata in dubbio appunto dalla nuova concezione spaziale; al posto della rappresentazione prospettica, i progetti razionalisti sono corredati di assonometrie e di modelli, ossia di elaborati rappresentativi più obiettivi e ‛scientifici', nonché maggiormente affini al gusto del linguaggio-oggetto. In una parola, i disegni di progetto tendono a essere meramente strumentali e in definitiva a eclissarsi a vantaggio delle vere e proprie fabbriche, ed è questo che maggiormente distingue il razionalismo in architettura dalla produzione dell'avanguardia architettonica che è tutta, come s'è detto, a livello protolinguistico.
Ma la povertà degli elaborati di progetto non indica affatto uno scarso impegno progettuale, che anzi è vastissimo e talvolta superiore a quello esecutivo.
Il razionalismo architettonico, rifiutando molti aspetti della tradizione, elabora nuovi codici e lessici; combattendo l'unicità monumentale, opta per la ripetibilità dei prototipi, per la ricerca degli standard: seguendo la sua vocazione sociale, mira all'economia, allo sfruttamento delle nuove tecniche, alla formazione delle tipologie, all'Existenz-minimum; in una parola il razionalismo accentua la fase analitica, preparatoria e preprogettuale. Questo dell'analisi è uno dei fenomeni più nuovi dell'architettura contemporanea rispetto a quella del passato. Essendosi sostituita al committente privato e unico per le opere più impegnative la committenza sociale, di massa, anonima o, nel migliore dei casi, espressa da una rappresentanza, l'architetto deve interpretarne le istanze e assai spesso anticiparle in vista di esigenze che solo in futuro prenderanno corpo. È un ruolo affatto nuovo che porta a grandi speranze e illusioni, per evitare le quali non resta che porre accurate premesse, formulare realistiche ipotesi, elaborare funzionali teorie, operazioni tutte sorrette dalla correttezza delle analisi. Sarà questo corpus concettuale a precedere e sostanziare la vera e propria progettazione, a sostituire le vecchie domande, il codice passato, le tradizionali tipologie. In esso prenderanno corpo quei principi che s'incarnano in cellule-tipo, in criteri di soleggiamento, di ventilazione, di distanza tra i fabbricati, di altezza e dimensionamento ottimale, ecc. Non è chi non veda che è proprio a questo livello, in questa tematica, peraltro interessante una dimensione più ampia di quella architettonica, da ricercare la quiddità della progettazione razionalista, gli elaborati di progetto diventando, come s'è detto, del tutto subordinati e tali da colmare uno spazio fra teoria e prassi che si vuole prevedibile e limitatissimo. In sintesi, attribuendo alla fase analitica, all'elaborazione teorica e persino all'azione propagandistica della nuova architettura il maggiore significato della corrente razionalista, possiamo dire che in essa ciò che più conta è un'attitudine ‛preprogettuale', condizionante rigorosamente il processo di progettazione.
Ma se ciò caratterizza fortemente l'opera di W. Gropius e di tutto il razionalismo tedesco, presso altri questa attitudine preprogettuale assume nuove e più complesse valenze; pensiamo in particolare all'opera di Le Corbusier. Anch'egli, nel periodo fra le due guerre, preordina schemi, gerarchizza funzioni, stabilisce addirittura dei comportamenti umani che rientrano nell'analisi preprogettuale suddetta. Tuttavia, tale analisi va oltre la condizione storica dei razionalisti tedeschi per attingere a una dimensione futuribile più che utopistica, grazie alla quale la sua opera s'è dimostrata più attuale.
Come i suoi colleghi tedeschi, Le Corbusier antepone all'atto progettuale un corpus inclusivo di ogni interesse e componente architettonica, da quella sociale (Architecture ou révolution) a quella linguistica (i cinque punti) fino a un nuovo parametro di commensurabilità (il modulor); in campo urbanistico poi egli si dimostra il maggiore assertore della grande città in opposizione alla tendenza al decentramento. Ma tutto il suo teorizzare, ogni sua ‛soluzione' di problemi che la società del tempo non ancora s'è posti, viene tradotta in immagini. La preprogettazione corbusiana è un mondo di figurazioni, di ideogrammi, di simboli, di schemi che talvolta con l'aiuto d'una didascalia diventano comprensibili a tutti. Egli è tra i molti architetti contemporanei ad aver compreso che prima dell'architettura c'è tutta una serie di presupposti da affrontare e da rendere condivisi dall'intera sfera sociale, ma è certamente il primo a riconoscere la nostra come la civiltà dell'immagine, per cui ogni idea dev'essere visualizzata. Così non esita a utilizzare ogni sua risorsa, quelle di pittore, di scultore, di designer, di inventore d'efficacissimi slogan.
Oltre a possedere un evidente valore sociale, propagandistico, mass-mediologico, tale preprogettazione prepara anche in senso linguistico la progettazione e quindi il linguaggio-oggetto, la vera e propria architettura. Donde la straordinaria coerenza del suo stile, la presenza della stessa mano nel tracciato di un ideogramma come nella grana del materiale di un'opera finita. Ma particolarmente interessante il nostro argomento è il fatto che, avendo inventato un modo di parlare d'architettura che può prescindere tanto dal progetto quanto dalle fabbriche, Le Corbusier non solo è in grado di fissarne i presupposti, ma anche di ipotizzare soluzioni che sono oltre l'architettura consentita dall'uso, dalle leggi, dalle tecniche vigenti. È forse anche in virtù di questa attitudine che Le Corbusier è da considerarsi l'iniziatore della metaprogettazione in senso lato e di quella corrente architettonica nota coma la poetica della grande dimensione, delle macrostrutture, ovvero l'iniziatore d'una progettazione architettonica aperta. Questa, com'è noto, intervenendo in una scala intermedia fra architettura e urbanistica (tuttavia differente da quella sopra menzionata dei razionalisti tedeschi che riguardava il quartiere), prevede la costruzione di grandi strutture portanti, concepite come macrosegni urbani, entro le quali l'oggetto architettonico (le case, gli uffici, gli edifici pubblici) potranno inserirsi in un secondo momento, essere intercambiabili, sostituibili, realizzabili persino in ‛stili' diversi.
Alla definizione di una simile tendenza hanno contribuito i maggiori architetti contemporanei da K. Tange, con il piano di Tōkyō, a L. Kahn, con la sistemazione del centro di Philadelphia, per non parlare delle varie proposte utopiche del gruppo Metabolism, di L. Nycz, di Y. Friedman, di Maymont, ecc., tutte incentrate sull'idea delle macrostrutture e della progettazione aperta. Queste, ove si eccettuino i diversi tentativi di utilizzare ai fini progettuali l'elaboratore elettronico, costituiscono i più recenti esempi di metodologia progettuale che, per la loro intenzione, la loro scala, l'idea di un processo dinamico e teoricamente illimitato, presuppongono a loro volta la metaprogettazione, ovvero un modo di programmare un modo di progettare che aggiunge, per così dire, un terzo momento al tradizionale processo composto di due sole fasi principali, quella ideativa e quella realizzativa.
Molte di queste proposte sono destinate a rimanere sulla carta; tuttavia è di notevole interesse che, parlando di progettazione, questa abbia assunto ai nostri giorni una dimensione diversa e si sia arricchita di fasi e momenti inconcepibili fino a qualche anno or sono. Non è certo privo di senso, nonostante le numerose riserve che si possono avanzare su un simile tipo d'intervento in ordine a fattori sociali, economici, di coesistenza col patrimonio monumentale ecc., che nel concepire, sia a livello didattico, sia a quello operativo, un qualsiasi artefatto architettonico, lo si immagini inseribile in questa più vasta e problematica dimensione, indicante peraltro il radicale cambiamento subito dall'idea stessa di progettazione.
Ma questa nuova idea progettuale, la nozione di metaprogetto, quella d'un processo ideativo-esecutivo aperto ecc. rappresentano realmente aspetti di una metodologia intenzionata, diretta da precise scelte e valutazioni, oppure sono solo un modo di adeguarsi allo strapotere tecnologico esistente, del quale imitano formalisticamente i procedimenti? Una risposta a tali quesiti si trova in Argan che, pur privilegiando il ‛piano' urbanistico rispetto al progetto architettonico, osserva: ‟Ciò che in realtà il piano pianifica non è un edificio o un insieme di edifici, anche se in pratica risulta dall'insieme di questi progetti, ma una riforma della struttura del reale in quanto si fenomenizza in una diversa distribuzione, misurazione, qualificazione dello spazio; più precisamente ancora modifica e riforma la metodologia del progettare, sempre meglio determinandola nel suo finalismo inteso come condizione qualificante dell'agire umano. In altri termini, il piano non è un progetto di un'azione futura, ma un agire nel presente secondo un progetto" (v. Argan, 1965, p. 60). Ma oltre a ciò Argan considera lo stesso progetto, con la sua intenzionalità, i suoi legami con la storia e con le prospettive future, come atto di valutazione, modello di ciò che dev'essere oggetto di preferenza e di scelta, ossia di valore: ‟Il progetto è, nel senso più attuale e preciso del termine, struttura. Tracciando le linee maestre secondo cui si svolgerà l'esistenza della società e, nello stesso tempo, negando che queste siano predestinate o prefisse, esprime in primo luogo la virtualità della condizione presente, le possibilità che le sono implicite. Ma esprime anche quella che si assume come struttura della società, processo del suo autodeterminarsi, diagramma del suo divenire storico: poiché la struttura non è pensabile come forma compiuta ed immobile, ma come strutturazione, ‛coscienza strutturale'. In tutti i campi della scienza moderna l'analisi strutturalistica, che in nessun modo può contrapporsi allo storicismo, ricerca nella struttura la husserliana ‛essenza' dei fenomeni, il loro interno progetto, la virtualità che li organizza necessariamente in gruppi secondo determinati patterns, che in definitiva si riducono al pattern della mente umana, delle sue possibilità di relazione, della sua capacità di costruire insiemi che siano maggiori della somma dei componenti, ed in cui ciascun componente sia sotto il segno del ‛tutto' immanente. È dunque, questa analisi strutturalistica, la guida metodologica più fidata per una critica che si proponga, come problema del valore, il valore della struttura o del progetto. Assunto come forma autonoma e significante, il piano è la forma specifica della ‛intenzionalità', nel senso preciso, husserliano del termine" (ibid., p. 61).
Il brano citato contiene una delle definizioni di progettazione più rispondenti alle istanze della cultura contemporanea, ma il modo in cui il progetto viene identificato con la struttura risente d'un accento troppo sintetico e teorico, del resto inevitabile nel contesto donde è stato tratto. Affinché tale identificazione, che condividiamo pienamente, possa meglio incidere nella pratica progettuale e valere al tempo stesso come parametro critico, è necessario specificare ulteriormente questa nozione di struttura-progetto. E il miglior modo per farlo è quello di limitare il concetto stesso di struttura e il relativo metodo strutturale. A tal fine R. Barthes sostiene che non basta l'assunto per cui il tutto non coincide con la semplice somma delle parti - principio che accomuna molti fenomeni della cultura contemporanea: egli cita la sociologia americana, l'opera di Freud, la Gestalttheorie, l'epistemologia genetica di J. Piaget, la fenomenologia di M. Merleau-Ponty, la critica di L. Goldmann, l'antropologia di Cl. Lévi-Strauss - a legittimare per i sistemi aventi questa proprietà l'aggettivo ‛strutturale' e l'impiego del metodo strutturalista. ‟Per me - egli scrive - (e credo che in Francia, sotto l'influenza di Lévi-Strauss, questo punto si affermi sempre più) il termine ‛strutturalismo' ha un senso più ristretto: a mio avviso esso designa ogni ricerca sistematica subordinata alla ricerca semantica e ispirata al modello linguistico" (R. Barthes, Strutturalismo e critica, Milano 1965, p. LIV). Ma se ciò è vero, poiché la semantica, o almeno i suoi aspetti più rilevanti, sono inglobati nella linguistica e poiché questa, a sua volta, per dirla con Saussure, è solo un settore della scienza dei segni, della semiologia, non è lecito allora dire che è questa da considerarsi la vera ‛scienza nuova', mentre lo strutturalismo è solo la sua metodologia? Per quanto concerne l'architettura questo ci sembra vero senz'altro e in tal caso il progetto si rivela come una struttura semiotica. Che la progettazione fosse una forma di semiotica lo abbiamo già sostenuto parlando degli aspetti linguistici e comunicativi del fenomeno in esame, ma, dopo aver considerato il progetto come una struttura, come la forma specifica dell'intenzionalità, fino a giungere all'idea di strutturalismo come metodo della semiologia, quell'iniziale assunto si carica di ben altri significati e valori. Infatti, poiché la semiologia non è mera formalizzazione segnica, ma, da quanto s'è detto e dalla sua stessa definizione, ‟una scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale" (F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Bari 1967, p. 26), la riduzione del progetto a struttura semiotica porta da un lato a operare in un campo di pertinenza proprio dell'architettura e dall'altro a recuperare sub specie disciplinare la dimensione sociologica. Questo quadro della vita sociale poi è un imprescindibile legame della progettazione con la storicità.
5. La progettazione scientifica
Definiamo con questa espressione le varie proposte di metodologia progettuale tendenti a ridurre la componente intuitiva e soggettiva del progettista per dar luogo a un processo che includa una garanzia della propria validità e verificabilità, nella gran parte dei casi ricorrendo al modello matematico e all'uso del calcolatore elettronico.
Più che fornire una rassegna di tali proposte aventi ormai una vasta letteratura (v. bibliografia), preferiamo esplicitarne la più emblematica, quella di Ch. Alexander, che risulta esemplare non tanto per i risultati che raggiunge quanto per la sua impostazione concettuale. In linea di massima si può dire che il metodo elaborato da Alexander, uno dei primi autori a usare i grafi e la teoria degli insiemi in campo progettuale, non mira tanto alla definizione di una forma - anche se egli riconosce che questo è l'obiettivo finale della progettazione - bensì a quella di una particolare metodica di progetto, fondata su una serie di originali premesse, a loro volta espressione dei più significativi criteri della moderna epistemologia. Anzi, anticipando un giudizio critico, notiamo che l'interesse per l'intera teoria decresce al passaggio dalle premesse all'impostazione del programma e da questo alle conclusioni.
Quanto alle premesse, la prima riguarda la nozione stessa di ‛forma'. Questa viene intesa come una sorta di compensazione e paragonata a una forza: ‟Se il mondo fosse interamente regolare ed omogeneo, non vi sarebbero forze, e non vi sarebbero forme. Tutto sarebbe amorfo. Ma un mondo non omogeneo tenta di compensare le sue proprie irregolarità adattandosi ad esse, e in tal modo prende forma. D'Arcy Thompson è giunto a definire la forma ‛diagramma delle forze', con riferimento alle irregolarità" (v. Alexander, 1964; tr. it., p. 23). Un'altra proprietà della forma, secondo Alexander, è la sua complementarità con il ‛contesto', intendendo con esso non la mera funzione, ma tutti i requisiti che la forma deve soddisfare: la forma è la soluzione del problema progettuale, mentre il contesto definisce il problema; oggetto del discorso sul progetto è quindi l'insieme che comprende la forma e il suo contesto. La rispondenza dell'una all'altro può verificarsi sperimentalmente, costruendo cioè una forma e confrontandola col mondo reale, ma ciò risulta ovviamente antieconomico. S'impone quindi la necessità di verificare tale corrispondenza a livello programmatico, anzi addirittura concettuale, concependo appunto il contesto e la forma come fattori complementari. ‟Ecco il fatto che sta dietro l'osservazione di D'Arcy Thompson che la forma è una diagramma di forze - scrive Alexander -. Una volta che noi avremo tracciato il diagramma delle forze nel senso letterale (avremo, cioè, descritto il ‛campo' del contesto) questo descriverà anche l'elemento costitutivo della forma in quanto diagramma complementare di forze" (ibid., p. 29).
Ma ciò non è sempre possibile: se fossimo ogni volta in grado di capire il campo del contesto avremmo automaticamente trovato la forma adatta a esso; in realtà il contesto ci rimane oscuro. Per uscire da questa difficoltà l'autore propone una soluzione, per così dire, in negativo: cominciamo a considerare il campo del contesto prendendo in esame le mancanze di corrispondenza, ovvero i casi di inidoneità dei requisiti richiesti, che sono più facilmente riconoscibili di quelli di idoneità. Infatti ‟troveremo quasi impossibile caratterizzare una casa che si adatti perfettamente al suo contesto. Eppure è la cosa più facile del mondo nominare i tipi specifici di inidoneità che si oppongono, appunto, a un'idonea corrispondenza [...]. Queste inidoneità sono le forze che devono plasmarla, e non è possibile confonderle. Per il fatto stesso che sono espresse in forma negativa sono specifiche, ed abbastanza tangibili perché si possa parlarne" (ibid., p. 30).
A questo punto nella teoria di cui ci occupiamo viene introdotta un'altra premessa, quella relativa alla distinzione fra le culture primitive o ‛non autocoscienti' e la cultura attuale o ‛autocosciente'. Le prime hanno prodotto oggetti le cui forme erano direttamente espressioni del contesto in quanto nate da una tradizione secolare, che nulla concedeva all'individualismo dell'artefice ed era poco mutevole rispetto a nuove esigenze e informazioni. Viceversa, la cultura autocosciente si basa su dati sempre mutevoli, richiede la figura di un progettista, reca i segni dell'individualismo; la nascita stessa d'una disciplina chiamata ‛architettura' porta con sé la difficoltà di adattare perfettamente una forma al suo contesto.
Schematizzando questi due modi per giungere alla realizzazione positiva del binomio forma-contesto, l'autore osserva che nelle culture ‛non autocoscienti' ‟il processo che plasma la forma è una complessa interazione nelle due direzioni fra il contesto C1 e la forma F1, nel mondo stesso. L'essere umano è presente solo come un agente in questo processo. Reagisce alle disattitudini operando cambiamenti; ma è poco probabile che imponga qualsiasi concezione ‛progettata' alla forma [...]. Nel processo non autocosciente non vi è la possibilità di mal rappresentare la situazione: nessuno crea un'immagine del contesto, e quindi l'immagine non può essere sbagliata; ma il progettista autocosciente lavora completamente attraverso l'immagine che è nella sua mente, e questa immagine è quasi sempre sbagliata" (ibid., pp. 81-83). Cosicché, all'interazione oggettiva del primitivo processo C1 ed F1, s'interpone una erronea raffigurazione mentale C2 ed F2. ‟Il modo per migliorare questa condizione consiste nel creare un'ulteriore immagine astratta della prima immagine del problema, che elimini l'influenza di questa e ne trattenga solo le caratteristiche strutturali [...] La vaga ed insoddisfacente immagine delle esigenze del contesto, C2, che all'inizio si sviluppa nella mente del progettista, è seguita da questa immagine matematica, C3. In modo simile, ma contrario, il progetto F2 è preceduto da un complesso ordinato di diagrammi F3. La derivazione dei diagrammi F3 da C3, malgrado sia ancora intuitiva, può essere chiaramente capita. La forma è ora effettivamente modellata da un processo al terzo livello, distante da C2 ed F2. È esplicita, e perciò sotto controllo" (ibid., p. 83).
Sulla base di queste prime premesse Alexander entra nel vivo del suo metodo e, per realizzare un programma corrispondente al terzo livello suddetto, elabora un grafo ad albero relativo alla costruzione di un bollitore. L'operazione inizia con l'elenco di 21 requisiti o variabili di non rispondenza che vengono poste alla base del grafo.
Di queste variabili alcune sono raggruppabili in insiemi, in quanto hanno forti relazioni fra loro; si hanno così al posto delle 21 variabili solo 5 insiemi, ovvero un primo livello d'insiemi nel grafo ad albero; a loro volta tali insiemi danno luogo, grazie sempre ai forti legami intercorrenti tra le loro componenti, a un secondo livello composto di due soli insiemi, riassuntivi dei precedenti, e quindi all'oggetto-bollitore. Il grafo ad albero risultante ci mostra in tutta evidenza - ed è questo carattere di sintesi riduttiva che viene esaltato dall'autore - l'oggetto scomposto in una serie di insiemi di requisiti, a loro volta raggruppanti i requisiti o le variabili di non rispondenza posti alla base dell'albero. Cosicché, se nel grafo ad albero si parte dall'oggetto per definirne i requisiti, si compie un'operazione analitica; se, viceversa, si parte dalla base, si ha uno schema mirante alla sintesi e quindi alla conformazione dell'oggetto.
Per formalizzare matematicamente un tale processo Alexander parte dalla considerazione che per ciascuna variabile si possono dare due casi, quelli di essere adatta o inadatta allo scopo che ci si prefigge, e assegna alla prima il valore 0 e alla seconda il valore 1: valori binari che si conformano all'uso del calcolatore elettronico. Si perviene con tale strumento al raggruppamento e al calcolo di insiemi e sottoinsiemi a loro volta generati dalle variabili, il cui risultato non è altro che una conferma della razionalità del processo prima affrontato solo per via logica. Oltre a ciò, per soddisfare l'esigenza di avere tutte variabili di valore 0, ossia per risolvere il problema progettuale, essendo tutte le variabili divenute idonee, è necessario ‛intersecare', secondo una tipica operazione insiemistica, i campi d'idoneità. Il campo finale diviene più limitato quanto più numerose sono le variabili in gioco, così che, se il processo matematico risulta più complesso, dovendo tener conto di tutta una serie di correlazioni fra le variabili, il campo progettuale risulta meglio e più rigidamente definito.
Tutto quanto precede dà luogo, o per via logica o per via matematica, a un diagramma di requisiti, a un lavoro d'analisi, cui fa seguito un diagramma di forme o di sintesi. Ma prima di procedere oltre è necessario ricordare un'altra significativa premessa posta dall'autore: ‟Un diagramma di requisiti diventa utile solo se contiene implicazioni fisiche, cioè se ha in se stesso gli elementi di un diagramma di forma. Un diagramma di forma diventa utile soltanto se le sue conseguenze funzionali sono prevedibili, cioè se ha in sé un diagramma di requisiti. Un diagramma che esprime i soli requisiti o la sola forma non è di nessun aiuto nel realizzare la trasformazione dei requisiti in forma, e non avrà alcun posto costruttivo nella ricerca della forma. Diremo allora che un diagramma è ‛costruttivo' se, e solo se, è tutte e due le cose in una volta: se, e solo se, è un diagramma di requisiti e un diagramma di forma allo stesso tempo" (ibid., p. 92).
Quest'assunto del diagramma ‛costruttivo' rappresenta la chiave dell'intero procedimento e il punto di passaggio dalla fase analitica a quella progettuale della teoria in esame. Per esplicitarlo l'autore ricorre al caso dell'ampliamento di un incrocio stradale. Supponendo che l'unico requisito richiesto sia che il traffico attuale possa fluire senza congestione, e utilizzando graficamente delle frecce di vario spessore che rappresentano il numero di veicoli all'ora che confluiscono nelle varie direzioni nelle ore di punta, si ottiene dal disegno del nodo stradale con tali frecce, il cui rilevante spessore corrisponderà all'ampiezza delle strade, la forma che assumerà il nodo stesso. In questo caso il diagramma dei requisiti e quello delle forme coincideranno dando luogo al diagramma ‛costruttivo'. Insistendo su tale nozione Alexander afferma: ‟Il diagramma costruttivo è il ponte tra i requisiti e la forma. Ma la sua grande bellezza è che va molto più a fondo. La stessa dualità fra il requisito e la forma che il diagramma costruttivo è capace di esprimere ed unificare si rileva ad un secondo livello: la dualità è essa stessa caratteristica della nostra conoscenza della forma" (ibid.).
L'esempio riassuntivo della teoria di Alexander è quello relativo alla progettazione di un villaggio agricolo indiano per seicento persone. L'autore elenca ben 141 requisiti, che vanno dalla religione e casta alle forze sociali, dall'agricoltura all'allevamento del bestiame, dal problema dell'acqua a quello dell'educazione, ecc.; calcola tutte le loro interazioni; opera matematicamente su di essi riducendoli a un primo livello d'insiemi; poi, secondo il tracciato di un grafo ad albero, determina un secondo livello d'insiemi che, a loro volta, danno la forma dell'intero villaggio. Il punto più significativo di tutto il processo è che esso tende a produrre un diagramma costruttivo, ovvero, come abbiamo visto sopra, un diagramma che è in pari tempo di requisiti e di forme. Infatti ciascun requisito, a partire da quelli più elementari e più numerosi che si trovano alla base dell'albero - coerentemente con l'idea del diagramma costruttivo -, è già dato con una sua conformazione. Cosicché l'albero risulta costituito da una serie, per così dire, di conformazioni-requisiti, da un livello di insiemi di tali conformazioni-requisiti, fino ad arrivare alla forma finale del villaggio, ovvero da un insieme che riassume le precedenti conformazioni-requisiti.
In conclusione possiamo dire che uno degli aspetti più significativi della teoria esaminata, per quanto concerne la sua parte finale (ma abbiamo già osservato che essa vale più per le sue premesse), stia nella fiducia che una corretta impostazione dei requisiti di un problema progettuale porti alla realizzazione di una corretta forma, anzi che uno speciale tipo di diagramma, quello ‛costruttivo', dia quasi direttamente la forma. Tutto ciò può sembrare frutto di un certo automatismo, ma questa idea è smentita non solo dal fatto che la teoria di Alexander riassume molti aspetti della moderna epistemologia, dallo strutturalismo alla filosofia di K. Popper, dalla cibernetica alla teoria dell'informazione, alla nuova matematica (che, come egli opportunamente ricorda, ‟è implicata in questioni di ordine e relazione almeno quanto lo è in questioni di grandezza"), ma anche e soprattutto dal riconoscimento delle inevitabili scelte e invenzioni del progettista. I suoi continui richiami alla storia dell'architettura, a quella del movimento moderno e ai relativi protagonisti, sembrano inoltre voler dire, non senza un accento di ambiguità, che di fatto molti architetti anticiparono gli assunti e i modi della teoria progettuale proposta.
6. Storia e progettazione
Il rapporto più problematico dal punto di vista sia teorico che operativo è quello che si stabilisce fra la storia e la progettazione, ossia fra un'esperienza passata, remota o recentissima che sia, e una rivolta al futuro, fra un avvenimento il cui processo è esaurito e un altro che è appena programmato. E tuttavia, nonostante questo divario, spesso addirittura antitetico, fra storia e progettazione esiste un legame costante, più o meno evidente a seconda dei periodi e delle tendenze. Se invece di parlare di storia parliamo più esattamente di storiografia e se al posto della progettazione prendiamo momentaneamente in esame il linguaggio-oggetto, l'architettura vera e propria, possiamo dire con B. Zevi: ‟dal neoclassicismo in poi, lo sviluppo della creatività architettonica è accompagnato da una metodica investigazione critica del passato ed è culturalmente incomprensibile senza di essa. Il neoclassicismo ripensa la Grecia e Roma; il neoromanico e il neogotico, insieme alle Arts and crafts, analizzano il Medioevo; l'architettura razionalista del 1920-1930 riesuma le ricerche proporzionali della Rinascenza; il movimento organico medita sul barocco. I rapporti tra architettura e storiografia formano un colloquio incessante, una collaborazione così sistematica che diviene impossibile seguire lo svolgimento ormai secolare del moto moderno senza tener conto delle presenze e delle pressioni della storiografia" (v. Zevi, 1950, p. 14).
Volendo penetrare meglio nel rapporto storia-progettazione, prendiamo in esame alcuni capisaldi del metodo storiografico e vediamo quale relazione ciascuno di essi presenta con la progettazione, fino al tentativo di rispondere alla vecchia domanda sull'uso progettuale della storia.
a) La presenza costante della storia
Va ricordato anzitutto che la storia dell'arte, e per essa dell'architettura, è una storia speciale, perché i suoi oggetti mostrano una presenza costante sia nel tempo, sia nella loro consistenza fattuale. Infatti, mentre gli altri eventi remoti o recenti per passare alla storia hanno bisogno d'essere fissati da fattori estrinseci o disomogenei della tradizione orale, della cronaca, dei documenti e della narrazione scritta, quelli d'arte e d'architettura diventano oggetto di storia principalmente per i loro caratteri intrinseci, per la presenza stessa degli eventi. ‟La storia dell'arte è infatti la sola, fra tutte le storie speciali, che si faccia in presenza degli eventi e quindi non debba evocarli né ricostruirli né narrarli, ma soltanto interpretarli. E questa caratteristica è, nello stesso tempo, la maggiore aporia della storiografia dell'arte [...] quale che sia la sua antichità l'opera d'arte si dà sempre come qualcosa che accade nel presente. Quelli che chiamiamo giudizi, positivi o negativi che siano, in realtà sono atti di scelta, prese di posizione. Nei confronti di un evento che accade non possiamo astrarci e pronunciare sereni e distaccati giudizi: dobbiamo decidere se prestare o no attenzione, accettare o rifiutare. E ciò che si accetta o si rifiuta è in realtà la coesistenza con l'opera: la quale è fisicamente presente e, benché appartenga al passato, occupa una posizione del nostro spazio e del nostro tempo reali. Non abbiamo alternativa: è un dato della nostra esistenza" (v. Argan, 1969, pp. 10-11).
Questa tangibile presenza dell'oggetto storico-architettonico è determinante per la progettazione. Il passato storico civile di un paese può, entro certi limiti, essere ignorato dai suoi abitanti, ma essi non potranno mai ignorare il loro patrimonio artistico e monumentale, specie quelle fabbriche nelle quali si imbattono quotidianamente. Si aggiunga che mentre le altre opere artistiche possono vivere in una sfera più appartata, essere raccolte in musei, trasferite da un luogo all'altro, ecc., le opere d'architettura sono inamovibili, stanno là dove furono concepite e bisogna adattare a esse le successive modificazioni dell'ambiente. Cosicché non si progetta mai nel vuoto, ma sempre nel pieno di un contesto che può essere sì naturale, ma più spesso artificiale o appunto storico. Si potrà al limite progettare ‛contro' il contesto ambientale, mai tuttavia ignorarlo. In fondo tutta la vexata quaestio dell'inserimento del nuovo nell'antico si pone quale discorso di difesa contro la cattiva progettazione e i negativi interessi che la sottendono, perché una progettazione valida e socialmente corretta non potrà mai non tener conto del contesto storico entro cui inserisce le sue fabbriche.
Ma la tangibile presenza dell'oggetto architettonico ci induce ad altre considerazioni ai fini progettuali. Oltre a operare in un campo speciale, dove, come s'è detto, sia lo studio della storia che la progettazione si effettuano nel vivo del contesto storico, se distinguiamo storia da storiografia, quest'ultima, essendo una forma di metalinguaggio, risulta un campo omogeneo alla progettazione, anch'essa metalinguaggio, anche se per l'esattezza l'abbiamo definita protolinguaggio. Cosicché la progettazione può ricevere indicazioni sia dal linguaggio-oggetto, quella storia incarnata in opere presenti, sia dal metalinguaggio, ossia dalla storiografia, e tali indicazioni si integrano, si rafforzano, si sostengono vicendevolmente. Pertanto, quando parliamo di rapporto della progettazione con la storia questo va inteso come relazione con due processi integrabili ma distinti.
b) Il carattere d'individualità
Una conferma che la progettazione può avvalersi sia della storia che della storiografia si ha dal principio di individualità. Essendo l'evento storico, nel nostro caso un edificio o un ambiente, un fatto unico e irripetibile, si dice che il corrispondente modo di studiarlo dal punto di vista storiografico debba essere di tipo individuale. Ma, posto che sia vera la premessa della suddetta proposizione e già essa potrebbe essere revocata in dubbio da tanti fenomeni dell'architettura, dell'urbanistica e del design contemporanei, si pensi all'intenzione di realizzare dei prototipi quantificabili, di promuovere processi iterativi, di vedere un principio di valore nella contestualità di tutta una serie, ecc. - nulla ci dice che debba essere vera anche la conseguenza, ossia che il modo di conoscenza storiografico debba necessariamente essere individuante. E poi come si coglierebbe tale individualità senza il riferimento a una tipologia, a un codice, a una struttura? Pertanto, posto che si voglia, per questo o quel motivo, fissare il carattere individuale dell'oggetto storico, è necessario organizzare una ‛costruzione' per assolvere questo fine. In altri termini, per raggiungere l'individualità di un'opera storica la si deve necessariamente rapportare alla generalità, anzi sarà più individuata l'indagine storiografica quanto più essa avrà scandagliato la generalità dalla quale per differenza si riconosce il carattere e il valore specifico dell'opera in esame.
Qual è il rapporto fra progettazione e carattere di individualità d'una fabbrica antica? Se il progettista l'assume come opera paradigmatica, ossia come modello suscettibile di indicazioni e di ‛ripetizioni', egli può rifarsi direttamente a quella fabbrica cogliendone appunto l'aspetto eccezionale. Ma se il progettista non s'interessa tanto alla pura astanza di un edificio quanto alla processualità di cui esso è frutto, ai valori formali, sociali, tecnici di cui esso è emblematico portatore, allora egli dovrà rifarsi alla suddetta ‛costruzione' storiografica, grazie alla quale si coglie l'individualità per confronto con la generalità.
Se sono attendibili tali considerazioni, non solo si dimostra che alla progettazione sono utili tanto la storia che la storiografia, l'uno e l'altro campo chiamati in causa a seconda delle esigenze, ma si revoca anche in dubbio l'obbligatorietà del caposaldo storiografico individuante. Quando, con vecchia espressione, si dice che ogni conoscenza ideografica passa per il sapere nomologico, è evidente che ai fini progettuali è il secondo a prevalere, se si tien conto che per la progettazione non è tanto o non è sempre la quiddità di un'opera che si mira a indagare, ma come e perché essa possa ancora servire
c) La causalità
Un caposaldo storiografico di indubbio interesse per la progettazione è quello relativo alla ricerca delle cause che determinarono la nascita e la conformazione di un'opera storica. Certo, alla base di questo tema nella storiografia generale c'è il modello delle scienze naturali e un certo meccanicismo lineare del rapporto causa-effetto. Ma questa positivistica origine del problema e la più recente acquisizione che fra cause ed effetti la relazione è meno semplice di quanto prima si credesse, non ci impediscono affatto di parlare ancora di cause e di ricercarle anche nel campo delle scienze sociali, ivi comprese l'architettura e l'arte, dove peraltro è possibile intervenire a modificarne i processi. Ricercare le cause di un evento storico, nel nostro caso di un artefatto, significa in definitiva, com'è stato giustamente osservato, fare più storia (E. H. Carr, What is history, London 1961).
Quanto al rapporto fra causalità storiografica e progettazione, esso ha un notevole valore operativo. Infatti, se progettare vuol dire programmare, che altro è, in senso lato, programmare se non prendere in esame o predisporre una serie di cause che produrranno un determinato effetto? E chi ci dice qualcosa sulla relazione tra cause ed effetti se non la passata esperienza? Evidentemente le cause possono essere di vario ordine e grado, disciplinari ed extradisciplinari, autonome ed eteronome, ma rimane utile comunque l'esperienza storica di ogni tipo di cause per l'effetto che ha prodotto sull'oggetto architettonico. Più esattamente, quel che conta non è la specificità di alcune cause che in passato hanno condizionato specifiche opere determinando specifici effetti: le une e gli altri sono oggi naturalmente mutati, vale piuttosto il rapporto, l'interazione tra cause ed effetti del passato che assai probabilmente può ripetersi ancor oggi.
Ma se quanto precede riguarda la causalità derivante dalla storiografia, ovvera colta in questo campo, ci occuperemo ora più diffusamente di quella dipendente direttamente dalla storia, ossia esamineremo il caso di un'opera d'arte come causa di un'altra opera d'arte. Evidentemente l'idea di causalità è così legata al determinismo dei fattori esterni all'opera da far perdere di vista la causa più diretta e immediata, appartenente alla stessa specie del fenomeno considerato, quella appunto ritrovabile nella tradizione artistica precedente o addirittura identificabile in una specifica fabbrica anteriore. Beninteso, non si tratta di considerare l'architettura che genera architettura solo in quanto catena di fenomeni omogenei, ma di stabilire dei legami fra l'intera storicità dell'opera precedente che vale come causa e gli aspetti che nell'opera seguente risultano essere degli effetti.
Questo rapporto causale si può riscontrare sia a livello delle motivazioni contingenti, sia a quello dei caratteri più peculiari dell'esperienza artistica. Quanto alle prime, la catena di cause-effetti che produce una persistenza stilistica è in architettura maggiore che nelle altre arti: troppi interessi sono legati al fare architettonico per consentirgli dei bruschi cambiamenti di stile. Del resto questa maggiore persistenza delle forme architettoniche rispetto a quella delle altre forme artistiche contribuisce a renderla un più incisivo documento dei tempi. In questo caso delle motivazioni contingenti, persistendo lo stesso quadro socio-economico e culturale, non c'è dubbio che le opere precedenti valgano come cause condizionanti per le fabbriche da progettare. La seconda ipotesi causale è più ricca d'indicazioni. Si tratta in altri termini di verificare se, nonostante le suddette cause eteronome e contingenti, un'opera si assuma come causa di altre anche e soprattutto da un punto di vista artistico e autonomo.
Osserviamo intanto che per i suddetti condizionamenti, anche l'architetto creativo prende le mosse della sua progettazione con una scelta tra le opere preesistenti che soddisfano agli stessi requisiti dell'opera nuova e che rispondono alle sue esigenze di gusto per farne parametri della fabbrica da progettare. Ora, poiché l'opera preesistente contiene già tutti i valori e i limiti d'una determinata condizione storica, continuando o riproponendosi una condizione analoga, il committente e l'architetto non riporteranno nel progetto dell'opera nuova uno a uno tutti i condizionamenti tecnici, sociali ed economici, ma, trovandoli già calati, interpretati ed espressi nella fabbrica primitiva, assumeranno direttamente questa come modello, da imitare o variare in un arco di possibilità più o meno vasto. E la componente estetica o inventiva di tale forma di causalità sta in ciò che avendo l'opera-causa assorbito tutti i condizionamenti, all'opera-effetto non resta che differenziarsi dalla prima solo in ordine ai problemi della conformazione, del gusto, della novità del messaggio e simili, tutti fattori cioè affrancati da condizionamenti vincolanti, e inerenti quindi solo alla sfera inventiva.
Per quanto poco rigorosa possa sembrare questa spiegazione, in pratica è proprio così che avviene: quelle motivazioni, quei legami socio-economici, quegli influssi culturali, nella reale evoluzione storica, in quella che si dice la storia nel suo farsi, sono associati una volta per tutte a un'opera guida, nella cui linea si muovono altre che, eleggendola a modello, la rendono un fattore primario della loro spiegazione causale. Se ciò è vero, andrebbe ribaltata la tendenza, anch'essa assai frequente, ad associare alle opere minori, alla produzione di scuola, alla corrente stilistica i fattori storico-sociali e a lasciare in un'aura ineffabile le opere di elevato valore espressivo, svincolate quasi da ogni nesso causale, proprio per la loro carica fantastica ed eversiva. Viceversa, considerando quest'ultime paradigmatiche anche per le loro valenze estetiche, proprio e specialmente a esse vanno ricondotti tutti i nessi causali e i motivi storico-sociali che, inglobati e risolti in tali opere, le renderanno i nodi causali della storiografia architettonica.
d) La selettività
Il caposaldo storiografico della selettività cerca di rispondere alla domanda sul come e perché ci occupiamo di un evento storico scegliendolo tra un'infinità di altri. Tale scelta comporta almeno due problemi, quello della valutazione e quello delle motivazioni attuali che ci inducono a studiarlo. Che l'arte e per essa l'architettura sia portatrice di valori è fuori di dubbio, ma ai fini storiografici e soprattutto progettuali non conta il valore intrinseco dell'evento, che si dà per presupposto, quanto, ripetiamo, le valutazioni e le scelte che di esso compiamo oggi: ‟In base alla continuità delle attività umane personali ed associate, la portata delle valutazioni presenti non può essere validamente stabilita fino a che esse non sono inserite e viste nella prospettiva dei passati eventi di valutazione coi quali sono continue. Senza di ciò, la prospettiva futura, cioè le conseguenze delle presenti e nuove valutazioni, è impedita" (J. Dewey, Teoria della valutazione, Firenze 1960, pp. 89-90). Grazie a tale assunto, possiamo dire che sono le valutazioni di ieri che ci servono per quelle di oggi e, data la continuità dell'esperienza umana, per quelle future. Ma se ciò vale in generale per il problema della valutazione, in un famoso passo di Croce troviamo più esplicitamente indicata una risposta al problema delle scelte. Alla domanda con quale criterio logico si compie una scelta storiografica, egli risponde: ‟con nessuno: non v'ha criterio logico che possa assegnarsi per determinare quali notizie o documenti siano o no utili e importanti, appunto perché qui ci aggiriamo nella sfera pratica e non già nella cerchia scientifica [...]. Il criterio è la scelta stessa, condizionata, come ogni atto economico, dalla conoscenza della situazione in cui ci si trova, e in questo caso dai bisogni pratici e scientifici di un determinato momento o epoca: la scelta, che è perciò condotta bensì con intelligenza, ma non già con l'applicare un filosofico criterio, e si giustifica solo in sé e da sé medesima [...].
Problema determinato nella soluzione determinata, problema che genera altri problemi; ma che non è mai problema di scelte tra due o più fatti, anzi è creazione, a volta a volta, dell'unico fatto, del fatto pensato" (B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari 19547, pp. 99-102). Anche a non condividere l'assunto dell'inesistenza di criteri selettivi scientifici, è di notevole interesse il fatto di considerare la scelta storiografica come una ‛creazione'; il che avvicina notevolmente l'attività dello storico a quella del progettista. Un punto ancor più vicino al tema delle scelte storiografiche ai fini progettuali è quello in cui lo stesso autore afferma: ‟Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di ‛storia contemporanea', perché, per remoti o remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni" (B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari 19657 p. 5).
Ora, ove non ve ne fossero altri, quest'assunto della contemporaneità della storia è quello che meglio legittima il contributo della storia ai fini progettuali e al tempo stesso la progettualità di una storiografia modernamente intesa. Ma se quello che più conta, almeno come punto di partenza, è la ‛prospettiva contemporanea' per scegliere le opere del passato, programmare quelle del futuro e associare in un certo senso le une alle altre, quale sarà questa prospettiva, ove si escluda una mera ‛ideologia' o un mero pragmatismo? Riteniamo che il metodo strutturalista sia oggi l'unico in grado di assolvere tale compito, di fornirci cioè una ‛costruzione' nella cui trama possiamo inserire sia la ricerca storica sia quella progettuale, nulla concedendo alla cosiddetta filosofia della storia, né al puro empirismo, rappresentando peraltro lo strutturalismo in ogni settore della moderna epistemologia il fenomeno criticamente esponente della nostra contemporaneità. Cosicché, a nostro avviso, quando si parla oggi della contemporaneità della storia, sia per uscire dalla genericità che tante volte ha assunto tale precetto, sia per rispecchiare un reale orientamento dell'attuale ricerca, bisogna dire che contemporanea è una storiografia studiata col metodo strutturalista.
e) Processo e sistema
In quanto metodologia lo strutturalismo vale per i risultati che produce e non ci consente più di eludere la domanda che informa l'intero presente paragrafo, ossia quella relativa all'uso della storia e della storiografia ai fini progettuali.
Certo, tutti siamo convinti che la storia non si ripete, che i prodotti e i comportamenti del passato non sono più quelli di oggi, che il fatto stesso di rifarsi a eventi trascorsi denoti una crisi in atto, ecc. Tuttavia se questi giudizi non si riferiscono alla storia intesa nel senso più generale, ma a qualcuna delle storie particolari e si applica a essa il metodo strutturalista, spesso essi si rivelano dei luoghi comuni se non addirittura infondati. Se, in altri termini, ci riferiamo alla storia dell'architettura non è del tutto vero che in essa non vi siano aspetti che si ripetono, che non vi siano prodotti e comportamenti del passato simili a quelli di oggi, che infine rimeditare gli eventi trascorsi significhi rinunciare o ignorare la presente storicità.
Come spiegare allora e conciliare la parte di vero e quella di falso contenute nei suddetti giudizi sull'uso della storia? La risposta è che, entro certi limiti, una storia particolare si compone in ogni sua fase di alcuni caratteri costanti e di altri variabili, più esattamente, poiché è inconcepibile una fissità assoluta, di fattori che mutano più rapidamente rispetto ad altri, anch'essi mutevoli ma così lentamente da potersi assumere come invarianti storiche. Ora, l'errore degli storicisti ‛puri' consiste nell'aver guardato più agli elementi variabili, agli atti di parole, per usare un termine della linguistica, piuttosto che ai codici, alla langue, e all'opposto, l'errore degli antistoricisti, dei positivisti accademici, consiste nel non aver riconosciuto che tanto le variabili quanto le costanti avevano, sia pure con un diverso ritmo di mutamento, una loro dinamica e una loro interna dialettica: una processualità. Riferendoci, ad esempio, al rapporto fra tipologia e morfologia, la prima è stata giustamente definita una invariante della seconda (v. Canella, 1965); ma è indubbio, dato il carattere dialettico del rapporto (e vale ancora la dicotomia langue/parole), che le trasformazioni morfologiche hanno inciso su quelle tipologiche. Cosicché per chi voglia guardare alla storia ai fini progettuali appare chiaro che dovrà non solo occuparsi più delle tipologie che delle morfologie, ma anche riconoscere alle prime una dinamica e soprattutto individuare il sistema dialettico che unisce le une alle altre. Poiché parliamo di sistema, questo è ritrovabile per numerose altre forme di relazione: l'architettura e la domanda sociale, l'architettura e la tecnica, l'architettura e il contesto topologico, ecc. In sintesi ognuno di tali rapporti è parte di un generale sistema soggiacente al processo della storia.
Sulla scorta di tali osservazioni, il punto, non risolutore ma certamente valido come partenza per una funzione progettuale della conoscenza storica, è quello del rapporto fra ‛processo' (storico) e ‛sistema' (strutturale). ‟A priori - scrive Hjelmslev - sembrerebbe generalmente valida la tesi che per ogni ‛processo' c'è un ‛sistema' corrispondente in base a cui il processo può essere analizzato e descritto per mezzo di un numero limitato di premesse. Bisogna presupporre che qualunque processo possa essere analizzato in un numero limitato di elementi che ricorrono in varie combinazioni. Poi, in base a questa analisi, dovrebbe essere possibile ordinare questi elementi in classi secondo le loro possibilità di combinazione. Dovrebbe inoltre essere possibile costituire un calcolo generale ed esauriente delle combinazioni possibili. Una storia così fondata dovrebbe innalzarsi sopra il livello di una semplice descrizione primitiva, arrivando a quello di una scienza sistematica, esatta e generalizzante, nella cui teoria tutti gli eventi (combinazioni possibili di elementi) siano previsti, e le condizioni della loro realizzazione stabilite" (L. Hjelmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio, Torino 1968, pp. 11-12).
Ora, se da un punto di vista puramente storiografico la tesi di cui parla Hjelmslev lascia qualche perplessità, specie per quell'accento quantitativo (‟eventi come combinazione possibile di elementi"), da quello di una storia utilizzabile ai fini progettuali essa appare assai più convincente; notiamo, per inciso, che alla stessa logica appartiene in un certo senso la teoria della progettazione scientifica di Alexander ricordata più sopra. Diciamo intanto che Hjelmslev si riferisce all'analisi e all'operatività della ricerca linguistica e propone di trasferire questa metodologia ad altri campi. Esaminiamone le possibilità per quanto concerne l'architettura.
La tesi del sistema soggiacente al processo comporta un'operazione di tipo analitico, il riconoscimento del sistema in base ad alcune premesse che porterebbero a individuare alcuni elementi ricorrenti in varie combinazioni, e una di tipo congetturale o stocastico: un calcolo delle combinazioni possibili, ossia degli eventi futuri, considerati, come s'e detto, una combinazione possibile di elementi. In pratica, si tratterebbe di analizzare un processo storico mediante il metodo strutturalista (adozione di premesse, riconoscimento di un numero limitato di invarianti, loro classificazione e combinazione) cogliendone appunto la struttura; successivamente si tratterebbe di progettare nuovi eventi o fabbriche in base alle combinazioni degli elementi trovati all'interno di tale struttura.
Ma giunti a questo punto non possiamo parlare di un procedimento che o non è ancora entrato nella prassi progettuale o viene adottato in modo empirico e inconsapevole. Cosicché il nostro discorso associante storia e progetto, sulla scorta della tesi strutturalistica del rapporto processo-sistema, altro non può essere che una proposta già avanzata in altri precedenti studi (v. De Fusco, 1973).
Ricordando che la premessa per ogni utilizzazione della storia ai fini progettuali è quella di ‛costruire' una struttura-codice, grazie alla quale rendiamo contemporanea la vicenda storica, omogeneizzandola con la programmazione progettuale, adottare lo schema processo-sistema equivale a riconoscere tale costruzione nel vivo del processo storico. Cosicché, assunta l'intera esperienza dell'architettura contemporanea - il patrimonio delle opere, ossia la storia; le varie poetiche, i postulati, i programmi, ossia la teoria; la letteratura critica relativa a entrambi questi fattori, ossia la storiografia - come un processo unitario, se saremo in grado di riconoscere, di ‛costruire', di ipotizzare il corrispondente sistema, avremo ottenuto la struttura-codice che cerchiamo. In particolare, poiché gran parte del nostro compito consiste nell'operare le opportune scelte, nell'individuare in primo luogo un determinato numero di invarianti, nel tentarne la classificazione, nello sperimentarne la combinazione, nel prevedere la loro possibilità di tradursi in nuove fabbriche, arrivando appunto all'organizzazione esatta, sistematica e generalizzante della progettazione, sarà necessario ribaltare il principale caposaldo del metodo storicista: rinunziare cioè a quel principio d'individualità storiografico che abbiamo già visto presentare non pochi punti deboli. Anziché ricercare l'individuale, l'unico, l'irripetibile, il procedimento che proponiamo (evidentemente solo operativo e ‛finzionistico') postula che la sistematizzazione di una lingua architettonica, ricavabile dal processo della storia, debba basarsi sulla ricerca delle invarianti, dei caratteri comuni e costanti ritrovabili in opere, poetiche e teorie fra loro differenti. In altre parole, bisogna tentare di cogliere non ciò che distingue fra loro le opere di Wright, Le Corbusier, Gropius e altre che, per un verso o per l'altro, sono le più significative del movimento moderno (per rifarci a un processo storico vicino, ma lo stesso vale in teoria per uno più remoto), ma essenzialmente ciò che le accomuna. Emergeranno da tale ‛costruzione' tipi morfologici, tipi sintattici, tipi semantici, tipi di proporzionamento, ecc., usi definiti di fattori conformativi quali la symmetria, il rapporto fra esterno e interno, quello fra artificio e natura, quello fra regola e caso, ecc., particolari ‛meccanismi' predisposti per determinati effetti funzionali, comportamentistici, psicologici, ecc., caratteristiche tutte che dovrebbero essere valide e utili indicazioni progettuali.
Un'operazione simile a quella che proponiamo è stata già condotta, sebbene con metodi empirici, in altri settori architettonici, come quello tipologico-distributivo, ma non è stato mai tentato, se non in età classicistica, con tutti i limiti della cultura ottocentesca, nell'ambito che più interessa la progettazione architettonica, ossia quello della morfologia, intesa nell'accezione più vasta del termine. Proponiamo dunque una tipologia formale? Sì, ma più esattamente (ed è in ciò che una moderna langue architettonica va distinta da quella classicistica), una tipologia di elementi costitutivi delle forme; non tanto dei segni quanto dei fattori in cui essi si articolano, ossia dei sottosegni o ‛figure', e una tipologia delle loro regole combinatorie. Pensiamo, evidentemente con larga approssimazione, ma non metaforicamente, a un alfabeto, a un lessico, a una sintassi dell'architettura.
Appare evidente che la nostra deduzione del sistema (progettuale o comunque utile alla progettazione) dal processo (storico) per non cadere in un circolo vizioso, oltre che del metodo strutturalista, necessita di premesse e principi forniti da una particolare scienza, la semiologia. Infatti solo questa disciplina è capace di ridurre la continuità delle forme alla discrezione dei segni e ancora questi in quei tratti più piccoli e discreti, che al limite coincidono con quei pochi che si adoperano in campo progettuale, cioè quei tratti commensurabili rettilinei e curvilinei, orizzontali e verticali, inclinati di tanti gradi ecc., coi quali è possibile disegnare tutto.
E giungiamo così al vero punto nodale del rapporto fra storia e progettazione. Finché il progetto di una fabbrica attingerà dalla storia indicazioni stilistiche, compiute conformazioni, persino segni (nell'accezione del termine da noi sopra proposta), esso riprenderà, ripetendoli più o meno passivamente, precedenti ‛messaggi' e avrà un marchio storicistico, eclettico, revivalistico nel significato peggiore. Se, viceversa, la progettazione attingerà dalla storia sottosegni, elementi discreti, regole combinatorie, ecc., ossia tutto quanto non si configura come messaggio, essa avrà individuato termini invarianti del sistema linguistico, fattori strutturali e strutturanti della langue architettonica, che potranno in piena legittimità essere utilizzati nel programmare una fabbrica nuova, ancorata sì alla tradizione e alla logica interna del fare architettonico, ma del tutto inedita, in quanto nuovo messaggio, per ciò che essa conforma e comunica.
Del resto una conferma di quanto sopra detto in linea teorica si ha dallo storicismo, che informa la più recente produzione architettonica. Sebbene l'attuale recupero della storia, sia intesa come produzione di un passato più o meno remoto, sia intesa come ‛tradizione del nuovo', non produca mai un vero e proprio eclettismo storicistico, esistendo oggi condizioni sociali, scale d'intervento, possibilità tecnologiche tali da consentire alla progettazione odierna ogni ‛citazione', ogni ripresa di elementi, ogni ripensamento della tradizione storica senza cadere nell'eclettismo, la ricerca progettuale contemporanea anche quando opera una tal sorta di bricolage è in genere diversamente orientata. Essa non tende tanto al recupero di intere espressioni da stili del passato, quanto come s'è detto, al recupero di norme, regole, sistemi ed elementi discreti, specie da quelle tendenze sviluppatesi nel movimento moderno, ma in gran parte offuscate dal maggior successo del razionalismo, si pensi all'espressionismo, alla Scuola di Amsterdam, ad alcune produzioni regionali. Insomma, si registra una ripresa sia in ordine ai termini appartenenti alla langue e non alla parole, sia in ordine a una scelta storiografia di momenti inediti e di valenze non del tutto a suo tempo esplicitate.
f) La critica operativa
Quanto abbiamo esposto nel precedente paragrafo e, più in generale, il nostro punto di vista sul rapporto fra storia e progettazione rientrano in quell'atteggiamento definito ‛critica operativa'. ‟Ciò che comunemente si intende per ‛critica operativa' è un'analisi dell'architettura (o delle arti in generale) che abbia come suo obiettivo non un esatto rilevamento, bensì la ‛progettazione' di un preciso indirizzo poetico, anticipato nelle sue strutture e fatto scaturire da analisi storiche programmaticamente finalizzate e deformate. In tale accezione la critica operativa rappresenta il punto d'incontro fra la storia e la progettazione" (v. Tafuri, 1968, p. 165). Segue a tale definizione un excursus di autori che, secondo Tafuri, avrebbero praticato la critica operativa; esso va dalle Vite di G. P. Bellori, considerate ancor più partigiane di quelle vasariane, alle prescrizioni settecentesche iniziate dal Cordemoy, dal Laugier, da C. Lodoli, dallo storicismo ottocentesco, segnatamente di alcuni esponenti della Scuola di Vienna, quali Fr. Wickhoff e sopra tutti M. Dvořák, fino agli storici contemporanei, Giedion, Zevi, Benevolo. La considerazione più significativa nell'esegesi di tale orientamento ci sembra quella per cui la ‛critica operativa' nasce dal preteso superamento della dicotomia storia-teoria: ‟ricongiungere storia e teoria significa infatti rendere strumento di ragionamento teorico la storia stessa, eletta ormai a guida della progettazione" (ibid., p. 177). Ma sebbene Tafuri analizzi i diversi atteggiamenti degli autori citati e ne riconosca alcuni positivi apporti, per quanto ammetta che il loro orientamento è spesso valido sul piano didattico, la critica operativa è per lui ideologia nel senso marxiano del termine; è troppo integrata nella situazione che pretende di orientare e tutto sommato, anche con la sua storia deformata e resa operativa, non costituisce un vitale stimolo per la progettazione. Condividiamo in gran parte questo assunto che stigmatizza la deformazione e l'attualizzazione della storia.
Tuttavia, poiché una qualunque interpretazione della storia, a meno di non credere all'‛obiettività' dei fatti, comporta inevitabilmente una sua codificazione, si tratta di vedere quando questa rifletta un'autentica istanza di contemporaneità e quando si riduca invece a mera ideologia. Cosicché, nell'ambito stesso della critica operativa, va distinta la deformazione storica artefatta e ideologica da quella prodotta dalla critique passionnée di cui parlava Baudelaire e soprattutto da quella che, ‛elaborando' gli eventi storici ai fini della progettazione, tenta da un lato di affrancare la storia dall'erudizione e dall'altro di dare un fondamento meno empirico alla ricerca progettuale. E in tal senso la critica operativa, in quanto agisce in base a dichiarati parametri e a esplicite motivazioni delle sue scelte, offrendo cioè garanzie di verificabilità, diventa un metodo affatto positivo.
Francamente mossa da intenti di critica operativa è tutta l'azione svolta da Zevi nel campo della storiografia architettonica più rispondente alla ricerca progettuale. Il titolo della prolusione tenuta a Roma nel 1963, La storia come metodologia del fare architettonico, è emblematico e l'intero discorso riassume tutte le acquisizioni zeviane anteriori. In esso emergono tre principali tesi.
1. Interazione fra storia e progettazione: ‟se la progettazione ha urgente bisogno della storia per forgiare una metodologia matura, la storia a sua volta esige l'illuminazione costante dell'arte nel suo farsi per scegliere e sviluppare le sue angolazioni interpretative. La dialettica è continua, l'incastro indissolubile in una prospettiva in cui l'obiettivo di fare storia s'identifica, negli strumenti e nei metodi, con quello di fare l'architettura".
2. Scientificità della ricerca storico-progettuale, esigenza che l'autore esprime più chiaramente in un altro scritto dello stesso periodo: ‟Nel pensiero moderno, l'arte è un'attività cosciente, responsabile anche se non razionale, soggetta a verifiche scientifiche; del resto, anche i processi irrazionali sono oggi passibili di analisi. In questa situazione, la storia offre gli strumenti non solo per ‛scrivere' la vicenda del passato, ma anche per scrivere quella presente e preparare la futura. Nel curriculum universitario, la storia non può essere semplicemente ‛un corso', vicino a quelli della progettazione: è il metodo attraverso il quale si elabora, si controlla, si corregge e si verifica la progettazione. Non si tratta più di insegnare la storia dell'architettura, ma di insegnare l'architettura col metodo storico, cioè scientificamente" (v. Zevi, 1964, pp. 290-291).
3. Strumenti per attuare il nuovo rapporto didattico fra storia e progettazione: ‟La storia dell'architettura insegnata da architetti è valida solo nella misura in cui sappia estrinsecarsi, oltre che con gli strumenti verbali e scritti della storia dell'arte, in una critica operativa grafica e tridimensionale [...] si tratta [...] di esprimere un pensiero critico, di ricostruire il processo formativo di un'architettura con i mezzi dell'architettura, cioè di progettare una critica architettonica come si progetta un edificio".
Le tre tesi suddette ci consentono di riprendere alcuni punti della nostra esposizione, di seguire, citando altri scritti di Zevi, gli ulteriori sviluppi della critica operativa in Italia, di stabilire un costruttivo confronto fra tale tipo di critica quando rimane nell'ambito storicistico e quando si evolve in senso strutturalistico.
Quanto al primo punto della prolusione citata, a meno di non essere degli scientisti ortodossi, nessuno può dichiararsi contrario a una interazione costante fra storia e progettazione, come peraltro dimostra di fare la maggiore corrente dell'odierna ricerca progettuale. Relativamente alla tesi da noi riportata al punto tre (che si concretò con quelle letture critiche dell'architettura di Michelangiolo operate mediante alcuni modelli plastici, elaborati presso l'Istituto universitario di Venezia e quindi esposti alla mostra del IV centenario della morte del maestro allestita a Roma nel 1964) essa tocca un interessante tema linguistico. La proposta di Zevi, anticipata in parte dai Critofilms di Ragghianti, consiste nel promuovere i tradizionali mezzi grafici e plastici adottati dalla storiografia al rango di fattori primari, addirittura sostitutivi del linguaggio verbale; nel far ciò evidentemente si tenta di rendere il linguaggio della critica storica omogeneo a quello della progettazione. E anche teoricamente la proposta non sembra mancare di correttezza: se l'architettura vera e propria è un linguaggio, tanto quello della critica espressa in termini verbali, quanto quello espresso in termini iconici rappresentano dei metalinguaggi. Tuttavia se quest'ultimo ha un grado di omogeneità maggiore con il linguaggio-oggetto - ed è questo il lato più positivo della proposta in esame - al tempo stesso appare indubbio che il metalinguaggio verbale dice di più e soprattutto più ‛economicamente' di quello iconico. Ma le aporie della proposta non riguardano solo ragioni pratiche o consuetudini storiche: fra i due tipi di metalinguaggi esiste un divario strutturale e funzionale. Infatti, mentre il metalinguaggio iconico, oltre a esser tale, serve a programmare, prefigurare, anticipare, ecc. il linguaggio-oggetto, ossia la vera e propria architettura, il metalinguaggio verbale serve a interpretare, spiegare, storicizzare, collegare quell'architettura a tutti gli altri eventi, quale che sia la loro natura, che si ritiene opportuno chiamare in causa; compiti per i quali il metalinguaggio verbale rimane finora insuperato e insostituibile. Per questa loro diversa natura e funzione abbiamo chiamato protolinguaggio quello della progettazione e, senz'altro, metalinguaggio quello della storia e della critica.
Quanto alla seconda tesi zeviana, che auspica un modo scientifico comune tanto alla storiografia che alla progettazione, anch'essa è un'esigenza fortemente sentita, salvo beninteso a intendersi su quell'attributo. In ogni caso, ci sembra che Zevi cada in una petizione di principio quando, identificando storia e scienza (senza verificare se il nostro modo di far storia si possa definire scientificamente fondato), ritiene che una garanzia di scientificità possa essere conferita dalla storia alla progettazione.
Per parte nostra altrove e in questo stesso scritto abbiamo sostenuto che anche il più diffuso e accreditato metodo storiografico, quello che si richiama al cosiddetto storicismo tedesco contemporaneo, darà una certa garanzia di scientificità se integrato in ogni suo caposaldo dal metodo strutturalista.
A un'analoga conclusione sembra essere giunto recentemente lo stesso Zevi, allorquando ha posto al centro dei suoi interessi l'esigenza della definizione di una ‛lingua' architettonica: un altro problema che egli opportunamente fa rientrare nel capitolo della ‛critica operativa' e quindi nella tematica del rapporto storia-progettazione. Tra le varie indicazioni rivolte al riconoscimento d'una ‛lingua' architettonica, egli scrive: ‟Il movimento moderno ha rinunciato fin qui a sistematizzare la propria lingua nella fiducia che i testi bastassero. Oggi siamo costretti a constatare che tale fiducia era illusoria. Il passaggio storia-progettazione deve essere mediato dalla lingua, pena la non comunicazione [...]. Non si tratta di ridurre il numero dei testi" - proposta da noi avanzata come esempio di ‛riduzione' storiografica in campo didattico (v. De Fusco e Fusco, 1972) - ‟ma di passare dai testi alla lingua, dai capolavori ad un lessico, ad una grammatica e ad una sintassi comprensibili a tutti, architetti e pubblico, attraverso la mediazione della critica o anche senza di essa" (v. Zevi, 1972, pp. 772-773).
Come si vede, nel riconoscere che fra storia e progettazione il passaggio non può essere diretto, bensì mediato da un terzo fattore, la ‛lingua', ossia una struttura, sembrerebbe che in Zevi sia sorto un serio dubbio sulla scientificità o, almeno, sul valore esaustivo del metodo storicistico, al punto da chiederne l'integrazione con un'altra metodologia. E, infatti, altrove (v. Zevi, 1973) egli propone uno schema strutturale composto da sette invarianti che, a suo avviso, sarebbero il sostegno del linguaggio moderno dell'architettura. Ma, a parte l'identificazione di tali invarianti con una struttura - e non riteniamo che detta identificazione sia stata ancora raggiunta - il limite di un tale strutturalismo sta in ciò, che Zevi spera ancora storicisticamente che dai capolavori si possa trarre un codice, una ‛lingua'. Questi, viceversa, se come s'è detto, si possono intendere come cause condizionanti per le opere successive che li assumono come paradigmi, non riescono da soli a configurare una ‛lingua' architettonica, segnando piuttosto le deroghe, i punti di rottura della ‛lingua' precedente e quindi non certo il grado della sua convenzione sociale. Piuttosto, a voler restare nella logica di derivare un codice dalle opere, sarebbe più opportuno ricavarlo da quelle che abbiamo definito emblematiche - di artisticità diffusa ma non emergente - perché esse contengono, per così dire, tracce del codice stesso.
Una conferma, sia pure indiretta perché tratta di tipologia, di quanto sosteniamo, si trova in uno scritto di Argan, d'altra parte assai pertinente al tema del rapporto storia-progettazione. ‟Mediante la riduzione al tipo l'artista si libera dall'influenza condizionante di una determinata forma storica, la neutralizza: assume il passato come un fatto compiuto e quindi non più suscettibile di sviluppo [...].La scelta di un modello implica un giudizio di valore: si riconosce una determinata opera d'arte come perfetta e si cerca di imitarla. Ma quando l'opera rientra nella schematicità e indistinzione del tipo non c'è più un giudizio di valore che impegni l'azione individuale dell'artista: il tipo viene accettato, ma non viene ‛imitato', cioè la ripetizione del tipo esclude quel processo creativo che è, nella tradizione del pensiero estetico, la ‛mimesi'. Infine, il momento dell'accettazione del tipo è un momento di sospensione del giudizio storico; e, come tale, è un momento negativo, ma ‛intenzionato' nel senso della formulazione di un nuovo valore in quanto, per la sua stessa negatività, pone all'artista la necessità di una nuova determinazione formale, di un'ideazione [...]. Appare così evidente che la posizione dell'artista nei confronti della storia ha due momenti: il momento della tipologia e il momento della definizione formale. Il momento della tipologia è il momento non problematico, quello in cui l'artista pone certi dati, assumendo come fondamento o premessa del proprio operare un insieme di nozioni comuni o patrimonio di immagini, con i loro più o meno espliciti contenuti o significati ideologici [...]. Il momento della definizione formale implica invece il riferimento a ben precisi valori formali del passato, sui quali implicitamente l'artista formula un giudizio di valore [...]. Si conclude perciò con il riconoscere la fondamentale unità o continuità, nel processo creativo, del momento della tipologia e del momento dell'invenzione, quest'ultimo essendo soltanto il momento della risposta alle esigenze della situazione storica attuale, attraverso la critica e il superamento delle situazioni passate, sedimentate e sintetizzate nella schematicità del tipo" (v. Argan, 1965, pp. 79-81).
Non è chi non veda che, se questo vale per i tipi e gli edifici tipici, vale a maggior ragione per quelle fabbriche che definiamo emblematiche, implicando esse la più ampia e complessa questione linguistica.
Comunque paradigmatiche o emblematiche o tipiche che siano le opere del passato recente o remoto, non riteniamo che da esse e da esse solo sia possibile trarre la ‛lingua' o la struttura cercata; resteremmo ancora nell'ambito dello storicismo o, quanto meno, d'una linguistica architettonica empirica. È invece dall'intero ‛processo' storico di un dato periodo (processo inclusivo, come s'è visto, di numerosi altri fattori oltre le opere) che è lecito attendersi l'individuazione di un ‛sistema' o struttura o ‛lingua', di quel terzo fattore cioè che media il passaggio fra storia e progettazione.
A conclusione di tutto quanto abbiamo detto sul rapporto della progettazione con la storia, ci corre l'obbligo di rispondere alla domanda: perché in un'epoca così fortemente segnata dalla tecnologia, dalle cento mitologie futuribili, da quella logica del consumismo dalla quale non possiamo uscire anche se siamo consapevoli dei suoi esiti fatali ecc., molti architetti guardano per la loro ricerca progettuale alla storia?
Le motivazioni sono numerose. Anzitutto un'opposizione proprio alle suddette tendenze in atto: ‟Non si progetta mai ‛per' ma sempre ‛contro' qualcuno o qualcosa" - e stato osservato anche se un po' paradossalmente - ‟[...] contro la rassegnazione all'imprevedibile, al caso, al disordine, alla percossa cieca degli eventi, al destino" (ibid., pp. 63-64). Con analoghi motivi viene spiegato il maggiore movimento storicistico dell'architettura contemporanea: ‟lo storicismo della scuola kahniana è un richiamo al mito europeo della ragione: a tale stregua è un fenomeno d'opposizione alla tradizione pragmatista americana, ormai in bilico fra un'irrazionalità fieristica e un colpevole cinismo" (v. Tafuri, 1968, p. 82). Si guarda ancora alla storia per recuperare una dimensione della memoria, perché, com'è stato osservato, ‟l'antico [è] dentro e fuori di noi" (v. Pane, 1967).
Per parte nostra riteniamo che le molte e varie motivazioni dell'attuale interesse per la storia si possano riassumere in due gruppi, uno tendenzialmente irrazionale (un certo tipo di contestazione del presente, il rifugio nel mito, l'evasione, ecc.), cosi complesso e multiforme che è assurdo accettarlo o respingerlo in blocco, e un altro tendenzialmente razionale e metodologico (la ricerca disciplinare, il recupero di valenze rimaste inesplorate, la risemantizzazione dell'architettura ecc.). E si badi che sono le stesse tendenze che hanno caratterizzato l'intero movimento dell'arte contemporanea, la sua doppia anima che oggi, sia pure per diverse spinte, pone la storia al centro dei suoi interessi. Nel primo gruppo, di cui evidentemente nessuno ignora i limiti, ma che al tempo stesso, dopo la rivoluzione operata dalla filosofia freudiana, nessuno può più sottovalutare, è da ascrivere quella profonda rivolta contro lo ‛strapotere dell'esistente', quella rivendicazione del momento fantastico contro lo stato di fatto che sembra assorbire ogni colpo, ogni innovazione, ogni eversione culturale trasformandola assai spesso a suo proprio vantaggio. Ma dov'è possibile ritrovare la suddetta energia istintuale, la spinta fantastica, la carica sovvertitrice se non nella storia e preistoria dell'immaginario umano? Se persino l'analisi dell'inconscio individuale o collettivo altro non è che la ricostruzione e forse la ristrutturazione di un processo storico? Quello stesso slogan ‟l'immaginazione al potere", per toccare il lato sociopolitico dell'odierna insoddisfazione, ove non si risolva in parole e gesti gratuiti, non affonda le sue radici in rivoluzioni storicamente avvenute o meglio ancora nell'idea che di esse ci siamo fatta?
Preferendo parlare del secondo gruppo di motivazioni, quelle cioè che ci spingono a progettare guardando alla storia secondo ragione, le cose non stanno molto diversamente, nel senso che, se ci muoviamo sempre nella scia di eventi passati, al tempo stesso ciò non ci affranca dallo scacco di alcuni irrazionali momenti della storia. La progettazione, inutile nasconderlo, come dicevamo all'inizio, è solo sporadicamente ascrivibile al ‛pensiero negativo'. Essa è per definizione attività positiva con tutte le aporie che questo comporta. La razionalità della progettazione non consiste allora nella sua efficienza pratica o nel rispecchiare fedelmente un programma prefissato da altri, bensì nella presa di coscienza della propria limitazione, nel tener conto, accanto alle sue possibilità costruttive, del suo potenziale negativo, insomma nella sua capacità di autocritica. A tal fine deve perfezionare al massimo i suoi strumenti, farsi metodologia, attività strutturante; e questa valenza non può nascere da un astratto spirito di sistema, ma dal rendere sistematica l'esperienza di un processo; e ogni processo intenzionato non può che essere storico, sia nel senso d'una vicenda passata, sia nel senso (e nella direzione) della storia nel suo farsi.
(V. anche architettura).
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