profugo/rifugiato
pròfugo/rifugiato. – Da un punto di vista linguistico i due vocaboli, pur essendo spesso usati come sinonimi, indicano due fenomeni legati, ma non coincidenti. Il rifugiato, infatti, è colui che ha lasciato il proprio Paese, per il ragionevole timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità e appartenenza politica e ha chiesto asilo e trovato rifugio in uno Stato straniero, mentre il profugo è colui che per diverse ragioni (guerra, povertà, fame, calamità naturali, ecc.) ha lasciato il proprio Paese ma non è nelle condizioni di chiedere la protezione internazionale. Nella prassi, di fatto, i due termini vengono impropriamente sovrapposti, ma è lo status di rifugiato l’unico sancito e definito nel diritto internazionale fin dalla Convenzione di Ginevra del 1951. A partire dagli anni Novanta del 20° secolo, il numero dei rifugiati è andato aumentando, così come le zone di provenienza dei flussi migratori, ponendo quindi non solo una ridefinizione del concetto stesso, ma anche una necessaria riformulazione della disciplina al riguardo. Da quel momento, infatti, le attività dell’UN refugee agency (UNHCR), società delle Nazioni Unite preposta a fornire e coordinare la protezione internazionale e l’assistenza materiale ai rifugiati, sono andate via via ampliandosi, focalizzandosi sempre più sul trovare soluzioni durevoli per le loro condizioni, capaci di riqualificare in modo dignitoso la loro vita. A oggi, tre sono gli obiettivi di lunga durata proposti per tutelare diritti e benessere dei rifugiati: il rimpatrio volontario, l’integrazione locale o il reinsediamento in un Paese terzo. Tra questi, l’opzione da perseguire resta comunque, quando possibile, quella del rimpatrio, anche a causa di un’oggettiva non omogeneità della normativa in materia di diritto d’asilo e d’immigrazione, a livello sia mondiale sia europeo. È solo a partire dal Trattato di Amsterdam del 1999, infatti, che l’Europa ha scelto di uniformare questi ambiti legislativi, avviando un processo di agire comune basato sulla piena applicazione della Convenzione e incentrato sul principio del non refoulement (respingimento). Gli stessi intenti sono stati posti come obiettivi quinquennali con il Programma dell’Aia del 2005, con cui l’Europa si è impegnata in un progetto quadro per la solidarietà e la gestione dei flussi migratori, contemplando l’istituzione di diversi fondi di assistenza. Nonostante l’avvio di politiche internazionali comuni, la condizione dei profughi/rifugiati si è aggravata nel tempo, al punto che il 2011 è stato dichiarato l’anno più tragico dall’inizio del 21° secolo, avendo visto il raggiungimento della soglia dei 4,3 milioni di persone costrette alla migrazione forzata, 800.000 delle quali hanno ottenuto lo status di rifugiato; questo dato, alimentato anche dall’acuirsi, dalla fine del 2010, delle crisi umanitarie in Costa d’Avorio, Libia, Somalia e Sudan, ha evidenziato l’ingigantirsi del fenomeno e la conseguente necessità di abbreviare l’iter risolutivo di questa condizione. I quasi 35,4 milioni di persone sotto l’egida dell’UNHCR, tra rifugiati, apolidi e sfollati (ossia persone che hanno abbandonato le loro case ma non hanno varcato i confini del loro Paese), provengono soprattutto da Afghanistan, Iraq, Somalia, Sudan e Congo e più della metà si trova in esilio protratto da più di cinque anni, in condizioni non sempre protette e tutelate e con prospettive future ancora vaghe. L’assenza di soluzioni di lunga durata e la conseguente impossibilità di un ricambio all’interno delle strutture di accoglienza diventano così problemi ancora più imponenti, considerando l’attuale ampliarsi delle ragioni per richiedere tale status, come nel caso dei cosiddetti profughi climatico-ambientali, costretti ad abbandonare i propri paesi in seguito a disastri naturali, ma non ancora giuridicamente riconosciuti né tutelati.
Profughi climatico-ambientali. – Lo spostamento di popolazioni causato dal degrado dell’ecosistema e dalle variazioni climatiche non è un fenomeno nuovo nella storia dell’umanità; a differenza del passato, però, la modificazione dell’ambiente a opera dell’uomo è oggi così rapida e di tale forza da risultare imprevedibile, come dimostrano i sempre più frequenti disastri naturali, spesso dovuti ai cambiamenti climatici. Secondo gli studi più recenti delle Nazioni Unite sono più di 200 milioni le persone esposte o potenzialmente esposte agli effetti disastrosi dei mutamenti del clima e in caso di calamità naturale nei paesi in via di sviluppo viene colpita una persona su 19, mentre nei paesi OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) il tasso è di 1 su 1500. Nella maggior parte dei casi, i profughi climatico-ambientali provengono da aree povere caratterizzate da economie di sussistenza, e sono privi pertanto dei mezzi necessari per affrontare lunghi spostamenti motivo per il quale si muovono prevalentemente dal villaggio verso la città più vicina. Per esempio, quasi 1/3 degli abitanti degli slums che circondano le metropoli africane ha dovuto lasciare la propria terra a causa dell’avanzare della desertificazione o del deterioramento del suolo in seguito ai cambiamenti climatici. Molto diversa è la situazione di un’altra fascia di popolazione che rientra nella categoria dei profughi climatico-ambientali: quella degli abitanti delle isole oceaniche o caraibiche minacciate dall’innalzamento dei mari (v. ). Nel 2005 la minaccia si è trasformata in realtà per la maggior parte delle isole Carteret (Papua Nuova Guinea), la cui popolazione è stata costretta all’evacuazione. Nella consapevolezza della drammaticità degli scenari futuri, i governi della gran parte di queste isole hanno cercato di stipulare accordi bilaterali con i paesi confinanti per l’accettazione e sistemazione dei propri migranti. La Nuova Zelanda per es. ha firmato la Pacific access category (PAC) entrata in vigore nel 2002, in base alla quale, ogni anno, viene concessa la residenza a 75 cittadini di Tuvalu e Kiribati, 250 di Tonga e 1100 di Samoa. La questione del cambiamento climatico e delle sue conseguenze sulle popolazioni più vulnerabili è stata anche sottoposta all’attenzione delle Nazioni Unite. Nell’agosto del 2008 è stato presentato all’Assemblea generale un documento nel quale si sottolineano le gravi conseguenze che il cambiamento climatico potrebbe avere sulla stabilità interna di numerosi stati e sulle relazioni internazionali. In questo quadro si è discussa la possibilità di riconoscere lo status di rifugiato ai profughi climatico-ambientali, possibilità al momento non contemplata per la mancanza del requisito dello spostamento oltre i confini del Paese, l’assenza dell’elemento individuale della persecuzione e la possibilità di recupero dei territori oggetto di sconvolgimenti ambientali.