Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le vicende della produzione e della circolazione libraria risentono sia del clima politico e culturale (la stabilizzazione controriformistica nell’Europa cattolica e la fioritura, anche culturale, dei Paesi Bassi), sia dei mutamenti intervenuti nella società e nell’economia, che richiedono, e consentono, una produzione più vasta e secolarizzata.
All’interno della triade di invenzioni poste da Francesco Bacone all’origine del mondo moderno – stampa, bussola e polvere da sparo – la stampa merita senz’altro il primo posto. “Il Signore si è messo al lavoro per la sua Chiesa” – scriveva il puritano John Foxe – “combattendo il suo potente avversario non già con la spada, ma con l’arte della stampa [...] cosicché o il papa dovrà abolire il sapere e la stampa oppure quest’ultima avrà infine ragione di lui”. D’altra parte anche i difensori dell’ordine costituito ripongono talvolta nella stampa grandi aspettative. Un secolo dopo Foxe, Sir Robert L’Estrange, nominato da Carlo II sovrintendente alla stampa, cioè in pratica alla censura, si dichiara convinto che essa stessa, per gran parte responsabile dei disordini che avevano afflitto l’Inghilterra, poteva, se utilizzata con accortezza, essere lo strumento per ristabilire l’ordine naturale: “La stampa li ha fatti impazzire e la stampa deve farli rinsavire”.
Tuttavia, sul ruolo della stampa, sia i timori e gli entusiasmi di eterodossi e tradizionalisti, sia quelli degli storici e dei massmediologi dei secoli successivi sono stati forse eccessivi. Nel Seicento infatti la stampa è ancora lontana dal ricoprire quel ruolo di Quarto Potere che avrebbe avuto nei secoli seguenti. Se non altro perché in gran parte dell’Europa la quantità di coloro che sono in grado di leggere e scrivere rimane sconfortantemente bassa.
Il peso della stampa nell’evoluzione culturale e nella vita pubblica va quindi valutato nel contesto del funzionamento complessivo di un sistema pluralistico in cui vecchi e nuovi (per l’epoca) media interagiscono. Quella del Seicento è ancora, in larga misura, una cultura della parola (parlata), dell’immagine e del suono. Il teatro, l’architettura, la pittura, la musica, le cerimonie laiche e religiose, la circolazione orale di notizie e opinioni nei luoghi d’incontro come i mercati, i salotti, le osterie, i mulini, i bordelli e i caffè, hanno per lo meno altrettanta importanza dei libri e dei pamphlet. E poi naturalmente ci sono i pulpiti e i predicatori di ogni confessione. Forse sono loro il medium di massa più efficace e pervasivo dell’Europa moderna. Si deve a Carlo I Stuart l’affermazione secondo cui “in tempo di pace la gente è governata più dal pulpito che dalla spada”. Una verità di cui lo stesso Carlo I non ha tenuto sufficientemente conto.
Più che concorrenza, tra i vari media, tra oralità e scrittura, vi è comunque sinergia. I pamphlet e i manifesti riprendono e alimentano la circolazione di notizie, vere o false che siano. Le discussioni nei caffè e nei salotti decretano il successo di vendite di un trattato politico o di una nuova commedia, mentre la pubblicazione di prediche e sermoni è spesso un ottimo affare per i tipografi.
Nel corso del secolo comunque la stampa si afferma come la componente più dinamica e innovativa del sistema dei media e dà un apporto decisivo alla creazione e all’ampliamento della sfera pubblica, ovvero alla rete di discorsi che riguardano questioni di interesse collettivo e che divengono ora accessibili a un pubblico non più limitato alla ristretta élite politica.
La stampa offre naturalmente un formidabile strumento di propaganda e i momenti di crisi politiche e religiose che scuotono gli Stati europei nel Seicento coincidono con una esplosione di fogli sparsi, libelli, trattati e pamphlet. In Francia, ad esempio, durante la crisi istituzionale degli anni 1614-17, vengono scritti oltre 1200 pamphlet. Un numero notevole che però viene eclissato dall’ondata di mazarinades che sommerge il Regno durante la Fronda, tra il 1648 e il 1652: oltre 5 mila opuscoli di vario tipo e tendenza, molti dei quali contenenti immagini più o meno rozze. Ancora più mediatiche sono le rivoluzioni inglesi. La lotta politica e religiosa in Inghilterra a cavallo della metà del secolo è alimentata anche da un diluvio di libelli, più di 15 mila, un indice dell’alto livello di alfabetizzazione raggiunto nelle isole britanniche, che porta a una trasformazione delle forme della lotta politica. Accanto ai pamphlet occasionali, in Inghilterra acquistano un rilievo senza precedenti le pubblicazioni periodiche. Il “Mercurius Britannicus” è il più importante giornale di orientamento parlamentare. Gli si contrappone il “Mercurius Aulicus” e in seguito il “Mercurius pragmaticus”, diretto dallo stesso Marchmont Nedham, creatore, pentito, del “Britannicus”. L’ampiezza della circolazione di libelli e giornali ci consente di parlare dell’instaurazione di una sfera pubblica che non è neppure solo borghese, ma coinvolge ampi strati popolari, almeno nelle città.
La restaurazione degli Stuart nel 1660 mette fine alla lunga parentesi di effervescenza editoriale e giornalistica della stagione rivoluzionaria e del Commonwealth. Il monopolio dell’ufficiale “London Gazette”, pubblicata a partire dal 1665, subentra al pluralismo dei decenni precedenti. Ma non si può parlare di un puro e semplice ritorno allo status quo prerivoluzionario. I momenti di tensione politica come la Crisi dell’Esclusione, aperta dalla proposta di legge presentata al Parlamento nel 1678 per escludere i cattolici, e quindi Giacomo II dalla successione al trono, immediatamente trovano espressione nella stampa: tra il 1679 e il 1681 vengono stampati in Inghilterra tra i 6 e i 10 milioni di copie di pamphlet che prendono posizione sull’Esclusione.
La chiusura, più o meno ermetica, degli spazi di libertà apertisi durante gravi crisi come la Fronda o la rivoluzione inglese dimostrano come il percorso verso la libertà di espressione non sia lineare e progressivo. Non a caso, per definire questi momenti di grande intensità e libertà comunicativa, ma anche di durata relativamente breve, si è parlato di “sfera pubblica temporanea”. In realtà, la tendenza dominante durante il Seicento non pare essere quella verso una maggiore libertà, ma verso un più stretto controllo sul lavoro di autori ed editori. La tendenza si era per la verità già chiaramente delineata nel secolo precedente e l’introduzione dell’Index librorum prohibitorum nel 1559 può essere presa come spartiacque periodizzante, almeno per l’Europa rimasta cattolica. Quella di Milton, che nell’ Aeropagitica tesse uno degli elogi più alti alla libertà di espressione, rimane tutto sommato una voce isolata.
Il rafforzamento del controllo sulla produzione libraria non è certo un’esclusiva dell’Europa cattolica, ma è pur vero che proprio nell’Europa cattolica trova una più efficace e universale applicazione. La produzione libraria si orienta quindi sempre più verso scelte tradizionali e ortodosse di carattere quasi esclusivamente religioso: opere di carattere devozionale, la patristica e le opere dei grandi filosofi scolastici o dei classici. Questa sclerotizzazione interessa soprattutto la produzione di alta qualità tipografica dei grandi editori, più esposti e quindi più sorvegliati. La produzione di lusso tende quindi a diventare culturalmente conservatrice, mentre la diffusione dei fermenti intellettuali e scientifici è spesso affidata a una produzione libraria di basso livello editoriale e non di rado clandestina, come accade anche per alcune opere di Galileo. La Chiesa – meglio sarebbe dire le chiese – non è però la sola a interessarsi alla stampa. Anche gli Stati e le Monarchie nazionali che si vanno consolidando cercano di controllarla e anche di utilizzarne le potenzialità. Il rafforzamento della censura e la creazione di stamperie regie, come l’Imprimerie Royale fondata da Richelieu nel 1640, sono due strumenti che perseguono la medesima finalità di disciplinamento e controllo, ma anche di impulso alla produzione. Un altro strumento di controllo anche fiscale dell’attività editoriale è la concessione di monopoli a compagnie e corporazioni. Dal 1557 al 1696, ad esempio, la London Stationers Company detiene il monopolio della stampa. La comparsa di periodici direttamente promossi dallo Stato, il cui prototipo è la “Gazette”, poi “Gazette de France”, del 1631, sotto il patronato di Richelieu e diretta da Théophraste Renaudet, rientra in questa strategia.
Nell’Europa delle contrapposizioni confessionali e dell’assolutismo trionfante, le Province Unite e Amsterdam rappresentano uno spazio di libertà. Questa libertà, insieme a una diffusa prosperità, spiega perché il Seicento sia il secolo d’oro delle Province Unite anche per quanto riguarda l’industria editoriale. Il vasto mercato formato da ricchi borghesi che fanno anche la fortuna dei grandi pittori olandesi del tempo stimola l’industria editoriale. Metà dei libri stampati in Europa nel corso del Seicento è uscito dai torchi di Amsterdam o delle altre città della Repubblica. Nel 1699 nella capitale si contano 273 librai e nel complesso l’industria editoriale dà di che vivere a circa 30 mila persone.
Anche in questo particolare ramo produttivo, gli Olandesi possono giovarsi dell’apporto di immigrati provenienti da tutta Europa. Particolarmente numerosi sono i rifugiati ugonotti, giunti dalla Francia dopo l’editto di Fontainebleau (1685), e dai Paesi Bassi meridionali, rimasti nelle mani degli Spagnoli. Tra questi immigrati, vi è lo stampatore Louis Elzevier, originario di Lovanio e trasferitosi a Leida, dove nel 1576 era stata istituita un’università. La dinastia degli Elzevier dà vita a quella che è forse la più importante azienda editoriale del secolo con sedi, oltre che a Leida, a L’Aia, Utrecht e Amsterdam. A loro si deve l’introduzione del formato “in dodicesimo”, inizialmente osteggiato dagli studiosi, ma che va incontro alla richiesta del mercato di prodotti di buona qualità, anche maneggevoli e relativamente poco costosi. Il primato olandese poggia anche su alcune innovazioni tecniche nella produzione della carta: oltre ad applicare al processo produttivo l’energia derivata dai mulini a vento (una caratteristica dei Paesi Bassi) gli Olandesi sostituiscono i magli delle folle per la battitura degli stracci con cilindri rotanti che danno un prodotto di migliore qualità. Lo stesso primato commerciale e marittimo dell’Olanda è anche legato allo sviluppo di un particolare settore della stampa, quello degli atlanti e della cartografia, con figure come quella di Hondius. La diffusione, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, della tecnica di incisione su rame in sostituzione della xilografia consente inoltre esecuzioni molto più accurate.
La tecnica dell’incisione su rame trova applicazione anche nella riproduzione di immagini. Ancora una volta il mutamento tecnico è in stretto rapporto con l’evoluzione sociale, la conseguenza e al tempo stesso il mezzo di una certa democratizzazione dei consumi. L’incisione su rame mette a disposizione di un pubblico più vasto riproduzioni accettabili per fedeltà e precisione dei capolavori pittorici. Artisti come Rubens o Poussin collaborano all’illustrazione di libri.
Il binomio libertà e ricchezza è all’origine di un altro sviluppo innovativo che vede le Province Unite all’avanguardia: lo sviluppo della stampa periodica. Non è in verità l’Olanda a darle i natali: il primo giornale vero e proprio è generalmente considerato l’“Avisa Relation oder Zeitung”, pubblicato a partire dal 1609 ad Augusta. Sempre in Germania, a Francoforte, rilevante centro fieristico, appare nel 1615 il “Frankfurter Journal” e l’anno successivo il “Frankfurter Oberpostamts”. Solo nelle Province Unite esistono però le condizioni sociali e politiche perché la stampa periodica contribuisca a trasformare quella che abbiamo chiamato una “sfera pubblica temporanea”, legata a emergenze insurrezionali o rivoluzionarie, in un’autentica “sfera pubblica permanente”, uno spazio istituzionalizzato di confronto sui temi pubblici aperto alla partecipazione di tutti i cittadini, o almeno di ampi strati della popolazione, borghesi ma anche popolari. Nel 1618 fanno la loro comparsa i primi giornali olandesi, il “Courante uyt Italien, Duytschland” (“Giornale d’Italia, Germania”...) e poco dopo il “Tydinghen uit verscheyde quartieren” (“Notizie da luoghi diversi”...). Già dai titoli è evidente come l’interesse del pubblico olandese vada ben al di là della realtà locale, aprendosi sull’Europa e sul mondo. Riflesso questo del ruolo di metropoli mondiale che Amsterdam si è conquistata. Come e più di Venezia, Amsterdam è una città cosmopolita: “Quando si entra in questa città”, scrive Fénelon, “non si pensa che sia una città che appartiene a un popolo particolare, ma che essa sia la città comune di tutti i popoli e il centro del loro commercio”. E infatti è ad Amsterdam che viene pubblicato il primo vero giornale inglese, anche a causa delle restrizioni alla libertà di stampa vigenti in Inghilterra.
Non è evidentemente la semplice curiosità per Paesi lontani ad alimentare la domanda di informazione che questi primi giornali cercano di soddisfare. Allora come oggi disporre di informazioni affidabili e tempestive sull’andamento dei mercati e sulla situazione politica di Paesi più o meno lontani è essenziale per i grandi operatori economici – mercantili, finanziari – ma anche per quella vasta platea di piccoli investitori che affidano i loro risparmi alle Compagnie delle Indie, orientali e occidentali.
La gazzetta pone naturalmente nuovi problemi dal punto di vista editoriale e richiede innovazioni tecniche e organizzative. La periodicità impone ritmi di lavoro molto più rapidi. I fogli di notizie devono essere composti, stampati e distribuiti in pochi giorni. Dal punto di vista più strettamente tipografico la gazzetta è costretta ad abbandonare il modello del libro e il frontespizio e a trovare soluzioni di impaginazione per comporre su una pagina a più colonne testi brevi e di importanza diseguale. Si delineano così le gerarchie di posizione all’interno della pagina che caratterizzano i giornali odierni.
L’interesse per l’attualità politica e la cronaca, per quello che avviene non solo del proprio Paese ma in most part of Christendom (gran parte della cristianità), come recita appunto il titolo di una gazzetta inglese, è espressione della consapevolezza della crescente integrazione e interdipendenza dei vari spazi europei. Le gazzette diventano anche lo strumento della formazione di un’opinione pubblica europea, un fenomeno solo apparentemente in contrasto con la cristallizzazione dei confini fra Stati e confessioni religiose.
Un altro aspetto di questo cosmopolitismo per lo più elitario è quello che si è autodefinito la Repubblica delle lettere, ovvero la comunità transnazionale e transconfessionale dei dotti e degli uomini di scienza. È a questo pubblico, certo ristretto e selezionato, che si rivolge un altro tipo di stampa periodica specializzata. Si tratta dei periodici a carattere letterario e scientifico. Nel 1665 compare a Parigi il “Journal des Sçavans” (diventato poi “Journal des Savants”), immediatamente seguito dal “Philosophical Transactions” a cura della Royal Society di Londra. In Italia la prima iniziativa analoga è il “Giornale de’ letterati” stampato a Roma nel 1668, che prende come modello il “Journal des Sçavans” parigino. Giustamente il periodo compreso fra la seconda metà del Cinquecento e i primi decenni del Settecento è stato considerato l’età dell’oro della Repubblica delle lettere e la stampa periodica scientifica ed erudita diventa il principale canale di circolazione dell’innovazione culturale.
Una caratteristica del Seicento europeo nel campo del consumo librario è l’istituzione o l’ampliamento di importanti biblioteche reali, ecclesiastiche o personali, simbolo di prestigio e strumento di organizzazione del sapere. È da ricordare in particolare la risistemazione della Biblioteca Vaticana (che incorpora gran parte della Biblioteca palatina di Heidelberg e quella dei duchi di Urbino) soprattutto per impulso di Clemente VIII, la costituzione della Biblioteca ambrosiana per iniziativa di Federico Borromeo a partire dal 1603, le biblioteche di Richelieu e poi di Mazzarino e gli ampliamenti delle biblioteche reali nelle diverse monarchie assolute.
Nel corso del Seicento si rafforza l’importanza di un altro tipo di produzione libraria, destinata ad altri settori della popolazione e che trova diversi canali di circolazione. Si tratta di una produzione eterogenea di almanacchi, abbecedari e piccole opere, spesso rozzamente illustrate con xilografie. La Bibliothèque bleue (dalla rilegatura in carta azzurra), che prende avvio a Troyes proprio all’inizio del XVII secolo per iniziativa dei librai Oudot, viene considerata la manifestazione più fortunata e duratura di questo tipo di letteratura. Ma in ogni Paese d’Europa troviamo questa tipologia mercelogica. I chapbooks in Inghilterra vengono venduti per la modesta somma di 2-4 pence e il solo libraio Charles Tias nel 1664 ne ha un magazzino di 100 mila esemplari.
La qualifica di letteratura popolare è comunque ambigua e in parte fuorviante. Innanzitutto perché non sempre sono opere concepite per il consumo dei ceti popolari. Spesso si tratta di edizioni molto economiche di testi con tutt’altra destinazione originaria, ma che vengono ritenuti adatti, nell’opportuna veste editoriale a basso costo, a un più largo smercio. Questo genere di opere non viene inoltre letto solo in ambienti popolari.
Del resto le opere più corrive e tradizionaliste, come i romanzi cavallereschi, gli almanacchi e i libricini devozionali, e le opere più audaci e scandalose per il loro contenuto intellettuale o semplicemente pornografico, si trovano spesso a condividere gli stessi canali di diffusione alternativi rispetto ai librai rispettabili. Si tratta in entrambi i casi di edizioni poco vistose, che circolano soprattutto grazie a mercanti ambulanti, in genere non specializzati, che li vendono, soprattutto nel caso dei libri proibiti, “sotto il mantello”, offrendoli discretamente, e non senza rischi, alla clientela potenzialmente interessata. In certi casi queste opere vengono stampate segretamente, come avviene per Le provinciali di Pascal. È però una scelta rischiosa perché le stamperie sono conosciute e facili da sorvegliare. Molto più arduo è invece sigillare i confini di uno Stato, attraversati costantemente da ogni genere di merce di contrabbando, tra cui appunto i libri. La maggior parte dei libri clandestini viene quindi data alle stampe al di fuori del territorio cui è destinata e poi introdotta clandestinamente. È il caso, ad esempio, della Storia del Concilio di Trento di Paolo Sarpi, pubblicato a Londra.
Gli Europei portano naturalmente con sé la stampa nel corso della loro espansione intercontinentale. Nell’America iberica essa è strettamente legata alle esigenze religiose. All’inizio del secolo i soli centri di diffusione libraria sono Città del Messico e Lima, cui si aggiungono Cuenca e Santiago de Guatemala. Il controllo politico e religioso sulla produzione libraria da parte della madrepatria è molto stretto. Più vivace il panorama nell’America inglese dove il primo torchio è azionato nel 1638 nella colonia del Massachusetts fondata dai Padri Pellegrini arrivati nel 1620 con il Mayflower. Nel corso del Seicento altri laboratori di stampa vengono fondati a Boston (1674), Filadelfia (1685), New York (1693) e Jamestown (1682). Nel 1663 viene stampata anche una Bibbia in lingua indiana. In Asia i Portoghesi avevano impiantato nel secolo precedente tipografie a Goa e in altre località. In Cina, dove viene utilizzata una tecnica basata sull’incisione su legno, i missionari europei introducono i caratteri mobili e anche in Giappone, fino alla chiusura del Paese alla penetrazione europea nel 1638, vengono stampate varie opere di carattere religioso e non.
Al di fuori delle aree direttamente controllate dagli Europei, o comunque dove questi hanno un presenza significativa, i progressi della stampa sono invece lenti o nulli. Nella stessa Russia occorre attendere il regno di Pietro il Grande per veder impiantate le prime tipografie, ovviamente strettamente controllate dal governo.
Ancora più difficile la situazione nel mondo musulmano, dove l’opposizione alla stampa sulla base di motivazioni religiose è molto forte. Ma vi è anche la contrarietà del governo del sultano sulla base di ragioni squisitamente politiche, come ha modo di osservare Henry Oldenburg, segretario della Royal Society: “Il Gran Turco è un nemico della conoscenza per quanto riguarda i suoi sudditi, perché trova vantaggioso avere un popolo della cui ignoranza può approfittare. Perciò non sopporterà la stampa, essendo sua opinione che la stampa e il sapere, specie quello che si trova nelle università, siano il principale combustibile della divisione tra i cristiani”.