Israele-Palestina, processo di pace
Israèle-Palestina, procèsso di pace. – Le speranze del processo di pace israelo-palestinese nel 21° sec. sono indissolubilmente legate all’obiettivo di due entità statuali autonome, Israele e Stato palestinese, che vivano una accanto all’altra in pace e sicurezza. Soluzione estremamente difficile, evocata ormai come fosse un esercizio retorico di stile, di grande impatto, ma senza alcun aggancio con la realtà dei fatti. L’ipotesi dei due stati, peraltro, implica non meno nodi da sciogliere di quella di un unico Stato binazionale, soluzione che gli israeliani non permetterebbero mai, costretti in questo caso a subire la pressione demografica palestinese e le sue minacciose conseguenze culturali, sociali e politiche sull’identità ebraica della nazione. Il nodo irrisolto della questione palestinese riemerge costantemente nello scenario di crisi mediorientale, come elemento di turbativa nelle relazioni tra Stati Uniti e paesi arabi e come fattore dolorosamente, ma anche pretestuosamente, evocato negli scoppi di rabbia e di violenza delle popolazioni arabe contro i paesi occidentali; ciò nonostante nessun attore internazionale sembra ormai pensare che sia possibile trovare una soluzione e l’assenza di prospettive domina la scena. La popolazione palestinese, che dagli anni Novanta del Novecento ha visto sensibilmente peggiorare le sue condizioni e speranze di vita, vive rassegnata tra abusi e divieti israeliani e assiste alla continua espansione ebraica in Cisgiordania, sulla carta combattuta dagli Stati Uniti, ma di fatto ampiamente consentita: la libertà israeliana nel disporre secondo i suoi interessi dei territori palestinesi è infatti il risultato dell’assenza di una seria pressione statunitense sul governo di Gerusalemme. Il primo decennio del nuovo secolo, inoltre, ha visto scomparire dalla scena due protagonisti storici del conflitto tra i due popoli: da un lato Yāsir ῾Arafāt (v.), rappresentante simbolo dei palestinesi, morto nel 2004 ma la cui credibilità era stata ormai da tempo minata sia dalla sfiducia israeliana sia dalle numerose critiche interne per la sua gestione clientelare e verticistica del potere; dall’altro Ariel Sharon, uscito dalla scena politica per una grave malattia nel gennaio 2006. La loro presenza, retaggio di un clima di contrapposizione insanabile, era forse un ostacolo alle trattative, ma la loro scomparsa non sembra aver dato impulso alla pace, mancando in entrambi i fronti una presenza forte in grado di fare accettare ai due popoli le necessarie e dolorose rinunce che sole porterebbero alla fine dello stato di crisi. Nello stesso frangente temporale la scena politica palestinese è apparsa rivoluzionata dalle vittorie politiche e sul campo di Ḥamās, l’unica forza in grado di incanalare le frustrazioni della società palestinese disillusa dalla decennale inconcludenza del negoziato di pace. Dialogare con Ḥamās, responsabile di orribili attentati contro la popolazione israeliana e dell’incitamento all’odio contro lo Stato d’Israele, di cui l’organizzazione nega il diritto all’esistenza, è un compito amaro per Israele, ma forse indispensabile per trovare una via d’uscita.
I fallimenti del processo negoziale. – Al passaggio del secolo, a scavare un solco profondo tra israeliani e palestinesi è stato il fallimento del vertice di Camp David (luglio 2000), un appuntamento fortemente voluto dall’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, il cui secondo mandato era in scadenza, e sulla cui opportunità ed eccessiva precipitazione nella convocazione dei lavori erano stati sollevati molti dubbi. Nonostante le perplessità e la sfiducia tra le parti, il vertice fu caratterizzato da un clima generale di attesa e il mancato raggiungimento di un accordo ebbe una grande portata simbolica negativa, esasperando ancora di più la distanza tra le posizioni e scatenando le accuse reciproche per l’attribuzione delle responsabilità del fallimento. Tutte le questioni di maggiore importanza furono messe in discussione: la delimitazione delle frontiere dei due stati, e quindi, nello specifico, quanta parte della Cisgiordania, contigua territorialmente, avrebbe formato lo Stato palestinese; la costruzione della barriera di sicurezza israeliana, il cui tracciato ingloba porzioni consistenti di territorio palestinese, e rivelatasi un’arma vincente nel contrastare gli attentati suicidi palestinesi in Israele; l’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e infine, al centro del problema, la sovranità su Gerusalemme e il destino dei profughi palestinesi. Su ognuno di questi temi le posizioni furono inconciliabili (v. Camp David, vertice di). La paralisi delle trattative evidenziata a Camp David ha preparato il terreno allo scontro manifestatosi di lì a pochi mesi con lo scoppio della seconda intifāḍa (v.) nel settembre del 2000. Un nuovo tentativo di riavviare i negoziati di pace fu lanciato alla fine dell’aprile 2003 con la presentazione della road map, un piano da attuare per fasi successive, concordato dall’amministrazione del presidente statunitense George W. Bush con Russia, Nazioni Unite e Unione Europea. Il traguardo era posto nel 2005, data che avrebbe dovuto vedere la fine dell’occupazione israeliana e la nascita di uno Stato palestinese, conditio sine qua non per una normalizzazione delle relazione tra Israele e i paesi arabi. Le riserve espresse sul piano da Israele, non disposta a dare fiducia alla controparte palestinese nel merito della rinuncia al terrorismo e alla violenza, archiviarono di fatto come inattuabile e insoddisfacente la road map. Sempre nel 2003, un’iniziativa non ufficiale di colloqui di pace si concluse a dicembre a Ginevra (v. Ginevra, accordo di) con la firma da parte delle delegazioni dei negoziatori israeliani, per lo più esponenti dell’opposizione, e palestinesi di un accordo i cui punti chiave erano la rinuncia palestinese al ritorno in Israele dei profughi e la rinuncia israeliana alla sovranità sulla Spianata delle moschee a Gerusalemme. L’attenzione e il consenso mostrati per l’iniziativa di Ginevra dalla comunità internazionale e dagli stessi estensori della road map nulla poterono di fronte alla chiusura mostrata dal governo israeliano, che sostanzialmente ignorò l’accordo. Ciò nonostante gli analisti concordarono nel ritenere l'accordo un fondamentale punto di arrivo di 10-15 anni di trattative, capace di far tesoro dei tanti fallimenti e di far leva sulla necessità di una rinuncia da entrambe le parti. L’ultimo tentativo di rilanciare il processo negoziale nel primo decennio del nuovo secolo si è arenato ad Annapolis (v.), in occasione della conferenza internazionale del novembre 2007 presieduta dall’allora segretario di Stato degli Stati Uniti, Condoleeza Rice (v. Annapolis, conferenza di). La platea dei partecipanti racchiudeva per la prima volta dopo oltre vent’anni anche i paesi arabi, invitati a partecipare ai lavori nel tentativo di risolvere il conflitto israelo-palestinese nel suo contesto regionale più ampio. Un passo avanti, rispetto ai tanti indietro compiuti, ma non coronato da successo. Dalla chiusura di Annapolis, peraltro, molto è poi cambiato per effetto della cosiddetta primavera araba, e il quadro mediorientale, con la guerra civile siriana in atto, si presenta fortemente in bilico; in questo contesto le preoccupazioni regionali e internazionali convergono sulla minaccia iraniana a Israele e il problema palestinese appare sempre più ricacciato sullo sfondo.