PROCESSO COSTITUZIONALE
(App. IV, III, p. 55)
L'allargamento delle funzioni della Corte costituzionale nell'ultimo decennio si è accompagnato all'introduzione di novità caratterizzanti i procedimenti seguiti dalla Corte nell'esercizio delle sue funzioni. È noto che la stessa Corte, in una sua discussa decisione (sent. 16-23 marzo 1960 n. 13), ha escluso di poter "essere inclusa fra gli organi giudiziari, ordinari o speciali che siano, tante sono, e tanto profonde, le differenze tra il compito affidato alla prima, senza precedenti nell'ordinamento italiano, e quelli ben noti e storicamente consolidati propri degli organi giurisdizionali". Se ne dovrebbe ricavare che la disciplina dei suoi procedimenti "secondo modalità e con garanzie processuali" è solo il risultato di una "scelta del metodo considerato più idoneo dal legislatore" per assicurare un adeguato esercizio delle attribuzioni della stessa Corte. Ciò ha consentito a questa di affiancare alle normali manifestazioni di autonomia di un organo collegiale ("Regolamento generale della Corte costituzionale", e "Regolamento per i ricorsi in materia di impiego del personale della Corte costituzionale") due ulteriori testi normativi, rispettivamente, con norme integrative per i giudizi davanti alla Corte e per i giudizi di accusa.
A questa produzione di norme in via esplicita e diretta si accompagna la crescita di una giurisprudenza creativa di diritto mercé la quale la Corte viene vieppiù delineando i tratti distintivi delle sue procedure.
Anzitutto si è andata sempre più appannando la distinzione fra decisioni in via definitiva da adottare con sentenza e altri provvedimenti per i quali può adottarsi l'ordinanza (art. 18 l. 87 del 1953). Il numero delle ordinanze è venuto progressivamente crescendo, specie negli anni fra il 1985 e il 1988, allorché la Corte si è impegnata a ridurre, prima, ed eliminare, poi, il pesante arretrato ereditato dagli anni precedenti. Ed è sempre più evidente che alle sentenze la Corte fa ricorso per la definizione delle questioni trattate in udienza, riservando le ordinanze alla trattazione in camera di consiglio. Ove, del resto, essa si avvale di due pragmatici orientamenti adottati negli ultimi anni, per cui − da un lato − essa ritiene "di poter procedere all'esame della questione in Camera di consiglio, ancorché si sia verificato l'intervento del presidente del Consiglio dei ministri" (cui non ritiene di attribuire la qualità di parte ai fini dell'art. 26, secondo comma, l. 87 del 1953), e − dall'altro lato − estende alle decisioni di manifesta inammissibilità il rito da quella stessa disposizione previsto per le ordinanze di manifesta infondatezza (sentenza 30 giugno-6 luglio 1983 n. 210, e delibera collegiale della Corte del 5 maggio 1981).
Inoltre risulta allargato anche il raggio di utilizzazione dello strumento dell'ordinanza sia per quanto ha tratto alla dichiarazione della manifesta infondatezza sia per quanto concerne quella di manifesta inammissibilità. Oggi a quest'ultima si fa ricorso anche in casi in cui la Corte usava rimettere con ordinanza al giudice a quo la questione per una nuova valutazione di uno degli elementi della questione medesima, ovvero per il completamento di un adempimento formale precedentemente trascurato o inadeguatamente posto in opera: il che sembra, però, preludere alla possibilità di una riproposizione alla Corte, ad opera dello stesso giudice a quo, di questione già dichiarata inammissibile quando l'inammissibilità dipenda da elemento disponibile dallo stesso giudice. Si hanno poi decisioni d'inammissibilità quando la Corte ritiene che le si chieda di sostituirsi al legislatore nell'esercizio della discrezionalità legislativa. Infine, la decisione di manifesta infondatezza viene presa con ordinanza in camera di consiglio non solo quando investe questione dalla Corte già respinta in precedente giudizio, ma anche allorché la stessa Corte viene investita di questione analoga a quella già dichiarata infondata e tuttavia resolubile in base agli stessi principi enunciati nella prima decisione.
Tutti questi svolgimenti dimostrano che la Corte interpreta con una certa libertà il suo ruolo, conformando i propri strumenti alle sue necessità del momento, e non già ingabbiando queste ultime nella rigidità di schemi formali prefigurati. Di conseguenza i fattori di uniformità e costanza dei suoi comportamenti, quando esistenti, vanno ricercati nella fedeltà della stessa Corte ai suoi precedenti e, quindi, all'interpretazione da essa data alle regole che ne disciplinano il funzionamento, anziché in queste regole soltanto, considerate nella loro astrattezza e separatezza dall'esperienza reale. Importante è, infine, constatare che gli orientamenti ora accennati hanno trovato applicazione anche ai giudizi in via principale concernenti i rapporti fra Stato e Regioni, anche se in questo caso il ricorso alla camera di consiglio è reso più difficile dall'abituale presenza in giudizio delle parti ricorrenti. In questo settore, d'altra parte, considerevole può essere il peso dei precedenti della stessa Corte sia in materia procedurale che in campo sostanziale per l'identità di disciplina cui sono assoggettate le Regioni ad autonomia ordinaria e, quindi, per l'importanza che può avere in futuro nei confronti di altre Regioni l'orientamento espresso nei riguardi di una. Non è, però, ancora stato definito il punto se decisioni rese nei confronti di una Regione in ordine all'appartenenza di una determinata attribuzione possono produrre effetti di cosa giudicata nei confronti di altra Regione.
Un'innovazione molto importante è rappresentata dalla modifica dell'originario ultimo comma dell'art. 18 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Inizialmente si era previsto che ordinanze e sentenze della Corte fossero sottoscritte dal presidente e da tutti i giudici, "senza menzione del giudice che le ha redatte": a partire dalla delibera del 7 luglio 1987 ordinanze e sentenze sono sottoscritte dal presidente e dal giudice cui la Corte ha conferito il compito di provvedere alla redazione della decisione.
In tal modo, da un lato, vengono facilitate le operazioni di sottoscrizione delle decisioni cui si può provvedere anche senza avere la presenza di tutti i giudici della Corte, e, dall'altro lato, viene dato speciale rilievo all'apporto del giudice estensore. In via di principio questi potrebbe, anzi, essere persona diversa dal giudice relatore, giacché l'attuale testo degli articoli 7 e 18 delle norme integrative, prevedendo due nomine distinte per l'uno e per l'altro, chiaramente distingue i due ruoli e ne consente l'affidamento anche non alla medesima persona. Inoltre, individualizzando l'apporto dell'estensore, si consente di meglio valutare la posizione dei singoli giudici nell'elaborazione della giurisprudenza della Corte: vero è che ogni decisione ha da essere approvata collegialmente dalla Corte anche nella sua stesura finale, e però è probabile che normalmente l'incarico di estensore sia affidato a chi ha concorso e aderito alla decisione della controversia. Il che potrebbe favorire la progettata introduzione delle opinioni dissenzienti.
Con una qualche elasticità la Corte interpreta anche le norme che le consentono di rimettere dinanzi a sé medesima questioni di costituzionalità partendo da un procedimento pendente dinanzi a essa, e quindi agendo come un giudice a quo, e la seconda parte dell'art. 27 della l. 87 del 1953 per cui essa può dichiarare "quali sono le altre disposizioni legislative la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata". Ambedue questi versanti della sua attività finiscono per riguardare la possibilità di un allargamento del thema decidendum, cui invece si oppongono le pratiche più restrittive spesso seguite in questi anni dalla Corte in sede di sindacato sul giudizio di rilevanza effettuato dal giudice a quo e dall'orientamento in tema d'indicazione delle norme costituzionali violate e di quelle di fonte ordinaria censurate. Quanto all'illegittimità consequenziale, questa viene dichiarata sia con riguardo a disposizioni che riproducono pedissequamente la disposizione ritenuta incostituzionale in via principale, sia in ordine a disposizioni attuative di questa, ovvero con essa collegate per connessione inscindibile. Le rimessioni davanti a sé medesima disposte dalla Corte hanno, invece, interessato norme relative al giudizio costituzionale, norme presupposte da quelle impugnate, norme sulla competenza del giudice a quo e norme implicate nelle argomentazioni che sorreggono la proposta censura di costituzionalità.
Con la l. costituzionale 16 gennaio 1989 n. 1, la competenza penale della Corte è stata ristretta alle sole accuse promosse contro il presidente della Repubblica, a norma della Costituzione. Di conseguenza è stato anche modificato l'art. 12 della l. costituzionale 11 marzo 1953 n. 1, prevedendo che la delibera del Parlamento in seduta comune per la messa in accusa del capo dello Stato sia adottata "su relazione di un Comitato formato dai componenti della giunta del Senato e da quelli della giunta della Camera dei deputati competenti per le autorizzazioni a procedere in base ai rispettivi regolamenti". La disposizione si applica anche alle ipotesi di concorso del presidente del Consiglio dei ministri, di ministri nonché di altri soggetti nei reati previsti dall'art. 90 della Costituzione. Quando sia deliberata la messa in stato di accusa del presidente della Repubblica, la Corte può disporre la sospensione dalla carica. Con l. 5 giugno 1989 n. 219, è stata data esecuzione a queste modifiche ridisciplinando il compimento dei relativi atti d'indagine, i poteri cautelari e coercitivi della Corte e l'estensione della competenza della Corte per connessione. Il comitato parlamentare di cui sopra è competente a esercitare il potere di revisione attribuito al pubblico ministero dal codice di procedura penale.
Vi sarebbe da aggiungere qualcosa sui conflitti fra i poteri dello stato di cui in questi anni sono state parti la commissione parlamentare inquirente, commissioni d'inchiesta, giudici istruttori, il presidente del Consiglio dei ministri, i promotori di un referendum abrogativo, l'Ufficio centrale per il referendum, un ministro in proprio e per delega del presidente del Consiglio, pretori, la Corte dei Conti, le due Camere separatamente considerate, la presidenza della Repubblica, il Consiglio superiore della Magistratura, ma anche il ministero di Grazia e Giustizia. Si è dunque constatato che le relative norme costituzionali sono applicabili a un largo raggio di fattispecie, purché vi siano coinvolti organi dello stato titolari di "una quota di attribuzioni costituzionalmente definita" (Zagrebelsky 1988), e si controverta in ordine all'interpretazione delle norme concernenti tali attribuzioni.
La dottrina tiene ferma la distinzione fra i conflitti tra i poteri e quelli tra Stato e Regioni e tra Regioni sottolineando che solo per questi ultimi la legge richiede la presenza di un atto invasivo, ma la Corte si è avvalsa della sua giurisprudenza in materia regionale per allargare l'area degli atti suscettibili di dare ingresso a conflitto, mentre non si è mai avuto conflitto causato da un mero comportamento. Il profilo può venire in particolare rilievo quando dalla fase preliminare del giudizio sull'ammissibilità del conflitto tra i poteri si passa a quella di merito, in cui talora si è ritenuto inammissibile il conflitto provvisoriamente ammesso, per ragioni attinenti alle funzioni e, quindi, agli atti di cui in causa.
Bibl.: Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Atti del Convegno di Trieste 26-28 maggio 1986, Milano 1988; G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna 1988; Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1987-1989), a cura di R. Romboli, Torino 1990; Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1990-1992), a cura di R. Romboli, ivi 1993. Sono molto utili due raccolte di leggi, curate, rispettivamente, da M. Chiavario, Codice della giustizia costituzionale, Milano 1985, e P. Costanzo, Codice di giustizia costituzionale, ivi 1989.