PROCESSO COSTITUZIONALE
. Molte sono le novità intervenute dal 1960 a oggi, sia sul piano legislativo, sia su quello della prassi e della giurisprudenza, nei diversi rami del p. costituzionale.
A) Alle due leggi costituzionali (n. 1 del 1948 e n. 1 del 1953) e alle sue leggi ordinarie (n. 87 del 1953 e n. 265 del 1958) sulla composizione e sul funzionamento della Corte costituzionale, ricordate nella voce corte costituzionale (App. III), si sono aggiunte la legge (ordinaria) 25 genn. 1962, n. 20 (sui giudizi di accusa), la legge costituzionale 22 nov. 1967, n. 2 (che ha sostituito l'intero testo dell'art. 135 Cost.), la legge (ordinaria) 18 marzo 1976, n. 65, modificativa della l. n. 20 del 1962, e infine la legge (ordinaria) 10 maggio 1978, n. 170 (modificativa della l. n. 20 del 1962, per la parte relativa alla figura e alle attribuzioni della Commissione inquirente).
Anche nel campo della larga autonomia normativa e organizzativa della Corte merita di essere ricordata qualche rilavante novità: il "Regolamento generale" del 1958 è stato sostituito da un nuovo Regolamento 28 genn. 1966 (modificato il 7 luglio 1969) attualmente in vigore; inoltre è stato emanato, ma non pubblicato, il "Regolamento degli uffici e del personale" dell'8 aprile 1960 (con successive modifiche); ancora, in materia di "autodichia", il "Regolamento per i ricorsi in materia di impiego" del 17 nov. 1962; infine, a seguito della legge sui giudizi di accusa del 1962, sono state emanate dalla Corte il 15 dic. 1962 le "Norme integrative per i giudizi di accusa", fondate sull'art. 25 Reg. gen.del 1958 (e ora sull'art. 30 Reg. gen. del 1966) che ha largamente, ma esattamente, interpretato l'autonomia normativa della Corte di cui all'art. 22 l. n. 87.
Per quanto riguarda la composizione ordinaria della Corte, la principale novità è rappresentata dall'aumento del quorum per l'elezione dei cinque membri di estrazione parlamentare che avviene ora "con la maggioranza dei due terzi dei componenti dell'Assemblea" nei primi tre scrutini e con la "maggioranza dei tre quinti dei componenti l'Assemblea" nei successivi.
Anche la durata in carica dei giudici è stata ridotta da dodici a nove anni (quella del Presidente da quattro a tre anni) dalla legge cost. del 1967, la quale, prescrivendo che "alla scadenza del termine il giudice costituzionale cessa dalla carica e dall'esercizio delle funzioni", ha implicitamente, ma sicuramente escluso la possibilità per il giudice scaduto di continuare a svolgere i compiti inerenti all'ufficio fino alla sua concreta sostituzione (cosiddetta prorogatio), istituto espressamente stabilito dall'art. 18 Reg. gen., ma ora abrogato.
L'unica eccezione all'abrogazione della prorogatio risulta, secondo la recente prassi seguita nel cosiddetto "caso Lockheed", con riferimento ai "giudici ordinari e aggregati che costituiscono il collegio giudicante" (cosiddetta Corte "integrata") nei giudizi di accusa. Essi "continuano a farne parte sino all'esaurimento del giudizio, anche se sia sopravvenuta la scadenza del loro mandato" (art. 26 u.c.l. n. 20 del 1962). La Corte costituzionale, sia nella composizione "integrata", sia in quella "ordinaria", ha escluso, con due ordinanze (rispettivamente del 5 e del 7 maggio 1977), che tale disposizione sia stata abrogata dalla l. cost. n. 2 del 1967 che riguarda bensì la prorogatio dei giudici, ma non la particolare situazione del collegio giudicante costituito per un giudizio di accusa, la cui "immutabilità" fino al termine del giudizio è resa necessaria "al fine di assicurare, in condizioni di indipendenza e di imparzialità, il contributo di tutti i giudici in carica all'atto della costituzione di quel particolare collegio".
Per quanto riguarda in particolare i giudici "aggregati", dalla recente e finora unica esperienza del cosiddetto "caso Lockheed" è possibile ricavare alcune precisazioni, relative alla disciplina che li riguarda. La Corte (ordinaria) ha stabilito che le cause d'incompatibilità ("prefunzionali") con l'iscrizione nell'elenco dei 45, dal quale saranno poi sorteggiati i sedici giudici aggregati, sono rappresentate dalle seguenti ipotesi: la qualità di parlamentare, di componente il Consiglio superiore della magistratura, i vari casi d'ineleggibilità (d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361) e incompatibilità parlamentari (l. 15 febbr. 1959, n. 60). Le cause d'incompatibilità "funzionali" (ossia con lo "status" vero e proprio di giudice aggregato, assunto dopo il sorteggio, dal momento del giuramento all'esaurimento del giudizio) sono poi le stesse dei giudici ordinari.
B) Passando più propriamente al p. c., ossia ai modi nei quali la Corte svolge le sue quattro funzioni istituzionali (giudizi di legittimità costituzionale, sui conflitti di attribuzione, di ammissibilità del referendum abrogativo, di accusa), se ne segnalano qui soprattutto, rispetto ai modelli originari disegnati dal Costituente, gli aspetti concreti e gli sviluppi della prassi giurisprudenziale.
a) Tutte le attribuzioni istituzionali della Corte costituzionale sono riconducibili al principio dell'assoluta preminenza della Costituzione nei confronti delle leggi e di qualsiasi altro atto dei pubblici poteri. Più precisamente tale principio, in origine, e nel disegno costituente, collegato alla rigidità della Costituzione (principio di legalità formale), si è venuto sviluppando e approfondendo nell'esigenza di una sempre maggiore conformità del sistema normativo (e in genere di tutte le manifestazioni di potere) ai valori costituzionali, concepiti non già staticamente e immutabilmente, ma nelle loro storiche mutazioni. Significativo, nella venticinquennale esperienza giurisprudenziale della Corte, è il largo uso dello strumento del sindacato sulla "ragionevolezza" o "non arbitrarietà" delle leggi che segna (o dovrebbe segnare) il passaggio della concezione formale e negativa a quella sostanziale e positiva del principio di uguaglianza.
È stato inevitabile che la Corte, nella progressiva identificazione del suo ruolo - all'interno di un sistema politico-costituzionale che non trova più, come nell'Ottocento liberale, il suo centro di unificazione e di controllo nei soli organi parlamentari - abbia finito per interferire con funzioni che, tradizionalmente, erano riservate ad altri poteri.
La rimozione originaria (sent. n. 1 del 1956) della distinzione tra norme programmatiche e norme precettive della Costituzione, con il riconoscimento dell'immediata precettività anche delle prime, ha costituito la base della futura giurisdizione costituzionale con implicazioni e valenze politiche o di opportunità.
D'altra parte, la Corte, fin e soprattutto dall'inizio, si è costantemente preoccupata di non concorrere con la sua opera a determinare vuoti legislativi. Proprio a questa preoccupazione vanno ricollegati la creazione e l'uso delle sentenze "interpretative di rigetto", con le quali la Corte respinge la questione di costituzionalità e, mantenendo intatto il testo legislativo, ne propone (e ne sollecita) una diversa interpretazione che lo renda conforme alla Costituzione.
Più in particolare l'interpretazione sulla quale fa leva la Corte, per non dichiarare incostituzionale una legge o una disposizione di legge, piò essere "correttiva", nel senso di ridurre o limitare la portata significativa della disposizione, ovvero "adeguatrice", nel senso di ricondurre il significato della disposizione di legge in un ambito di compatibilità con quello della norma o del principio costituzionale, Per es. sembra piuttosto "correttiva" l'interpretazione che indusse la Corte, in un primo momento, a "salvare" l'art. 2 t.u.l.p.s. che attribuiva al prefetto il potere di ordinanza, intendendolo come contenuto in determinati limiti (sent. n. 8 del 1956), e sembra piuttosto "adeguatrice" l'interpretazione che, sempre in un primo tempo, sostenne la decisione di rigetto della questione di costituzionalità relativa all'art. 392 c.p.p., nel senso di ritenere ammesse anche nell'istruzione sommaria le garanzie di difesa (sent. n. 11 del 1965).
Tuttavia è proprio il significato di tali sentenze, di sollecitazione e collaborazione per un verso con il potere legislativo nell'adeguare la legislazione ai valori costituzionali, che apre per altro verso la possibilità di conflitti con il potere giurisdizionale, dato il carattere soltanto persuasivo e non vincolante di tali decisioni. Se gli operatori giuridici - e in particolare i giudici - non accettano l'interpretazione della legge indicata dalla Corte, quest'ultima, alla sentenza interpretativa di rigetto, potrà far seguire una sentenza interpretativa o parziale di accoglimento, in virtù della quale è eliminato dal sistema il significato incostituzionale della disposizione.
Alle due decisioni prima ricordate sono infatti seguite nel senso appena illustrato, rispettivamente, la sent. n. 26 del 1961 e la sent. n. 52 del 1965. Ma veramente esemplare nel senso del conflitto con il potere giurisdizionale è la vicenda relativa ai limiti della retroattività delle sentenze di accoglimento. Ai tradizionali limiti della sentenza passata in giudicato, della prescrizione di un diritto e della decadenza dall'esercizio di un potere, le sezioni unite della Cassazione penale (sent. 24 genn. 1966) hanno aggiunto l'ulteriore limite degli atti processuali già compiuti in procedimenti ancora in corso, atti che vanno ritenuti intangibili anche se adottati sulla base di una legge dichiarata incostituzionale. Alle ripetute affermazioni della Corte sull'inapplicabilità della legge dichiarata incostituzionale a situazioni non definitivamente consolidate, secondo l'esplicito e non incostituzionale disposto dell'art. 30 l. n. 87, e quindi sulla piena incidenza degli effetti retroattivi nei processi pendenti (sent. n. 52 del 1965 e n. 127 del 1966), le sezioni unite della Cassazione penale hanno risposto con la sentenza ricordata alla quale la Corte costituzionale ha finito per conformarsi (sent. n. 49 del 1970), riconoscendo, in definitiva, l'esclusiva competenza dei giudici comuni per quanto riguarda la determinazione dei limiti che la "retroattività" delle sue decisioni "di accoglimento" incontra a livello di legislazione ordinaria.
La composizione dei conflitti (possibili e reali) con il potere giurisdizionale e la perdurante inerzia del legislatore hanno preparato il campo all'insorgenza di potenziali conflitti con il potere legislativo. Infatti, il sempre crescente ricorso a sentenze di accoglimento interpretative o parziali o "manipolative" che dir si voglia, le quali eliminando in definitiva dal sistema le norme contestate, vincolano autoritativamente i giudici, porta molto spesso come conseguenza all'operazione complementare di evocazione delle norme sostitutive. Non sempre, e spesso soprattutto non tempestivamente, il legislatore ha provveduto in proposito. Così che è stata la Corte stessa a "sostituirsi" al potere legislativo, spingendosi molto avanti con i suoi interventi, specialmente nell'ultimo decennio, fino a sollevare il dibattito sulla presunta ingerenza nell'ambito della discrezionalità legislativa, ossia del "merito" o della "opportunità" delle leggi.
Il discorso non riguarda però tanto quelle che potrebbero denominarsi "sentenze di indirizzo" e che sono state chiamate, variamente, "sentenze-delega", "sentenze-legge", "sentenze-didascaliche", ecc., siano esse "di accoglimento" (per es. le notissime decisioni in materia radiotelevisiva: sentt. n. 225 e n.226 del 1974, n. 202 del 1976; o l'altra, significativamente definita "sentenza ponte verso i tribunali amministrativi", n. 49 del 1968, che ha affermato l'importante principio della non rinnovazione di giudici elettivi; o ancora, la n. 155 del 1972, in tema di affitto di fondi rustici, vivacemente contestata in sede parlamentare), siano "di rigetto" (per es. le sentenze n. 34 del 1973 sulle intercettazioni telefoniche, nella quale le direttive sono direttamente rivolte ai giudici e solo indirettamente al legislatore, e n.177 dello stesso anno relativa alle nomine governative al Consiglio di Stato, nella quale gl'indirizzi sono immediatamente rivolti al governo e solo mediatamente al Parlamento), quanto piuttosto le sentenze che sono state definite "manipolative" o "manipolatrici", ma anche "creative" o "integrative", e che, più propriamente, si distinguono in decisioni che aggiungono una o più norme al dettato legislativo per renderlo conforme a Costituzione (sentenze "aggiuntive" o "additive") e decisioni che sostituiscono alla norma dichiarata incostituzionale una norma diversa (sentenze "sostitutive"). Le decisioni d'indirizzo, infatti, rappresentano il naturale svolgimento della premessa relativa all'autentica natura della giurisdizione costituzionale, che non è (o ha cessato di essere) semplice giurisdizione caducatoria o di annullamento, ma pur non essendo "legislazione politica", concorre all'elaborazione legislativa alla luce dei "valori" e dei "fini" costituzionali. Le decisioni d'indirizzo, contenendo soltanto consigli, avvertimenti, indirizzi, direttive e, al più, moniti per il legislatore, rientrano quindi senz'altro nell'opera di adeguamento della legislazione al dettato costituzionale attraverso la quale si svolge il processo di attuazione, realizzazione e sviluppo della Costituzione stessa.
Le sentenze che costituiscono il vero punto critico dell'opera svolta in questi anni dalla Corte costituzionale sono dunque quelle che colpiscono una parte ideale della disposizione, ossia una norma, un significato normativo, lasciando - anch'esse - inalterato il testo legislativo, che però non potrà più esprimere il significato caducato. Esse, a differenza delle decisioni d'indirizzo, sono immediatamente operative e vincolanti i giudici, e in questo senso possono anche qualificarsi come "autoapplicative". L'eventuale opposizione dei giudici e degli altri operatori giuridici - che pure non è mancata - può essere in ogni caso superata dalla Corte con il ricorso a sentenze di accoglimento tout court che eliminino puramente e semplicemente il testo legislativo e che rappresentano l'ultima, anche se non la migliore, ratio per evitare l'applicazione di norme incostituzionali (v. per es. la vicenda che collega la sent. n. 9 del 1965 e la sent. n. 49 del 1971).
In quest'ultimo caso alla suprema esigenza di rimuoverla veggenza di una legislazione incostituzionale è sacrificata l'altra esigenza della certezza del diritto e dell'orror vocui, il timore cioè dei vuoti prodotti nel sistema. Ma è proprio questa preoccupazione che, secondo una certa critica delle giurisprudenza costituzionale, non dovrebbe mai condizionare o limitare la funzione istituzionale della Corte rivolta all'adeguazione dell'ordinamento alla Costituzione, che sarebbe quella di eliminare semplicemente dal sistema qualsiasi testo legislativo incostituzionale. Se non che, non è difficile rilevare come proprio la funzione istituzionale della Corte è meglio svolta, prima e indipendentemente dall'estremo rimedio dell'eliminazione totale delle disposizioni normative, con la ricerca e l'individuazione di significati normativi costituzionalmente inammissibili - ciò che corrisponde poi a una concezione storica e realistica dell'ordinamento come sistema in divenire e non come insieme discreto di elementi irriducibili.
In ogni caso la giustificazione delle sentenze manipolative o di annullamento parziale si presenta problematica quando la dichiarazione d'incostituzionalità colpisce una norma ricavabile dalla disposizione, in quanto la disposizione dalla quale essa è dedotta "non dice" od "omette" alcunché e l'omissione sia ritenuta significativamente dagli operatori giuridici (e dai giudici) "esclusiva" del significato normativo costituzionalmente richiesto. Tali sentenze che sembrano aggiungere nuove norme o "integrare" le disposizioni normative sono state severamente criticate. Basta però riflettere sul fatto che la norma aggiunta non è già liberamente creata dalla Corte, ma piuttosto ricavata dal sistema, dai princìpi della legislazione e talvolta dalle stesse norme costituzionali, per ricondurre il fenomeno in una misura accettabile e legittima. Se l'opera della Corte è, in qualche modo, legislativa o, si potrebbe meglio dire, evocatrice di una normativa implicita o quiescente, tale legislazione, se legislazione è, si muove, com'è stato ben detto, nei limiti di "rime obbligate".
Esempi di sentenze "aggiuntive" possono ritenersi la n. 27 del 1975, che ha riconosciuto la liceità dell'aborto terapeutico colpendo la norma incriminatrice per la parte in cui essa sembrava ricomprenderle nella fattispecie delittuosa o, in altri termini, sembrava incostituzionalmente escludere l'eccezione costituzionalmente necessaria; la n. 219 del 1975 - che ha suscitato le più vivaci reazioni negative parlamentari - relativa all'estensione ai professori universitari del trattamento economico della dirigenza amministrativa; al n. 190 del 1970, che ha dichiarato illegittimo l'art. 304 bis c.p.p. nella parte in cui non prevede il diritto del difensore di assistere nella fase istruttoria all'interrogatorio dell'imputato; la n. 133 dello stesso anno, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 145 c.c. nella parte in cui non subordina alla condizione che la moglie non abbia mezzi sufficienti il dovere del marito di somministrarle ciò di cui ha bisogno.
Ancora più grave il problema si presenta se e in quanto si vogliano e si riescano a distinguere dalle sentenze "aggiuntive" le decisioni cosiddette "sostitutive", in cui la Corte dichiara l'incostituzionalità della legge nella parte in cui contiene una certa norma anziché un'altra. Ed è in questi casi che più propriamente s'invoca la derivazione dai principi generali o dalle stesse norme costituzionali delle norme che la Corte evoca e per così dire attualizza, mentre sembra crearle dal nulla, per giustificare il fenomeno.
Esempio emblematico di sentenza "sostitutiva" è rappresentato dalla n. 62 del 1971 che si ricollega alla n. 190 dell'anno precedente, relativa alla presenza del difensore all'interrogatorio nella fase istruttoria. Essa è, in certo modo, interpretativa della precedente, nel senso che l'omessa previsione dell'art. 304 bis c.p.p. va intesa senz'altro come divieto della presenza del difensore, con la conseguenza che la dichiarazione d'incostituzionalità del divieto si tradurrebbe, secondo la Corte, nell'automatico insorgere del diritto del difensore di assistere all'interrogatorio. Peraltro tale estensione dei diritti del difensore è dichiarata e - si potrebbe dire - autoritativamente imposta dalla Corte, dopo che una parte della giurisprudenza ordinaria non si era ritenuta vincolata alla prima delle due decisioni. Qui si scorge bene come la Corte opera la sostituzione di una norma con un'altra, imponendo la corretta interpretazione della disposizione manipolata. Altro esempio è offerto dalla sent. 15 del 1969, in cui la Corte, dichiarando incostituzionale l'art. 313, 2° cpv., c.p., che prevedeva il potere del ministro di Grazia e Giustizia di concedere l'autorizzazione a procedere per i reati di vilipendio della Corte costituzionale, ha riconosciuto a sé stessa il corrispondente potere.
I dubbi e gl'interrogativi sulla correttezza e legittimità di tali sostituzioni - che sarebbero altrimenti rilasciate all'opera interpretativa dei giudici - vanno superati e risolti, al solito, nell'esatto riconoscimento della natura della cosiddetta "giurisdizione costituzionale" accentrata in apposito organo, quale la Corte, alla quale compete di mediare l'ordinamento a livello legislativo con i principi e programmi della Costituzione, e che, se no è "rappresentativa" allo stesso modo del Parlamento, è certamente dotata di un "grado" di rappresentatività maggiore di quello dei giudici comuni.
b) La ratio della presenza della Corte costituzionale nel nostro sistema sta tutta nel significato del principio di legittimità costituzionale che consente di valutare in modo unitario tutte le attribuzioni della Corte e quindi le varie forme del processo costituzionale.
Non solo nel processo di costituzionalità in via incidentale si manifesta l'incidenza del principio di legittimità costituzionale, cui corrisponde la presa di coscienza che la Corte ha ruolo "politico" che essa svolge nel sistema. Per il procedimento in via incidentale vanno per lo meno segnalati: a) estensione e la profondità del sindacato, quale risulta dall'esaminata varietà delle decisioni; b) il notevole uso che la Corte fa del controllo sulla "rilevanza" nel processo a quo della questione di costituzionalità che non è riservato al giudice di questo processo, ma, esercitato dalla Corte, funge da filtro per selezionare questioni ammissibili da questioni non ammissibili non sempre sulla base di criteri rigorosamente giuridici; c) l'ampliamento progressivo delle "sedi" da cui è possibile l'instaurazione del p.c. (procedimenti di giurisdizione volontaria, di liquidazione degli usi civici, di esecuzione esattoriale, relativi all'esecuzione delle pene e all'applicazione delle misure di sicurezza, procedimento di reclamo al Consiglio nazionale forense contro provvedimenti disciplinari, procedimento davanti alla commissione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, lo stesso p.c. nelle sue varie forme, fino ai procedimenti di controllo davanti alle sezioni della Corte dei Conti) al fine di ampliare al massimo il sindacato di costituzionalità (o il numero delle leggi che ad esso possono in concreto essere sottoposte), inteso più come rivolto all'oggettiva osservanza della Costituzione, che non alla soddisfazione dei diritti e degl'interessi individuali costituzionalmente protetti che pure assumono una rilevanza notevole nel disegno del sistema incidentale.
Nel processo di legittimità costituzionale in via principale o di azione - preventivo quello promosso dallo stato contro le leggi regionali in formazione (art. 127 Cost.), successivo quello promosso dalle Regioni contro le leggi statali e di altre Regioni - vanno ricordati, nello stesso ordine d'idee, il diverso rilievo che la Corte ha dato nel corso della sua consolidata giurisprudenza all'interesse, attuale e concreto, rispettivamente, dello stato e delle Regioni, necessario per l'instaurazione del giudizio, nonché l'estensione praticamente a tutti i vizi di "eccedenza dalla competenza", per cui il ruolo dello stato, a differenza di quello delle Regioni, nel processo in via di azione finisce per essere configurato come quello di tutore dell'integrità dei valori costituzionali in genere, più che di difensore della propria sfera di competenza.
In tema di conflitti, sia tra poteri dello stato - ancora limitati in concreto ai pochi casi verificatisi negli ultimi anni; dal conflitto tra autorità giudiziaria e commissione parlamentare inquirente risolto con sent. n. 13 del 1975, a quello tra autorità giudiziaria e commissione parlamentare d'inchiesta (cosiddetta "antimafia") risolto con sent. n. 231 dello stesso anno; dal conflitto tra autorità giudiziaria e governo sulla legittimità dell'opposizione del segreto politico-militare ai conflitti tra promotori del referendum abrogativo e Ufficio centrale per il referendum presso la Cassazione - sia tra stato e Regioni - la cui esperienza è già piuttosto ampia soprattutto con riferimento alle Regioni speciali - la giurisprudenza della Corte costituzionale va interpretata nel senso della progressiva attuazione del principio di legittimità costituzionale nella particolare manifestazione della ripartizione delle competenze (attribuzioni) costituzionali. Si spiega in tale ottica il dilatarsi dell'ipotesi dell'usurpazione di funzioni (per la quale l'ente le cui funzioni sono usurpate ne rivendica la spettanza a sé: cosiddetta vindicatio potestatis - ipotesi tra l'altro pressoché inconcepibile o irrealizzabile nei conflitti tra poteri) a quella del sindacato su ogni attività che comporti comunque una menomazione di competenza, dall'ipotesi cioè del sindacato sulla spettanza del potere a quella del giudizio sul modo di esercizio di esso. Così che, in definitiva, gli stessi conflitti di attribuzione da giudizi di parte tendono a diventare strumenti volti, in generale, all'oggettiva tutela della legittimità costituzionale degli atti dei pubblici poteri, affiancandosi in tal modo ai giudizi di costituzionalità delle leggi.
Ma la dimostrazione più convincente della riduzione di tutte le forme di p.c. all'ispirazione unitaria rappresentata dal principio di legittimità costituzionale, ossia dall'attuazione e realizzazione progressiva della Costituzione, è offerta dalla sent. n. 16 del 1978 che ha dilatato il giudizio sull'ammissibilità del referendum abrogativo ex art. 75 Cost. molto ben oltre le ipotesi ivi contemplate, fino a impedire l'esperimento referendario nei confronti di leggi a contenuto costituzionalmente vincolato o di leggi costituzionalmente garantite, con la conseguente tendenziale identificazione o, meglio, riduzione anche del giudizio sull'ammissibilità del referendum a giudizio sulla sua legittimità costituzionale in genere.
È notorio, infine, come la prima e finora unica esperienza di processo costituzionale di accusa si sia di recente verificata a proposito del caso Lockheed. Questa attribuzione della Corte (politicamente integrata), che si riassume nella formula della "giustizia politica", sembrerebbe, a prima vista, differenziarsi radicalmente dalle sue altre funzioni. Ma l'unica effettiva differenza di fondo è di carattere strutturale, poiché il giudizio verte su comportamenti del Presidente della Repubblica, dei ministri e, per connessione, di altri soggetti (cosiddetti "laici"), posti in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, ai fini della rilevazione della illiceità di essi alla stregua - almeno nel caso dell'accusa a ministri - di parametri normativi predeterminati e della conseguente responsabilità costituzionale, penale, amministrativa e civile, e non già su atti dei pubblici poteri ai fini di determinarne l'illegittimità. Qui le conseguenze del giudizio incidono sull'efficacia e sull'operatività di atti illegittimi, lì attengono alle sanzioni da irrogare ad alcuni dei soggetti pubblici (ma anche privati) in quanto responsabili di comportamenti illeciti. In entrambe le ipotesi, però il parametro del giudizio e la sostanza di questo, pur in forme giurisdizionali, sono direttamente ricollegabili ai supremi valori costituzionali, la realizzazione dei poteri della maggioranza e, in certa misura, dello stesso principio democratico da parte della Corte costituzionale, la quale, se non è organo direttamente elettivo e quindi politico, non è neppure riducibile allo schema del potere giurisdizionale, sopravvalutando forme, modalità e procedimenti che nel loro insieme costituiscono l'aspetto esterno e visibile del processo costituzionale.
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