Processo civile
(XXVIII, p. 280; App. II, ii, p. 612; III, ii, p. 488; V, iv, p. 278)
L'esigenza di riforma del processo civile
Nell'ultimo decennio il p. c. è stato oggetto di numerosi interventi legislativi tra cui principalmente la l. 26 nov. 1990 nr. 353, recante provvedimenti urgenti per il p. c., la quale trova il suo fondamentale antecedente nel progetto Vassalli, un disegno di legge che riproduce il testo elaborato da una Commissione del 1986 presieduta da V. Denti. Il legislatore del 1990 è stato mosso soprattutto dall'esigenza di risolvere il problema della eccessiva durata dei p. c., che aveva anche condotto a numerose condanne dello Stato italiano da parte della Corte europea per i diritti dell'uomo proprio per la violazione dell'art. 6, 1° comma, della Convenzione di Strasburgo, che sancisce la necessaria osservanza di un termine ragionevole di definizione dei processi.
Contrariamente al progetto iniziale di apportare innovazioni limitate, il testo definitivo della legge del 1990, insieme ai successivi interventi legislativi, tra cui la l. 21 nov. 1991 nr. 374, istitutiva del giudice di pace, ha comportato una sostanziale trasformazione del p. c., svolgendo altresì una funzione anticipatoria nei processi di competenza del Tribunale della successiva introduzione, in via generale, della figura del giudice unico di primo grado, prevista dalla legge di delegazione 16 luglio 1997 nr. 254 e dal d. legisl. 19 febbr. 1998 nr. 51 (in vigore dal 2 giugno 1999). Il rilievo delle innovazioni introdotte dalla legge del 1990 e da quella istitutiva del giudice di pace, così come di quelle connesse alla istituzione del giudice unico di primo grado, è dimostrato anche dalle vicissitudini che hanno accompagnato l'effettiva entrata in vigore delle riforme. Sia la legge di riforma del p. c. sia quella istitutiva del giudice di pace (ma difficoltà analoghe si sono verificate per l'introduzione del giudice unico di primo grado, la cui entrata in vigore era originariamente prevista per il 19 luglio 1998) hanno, infatti, subito numerosi differimenti per agevolare l'assorbimento delle innovazioni da parte degli addetti al settore e per consentire l'organizzazione degli uffici del giudice di pace. Così, in base alla l. 4 dic. 1992 nr. 477, alcune disposizioni della l. nr. 353 del 1990 (e tra queste quelle che recavano la nuova disciplina organica dei procedimenti cautelari) sono entrate in vigore a decorrere dal 1° gennaio 1993, mentre le rimanenti, secondo quanto disposto dalla l. 6 dic. 1994 nr. 673, sono entrate in vigore il 30 aprile 1995; correlativamente, la normativa relativa al giudice di pace è entrata in vigore il 1° maggio 1995.
Il modello del processo del lavoro
L'obiettivo principale della Novella del 1990 è stato quello di accelerare i tempi della giustizia civile e il legislatore ha cercato di raggiungerlo attraverso la razionalizzazione dello schema processuale e la riduzione del carico di lavoro dei giudici togati. A tal fine è stato utilizzato un modello già presente nel nostro ordinamento, quello del processo del lavoro, dal quale sono stati mutuati numerosi istituti che, una volta trasferiti nel rito ordinario, hanno subìto una sorta di generalizzazione. Della disciplina del processo del lavoro sono stati recuperati soprattutto i principi informatori: quello del giudice monocratico, quello della concentrazione, quello della oralità e quello della immediatezza, tutti ispirati dall'esigenza di un processo il più possibile rapido, nel rispetto comunque dell'effettivo contraddittorio tra le parti.
I problemi più impellenti che si presentavano al legislatore del 1990 riguardavano soprattutto la fase iniziale del processo. Nell'udienza di prima comparizione, infatti, si assisteva alla spiacevole prassi dei successivi rinvii causati principalmente dal fatto che il giudice, prima dell'udienza, non poteva conoscere altro che la domanda di parte attrice. Appariva, dunque, di primaria importanza mettere il giudice in condizione di conoscere oltre alla domanda dell'attore anche le difese del convenuto sin dalla prima udienza. È stato così previsto l'obbligo per il convenuto di costituirsi almeno venti giorni prima dell'udienza di comparizione (art. 166 c.p.c.) depositando in cancelleria il fascicolo contenente la comparsa di risposta, nella quale devono essere svolte le difese, indicati i mezzi di prova e, a pena di decadenza, proposte le eventuali domande riconvenzionali (art. 167 c.p.c.).
Secondo il progetto iniziale, più aderente allo scopo di snellire lo schema processuale, dovevano essere proposte con la comparsa di costituzione e risposta anche le eccezioni di merito e di rito non rilevabili d'ufficio (art. 11 l. 26 nov. 1990 nr. 353). Tale previsione è stata però modificata dagli interventi legislativi succedutisi sia prima che dopo l'entrata in vigore della Novella, in base ai quali le suddette eccezioni possono ora essere proposte dal convenuto in un termine, fissato dal giudice, non inferiore a venti giorni prima della successiva udienza di trattazione (art. 180, 2° co., c.p.c.) e la prima udienza è finalizzata essenzialmente alla verifica della regolarità del contraddittorio. Infatti, ai sensi dell'art. 180, 2° co., c.p.c., nella prima udienza di comparizione il giudice si limita a fissare a data successiva la prima udienza di trattazione laddove si svolgeranno le attività concernenti il merito della causa oltre al previo tentativo del giudice di conciliare le parti, ove consentito dalla natura della causa (art. 183 c.p.c.). È opportuno evidenziare come inizialmente il legislatore del 1990 aveva anche inteso sanzionare la mancata comparizione delle parti all'udienza di prima comparizione con l'immediata cancellazione della causa dal ruolo con ordinanza non impugnabile (art. 16 l. 26 nov. 1990 nr. 353). Tale previsione è apparsa eccessiva tanto che gli interventi normativi del 1995 (art. 1 l. 20 dic. 1995 nr. 534, di conversione, con modificazioni, del d.l. 18 ott. 1995 nr. 432) hanno modificato la norma stabilendo che, in caso di mancata comparizione delle parti alla prima udienza, il giudice fissa una udienza successiva e dispone, con ordinanza non impugnabile, la cancellazione della causa dal ruolo soltanto allorché le parti non compariscano neppure a questa seconda udienza (art. 181 c.p.c.).
Nell'udienza di trattazione, invece, l'ingiustificata mancata comparizione delle parti è valutabile secondo il prudente apprezzamento del giudice (art. 183, 1° co., c.p.c.), il quale può altresì desumerne argomenti di prova, come, in generale, dal contegno che le parti stesse tengono durante il processo, in base al disposto dell'art. 116, 2° co., c.p.c. La presenza delle parti, di persona o a mezzo di procuratore generale o speciale informato sui fatti di causa, risulta indispensabile in quanto durante la prima udienza di trattazione il giudice, oltre a interrogare liberamente le parti presenti, deve tentarne la conciliazione. La prima udienza di trattazione costituisce anche il termine ultimo posto alle parti per precisare e, previa autorizzazione del giudice, emendare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate (art. 183, 4° co., c.p.c.).
La legge del 1990, sostituendo il nr. 7 dell'art. 163 c.p.c., ha altresì inciso sull'atto di citazione. Esso deve contenere l'invito per il convenuto a costituirsi entro brevi termini con l'esplicito avvertimento che la mancata costituzione nei termini implica le decadenze previste dall'art. 167 c.p.c. Alla luce di tali decadenze si comprende la sanzione della nullità dello stesso atto, qualora tale avvertimento manchi, prevista dall'art. 164 c.p.c. (che ha anche introdotto, quale nuova ipotesi di nullità, l'omissione dell'esposizione dei fatti posti a fondamento della domanda). In un sistema basato su rigide preclusioni nel quale è imprescindibile l'esigenza di garantire un effettivo contraddittorio tra le parti, risulta invero di fondamentale importanza che il convenuto sia messo a conoscenza delle conseguenze di una sua omessa o tardiva costituzione.
Altre preclusioni attengono alla rilevabilità dell'incompetenza. Ai sensi dell'art. 38 c.p.c., sia essa per materia, territoriale, funzionale o per valore, va rilevata anche d'ufficio ma non oltre la prima udienza di trattazione. Ciò al fine di eliminare l'assurdo rischio di un primo rilievo di incompetenza durante il giudizio in cassazione.
Fanno da necessario pendant alle preclusioni i termini posti al giudice per l'assolvimento dei propri doveri tra cui, in primo luogo, quello per l'emanazione della sentenza. E proprio in relazione alla sentenza viene in risalto una delle principali innovazioni introdotte dalla Novella, mutuata dal processo del lavoro: la provvisoria esecutività ex lege della sentenza di primo grado, che può essere sospesa dal giudice d'appello su istanza delle parti qualora ricorrano gravi motivi (art. 337 c.p.c.). In sostanza, è stata capovolta la previgente disciplina in cui la provvisoria esecutività non era effetto immediato del giudizio di primo grado, bensì veniva concessa su istanza di parte in presenza di specifiche condizioni. Tale innovazione è coerente con il proposito del legislatore di dissuadere le parti da appelli dettati esclusivamente da finalità dilatorie. Nella stessa ottica vanno considerati gli artt. 186 bis e 186 ter c.p.c., introdotti dall'art. 20 della l. 26 nov. 1990 nr. 353 e in vigore dal 1°genn. 1993. Tali norme, infatti, al fine di soddisfare immediate esigenze di tutela e di scoraggiare la prosecuzione di giudizi determinati da meri intenti dilatori, prevedono la possibilità per il giudice istruttore di emettere nel corso del giudizio di primo grado provvedimenti anticipatori di condanna ossia provvedimenti che anticipano in tutto o in parte gli effetti dell'eventuale sentenza di condanna. Con l'art. 7 del d.l. 18 ott. 1995 nr. 432, convertito dalla l. 20 dic. 1995 nr. 534, è stato poi introdotto l'art. 186 quater, in base al quale il giudice, su istanza di parte da formularsi dopo la chiusura dell'istruzione, può disporre il pagamento delle somme o il rilascio dei beni, per i quali ritiene già raggiunta la prova.
Con riguardo al giudizio di appello, l'intervento del riformatore, anche in questo caso ispirato dalla disciplina lavorista, è stato nel senso di eliminare completamente lo ius novorum, riportando tale mezzo di gravame alla sua originaria funzione di revisio prioris istantiae, venuta meno con la Novella del 1950 (l. 14 luglio 1950 nr. 581), che aveva introdotto la possibilità di proporre nuove eccezioni e nuovi mezzi di prova, quasi si trattasse di una prosecuzione del giudizio di primo grado. Pertanto, in base all'art. 345 c.p.c., non è più consentito proporre nuove eccezioni che non siano rilevabili d'ufficio né nuovi mezzi di prova, salvo le deroghe espressamente stabilite. Con riferimento alle domande nuove, per cui il divieto di proposizione già esisteva, il legislatore del 1990 in luogo del 'rigetto' ha sancito la loro 'inammissibilità', quasi a sottolineare che deve essere del tutto assente un esame nel merito (art. 345, 1° co., c.p.c.).
Di grande rilievo è poi la previsione di una disciplina generale e unitaria dei procedimenti cautelari applicabile, oltre che alle misure cautelari disciplinate dal codice di procedura civile, anche, "in quanto compatibili, agli altri provvedimenti cautelari previsti dal codice civile e dalle altre leggi speciali". Anteriormente alla legge del 1990, infatti, si avevano tanti procedimenti diversi accomunati soltanto dalla sommarietà della cognizione e dalla strumentalità rispetto al giudizio ordinario. La riforma è intervenuta istituendo un modello procedimentale uniforme in grado di adattarsi a tutte le misure cautelari previste in materia civile, nel rispetto del principio del contraddittorio tra le parti e della garanzia del diritto di difesa. La competenza a provvedere, in precedenza del pretore, viene attribuita dall'art. 669 ter al giudice competente per il giudizio di merito e la domanda può essere proposta sia prima sia dopo l'inizio del giudizio di merito; qualora competente sia il giudice di pace, però, la domanda va proposta al pretore (artt. 669 ter e 669 quater). La riproposizione di un'istanza cautelare rigettata è subordinata alla deduzione di mutamenti di circostanze o nuove ragioni di fatto o di diritto. Sempre nell'ottica dello snellimento dei tempi processuali, l'art. 669 octies prevede che l'ordinanza di concessione del provvedimento cautelare contenga la fissazione di un termine perentorio per l'inizio del giudizio di merito, a pena della perdita di efficacia del provvedimento cautelare concesso. In coerenza con l'art. 337 c.p.c., il provvedimento cautelare perde comunque efficacia non appena la sentenza di merito dichiari il diritto oggetto della tutela inesistente, a prescindere cioè dal passaggio in giudicato. Ai sensi dell'art. 669 terdecies l'efficacia del provvedimento cautelare non viene invece meno in caso di reclamo avverso lo stesso per vizi di rito o merito, salvo il potere del giudice del reclamo (che è il Tribunale e, nel caso in cui oggetto di reclamo sia il provvedimento di un giudice singolo del Tribunale, il collegio, del quale non può far parte il giudice che ha emesso il provvedimento) di sospenderlo allorché arrechi grave danno per circostanze sopravvenute. Queste ultime possono altresì comportare la revoca del provvedimento su richiesta di parte (art. 669 decies).
Le innovazioni ordinamentali
Il giudice di pace. - Per superare la situazione di paralisi in cui è venuta a trovarsi la giustizia civile, a causa soprattutto dell'eccessivo carico di lavoro gravante sui giudici togati, si è ricorso altresì alla istituzione con la l. 21 nov. 1991 nr. 374 del giudice di pace, giudice onorario al quale, in luogo del conciliatore e con una sfera di competenza maggiore rispetto a quest'ultimo (art. 7 c.p.c. sostituito dall'art. 17 l. 21 nov. 1991 nr. 374), è stata affidata la cosiddetta giustizia minore.
Nell'ultimo periodo l'istituto del conciliatore aveva subìto una vera e propria involuzione, dovuta, oltre che all'aumento della durata dei processi, alla mancata revisione della competenza per valore di questo organo, con conseguente transizione del carico delle cause civili minori dal giudice onorario al giudice togato. Il giudice di pace, differentemente dal conciliatore, appartiene all'ordine giudiziario, malgrado sia incluso, per una durata limitata a quattro anni, in un proprio ruolo organico. Questo nuovo giudice, le cui cognizioni tecnico-giuridiche si presumono comprovate dal possesso (non richiesto al conciliatore) della laurea in giurisprudenza e da una certa esperienza professionale, è tendenzialmente a tempo pieno tanto che non solo è previsto un compenso (mentre l'ufficio del conciliatore era gratuito) ma tra i requisiti per la nomina è richiesto quello di aver cessato qualsiasi attività lavorativa dipendente.
Il giudice unico di primo grado. - Il legislatore del 1990 aveva già introdotto, nel processo di competenza del Tribunale, la figura del 'giudice unico', quale organo più idoneo ad assicurare l'immediatezza della decisione. Infatti, l'attribuzione al giudice istruttore, in numerose ipotesi, dei poteri decisori in precedenza riservati al collegio avrebbe dovuto consentire l'accelerazione dei tempi processuali e la definizione del processo in un termine ragionevole, come auspicato dalla Convenzione di Strasburgo.
Così, l'art. 48 dell'Ordinamento giudiziario (approvato con r.d. 30 genn. 1941 nr. 12), come modificato dalla l. nr. 353 del 1990, ha stabilito che il Tribunale decide in composizione collegiale in casi tassativamente indicati (quali i giudizi di appello, quelli nei quali è obbligatorio l'intervento del pubblico ministero, quelli devoluti alle sezioni specializzate, alcuni giudizi di competenza del Tribunale fallimentare, i giudizi di responsabilità contro gli organi amministrativi e di controllo, i direttori generali e i liquidatori nonché in ogni altra controversia avente per oggetto rapporti sociali nelle società, i giudizi di divisione delle comunioni e quelli sulla responsabilità civile dei magistrati) e in tutti gli altri casi in composizione monocratica, cioè in persona del giudice istruttore o del giudice dell'esecuzione in funzione di giudice unico.
Con la legge di delegazione 16 luglio 1997 nr. 254 ed il d. legisl. 19 febbr. 1998 nr. 51 (in vigore dal 2 giugno 1999) la figura del 'giudice unico' ha subito una generalizzazione. Con tale espressione si indica l'accorpamento, in un solo organo giudiziario, della competenza prima ripartita tra pretore e Tribunale. L'abrogazione della figura del pretore, per altro verso, ha comportato un'inversione, quanto alla composizione dell'organo giudicante, del rapporto tra giudice collegiale e giudice monocratico. In base all'art. 48 dell'ordinamento giudiziario, come modificato dal d. legisl. nr. 51 del 1998, il Tribunale giudica normalmente, in materia civile e penale, in composizione monocratica e, nei casi previsti dalla legge, in composizione collegiale.
La legge di delegazione 16 luglio 1997 nr. 254 prevedeva all'art. 1, 1° co., lett. n, che venissero eliminate dal novero delle ipotesi in cui il Tribunale è chiamato a giudicare nel numero invariabile di tre componenti quelle di cui ai numeri 1 e 8 (giudizi di appello e giudizio di scioglimento delle comunioni) dell'art. 48 dell'Ordinamento giudiziario nonché le ipotesi di cui al numero 7 (controversie aventi ad oggetto i rapporti sociali nelle società), fatta eccezione per i giudizi di responsabilità per i quali si prevedeva il mantenimento della riserva di collegialità.
La legge di delegazione demandava inoltre al legislatore delegato la facoltà di individuare altre ipotesi da riservare espressamente al Tribunale in composizione collegiale. Con il decreto delegato sono state aggiunte all'elenco di cui al citato art. 1, 1° co., lett. n, le cause in materia societaria e successoria relative rispettivamente all'impugnazione di deliberazioni dell'assemblea e del consiglio di amministrazione e all'impugnazione dei testamenti e alla riduzione di legittima. E tale delega è stata attuata con l'introduzione, a opera dell'art. 56 del d. legisl. nr. 51 del 1998, degli artt. 50 bis e 50 ter nel codice di procedura civile. Formalmente, quindi, viene eliminata la necessità della composizione collegiale per i giudizi di appello: tuttavia, ciò non comporta alcuna conseguenza effettiva visto che, se la collegialità per i giudizi di appello è richiesta (art. 350, 1° co., c.p.c.) in sede di trattazione, a fortiori la decisione deve essere collegiale. Con riferimento alla riserva di collegialità per le cause in cui è obbligatorio l'intervento del pubblico ministero o per i procedimenti in camera di consiglio (già prevista dalla l. n. 353 del 1990), bisogna precisare che essa viene meno nei procedimenti già di competenza pretorile, allorché non sia altrimenti disposto, tenuto conto della limitata rilevanza e complessità del provvedimento da adottare.
Tra le conseguenze più rilevanti della istituzione del giudice unico di primo grado vi è l'individuazione della Corte di appello quale giudice di secondo grado rispetto alle sentenze del Tribunale che, a sua volta, rimane giudice di appello avverso le sentenze del giudice di pace.
Le sezioni stralcio
Allo scopo di eliminare l'arretrato dei processi civili, e precisamente quelli pendenti davanti al Tribunale alla data del 30 aprile 1995, da decidersi secondo il vecchio rito, è stata emanata la l. 22 luglio 1997 nr. 276 (entrata in vigore il 20 agosto 1997) sulla istituzione delle 'sezioni stralcio' in materia civile. A queste sezioni vengono preposti giudici onorari aggregati, ai quali, a differenza dei giudici di pace cui è stata affidata la 'giustizia minore', vengono assegnate cause già di competenza del Tribunale. Alla luce di ciò si comprende la ragione per cui la legge richiede quale requisito indispensabile per svolgere le funzioni di giudice onorario aggregato l'essere avvocati anche se a riposo, magistrati a riposo, avvocati e procuratori dello Stato a riposo, professori universitari e ricercatori universitari confermati in materie giuridiche. Con decreto del ministro di Grazia e giustizia 18 novembre 1997 sono stati individuati i Tribunali presso cui vengono istituite le sezioni stralcio.
Alla decisione delle sezioni stralcio sono assegnate le controversie pendenti davanti al Tribunale alla data del 30 aprile 1995 escluse quelle riservate alla decisione collegiale e quelle già assunte in decisione, salvo, in quest'ultimo caso, che siano state rimesse in istruttoria con ordinanza collegiale (art. 1, 1° co., l. 22 luglio 1997 nr. 276).
Ai sensi dell'art. 12 della l. nr. 276 del 1997, il processo davanti al giudice onorario aggregato si svolge secondo le modalità previste dall'art. 90, 1° e 5° co., della l. 26 nov. 1990 nr. 353, come sostituito dall'art. 9 del d. l. 18 ott. 1995 nr. 432, convertito, con modificazioni, dalla l. 20 dic. 1995 nr. 534, ossia secondo il rito delle cause 'vecchie' (con litispendenza anteriore al 1° gennaio 1993). La stessa norma prevede due rilevanti deroghe all'applicazione dell'art. 90 citato. Infatti, per la decisione delle cause 'vecchie' si ha la composizione monocratica dell'organo giudicante negli stessi casi in cui essa ricorre per le cause 'nuove'. In secondo luogo, per i giudizi demandati alle sezioni stralcio non è ammesso il reclamo istruttorio ad un organo collegiale, visto che la decisione è monocratica.
La devoluzione al giudice ordinario delle controversie relative ai rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni
La l. 23 ott. 1992 nr. 421 aveva delegato il Governo, in un generale riordino del rapporto di pubblico impiego, a devolvere le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro; tale delega veniva attuata dal d. legisl. 3 febbr. 1993 nr. 29. Ma solo a seguito della l. 15 marzo 1997 nr. 59 e del d. legisl. 31 marzo 1998 nr. 80, in vigore dal 23 aprile 1998, la devoluzione di tali controversie al giudice ordinario è divenuta realtà nell'ordinamento italiano. A decorrere dal 1° luglio 1998, infatti, le controversie inerenti ai rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni devono essere proposte dinanzi al giudice ordinario: in termini più specifici, essendo divenute efficaci le norme istitutive del giudice unico di primo grado, tali controversie - originariamente devolute al pretore del lavoro - devono essere proposte dinanzi al Tribunale, in composizione monocratica. Restano, viceversa, attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie concernenti questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998; tali controversie, se non ancora proposte, dovranno essere iniziate entro il 15 settembre 2000.
Con il d. legisl. nr. 80 del 1998 sono state anche modificate alcune norme del codice di procedura civile e, in particolare, l'art. 410, il quale ora prevede l'obbligatorietà del tentativo di conciliazione o attraverso le procedure di conciliazione previste nei contratti e negli accordi collettivi, ovvero presso le commissioni di conciliazione. L'espletamento del tentativo di conciliazione, che deve concludersi entro sessanta giorni dalla richiesta, costituisce condizione di procedibilità della domanda (art. 412 bis c.p.c.).
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Giudice unico di primo grado. Commento al d. lgs. n. 51 del 1998, a cura di C. Riviezzo, Milano 1998.