Processo civile e stabilità della giurisprudenza
In sede di esercizio della giurisdizione in materia di diritto processuale le Sezioni Unite hanno avuto occasione di affrontare aspetti che in parte incidono sui rapporti tra la giurisdizione del giudice amministrativo e di quello ordinario e per altro verso ridisegnano i poteri del giudice ordinario quanto alla regolazione del processo ed all’esercizio della giurisdizione.
L’applicazione del diritto processuale civile da parte del giudice di legittimità, anche in ragione dei non infrequenti mutamenti normativi, fornisce l’occasione a messe a punto, quando non anche a ribaltamenti di orientamenti in precedenza anche a lungo seguiti. Gli argomenti su cui ci si soffermerà in primo luogo sono i seguenti: la notificazione dell’atto introduttivo del grado di giudizio; se l’attore possa contestare in sede d’impugnazione la giurisdizione del giudice cui si è rivolto.
Nel caso deciso da Cass., S.U., 20.7.2016, n. 149171 la questione sottoposta alla decisione delle Sezioni Unite era stata di stabilire se la notificazione del ricorso per cassazione, fatta nel domicilio eletto per il primo grado di giudizio, quando in appello ne sia stato eletto un altro e presso un diverso difensore, sia da considerare nulla, con possibilità di rinnovazione, ovvero affatto inesistente, con conseguente impossibilità di sanatoria.
I principi di diritto enunciati in tale decisione – conformi a quelli formulati nella coeva sentenza n. 14916/2016, su identica fattispecie processuale – sono stati i seguenti:
i) «L’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che nel caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, ex lege, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, sì da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa»;
ii) «Il luogo in cui la notificazione del ricorso per cassazione viene eseguita non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell’atto. Ne consegue che i vizi relativi all’individuazione di detto luogo, anche qualora esso si riveli privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell’ambito della nullità dell’atto, come tale sanabile, con efficacia ex tunc, o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata (anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ai sensi dell’art. 291 c.p.c.».
Nei due casi le Sezioni Unite hanno dichiarato che la notificazione del ricorso per cassazione, eseguita presso il difensore domiciliatario della controparte eletto per il giudizio di primo grado, anziché presso il difensore costituito nel giudizio d’appello e presso il quale aveva eletto domicilio per quel grado del processo era bensì affetta da nullità per violazione dell’art. 330 c.p.c., ma era stata sanata dall’avvenuta costituzione della parte.
Nel terzo caso – deciso da Cass., S.U., 13.2.2017, n. 37022 – l’interrogativo sottoposto alla Corte era se la notificazione dell’atto d’impugnazione sia da considerare affatto incapace di produrre il proprio effetto se eseguita presso il difensore dell’altra parte nel frattempo cancellatosi dall’albo o se al contrario la si debba considerare eseguita in modo bensì nullo, ma tuttavia non inesistente e sia perciò suscettibile di utile rinnovazione.
Le Sezioni Unite – investitane dal primo presidente in applicazione dell’art. 374, co. 2, c.p.c. – su tale questione hanno enunciato in sintesi il seguente principio di diritto: «La notifica dell’atto di appello eseguita al difensore dell’appellato che, nelle more del decorso del termine di impugnazione, si sia cancellato dall’albo professionale, non è inesistente – ove il procedimento notificatorio si sia comunque concluso con la consegna dell’atto – ma nulla per violazione dell’art. 330, co. 1, c.p.c., in quanto indirizzata ad un soggetto non più abilitato a riceverla. Nel caso, nel domicilio a suo tempo eletto dal difensore, la consegna dell’atto era stata eseguita mediante consegna a mani di altro professionista, dichiaratosi collega di studio del professionista destinatario della notifica, con l’affermazione che ne avrebbe curato la consegna al procuratore costituito».
Tale nullità della notifica – ha poi avvertito la Corte – se non sanata, con efficacia retroattiva, mediante la rinnovazione che ne venga disposta in base all’art. 291, co. 1, c.p.c. o grazie alla volontaria costituzione dell’appellato – importa nullità del procedimento e della sentenza d’appello, ma non anche il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado. Condizione per l’applicazione del principio di diritto così enunciato é dunque che il procedimento di notifica si sia concluso con la ricezione dell’atto in uno dei luoghi indicati dall’art. 330, co. 1, seconda parte, c.p.c. Di questo principio di diritto la Corte ha indicato la ragione in una interpretazione dell’art. 301, co. 1, c.p.c., in forza della quale la disposizione è da intendere nel senso, che ricomprenda «… tra le cause di interruzione del processo, secondo una interpretazione costituzionalmente conforme in funzione di garanzia del diritto di difesa, anche l’ipotesi dell’avvocato che si sia volontariamente cancellato dall’albo, con l’ulteriore conseguenza che il termine di impugnazione non riprende a decorrere fino al venir meno della causa di interruzione o fino alla sostituzione del difensore volontariamente cancellatosi».
La stessa Corte ha peraltro avvertito e questo già all’esordio dell’esame della questione, che «Diversa sarebbe l’ipotesi … d’una notifica in via telematica, poiché con la cancellazione dall’albo cessa anche l’operatività dell’indirizzo di posta elettronica dell’avvocato, sicché la notifica non potrebbe aver luogo (nel senso che il sistema non produrrebbe la ricevuta telematica) e la notifica, risultando meramente tentata, dovrebbe qualificarsi come inesistente». In precedenza, tre orientamenti – ricordati dalla Corte – erano nel tempo venuti a coesistere: il primo risalente a Cass., S.U., 26.3.1968, n. 9353 e presente ancora in Cass., 3.6.1997, n. 4944; un secondo inaugurato da Cass., 11.10.1999, n. 11360 e presente in Cass., 21.5.2013, n. 12478, nel senso che la notificazione eseguita nei confronti del difensore domiciliatario cancellatosi dall’albo potesse a seconda delle concrete modalità della consegna considerarsi bensì nulla, ma non inesistente; un terzo, la cui ultima manifestazione s’era avuta con Cass., 21.6.2012, n. 103014, nel senso della validità della notifica ed argomentata sulla base degli artt. 85 e 301, co. 3, c.p.c. attraverso l’omologazione sul piano degli effetti ed in rapporto al singolo processo della cancellazione dall’albo alla rinuncia al mandato.
L’attore che abbia incardinato la causa dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato ad interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto in quanto non soccombente su tale, autonomo capo della decisione: così Cass., S.U., 20.10.2016, n. 212605, seguita da Cass., S.U., 19.1.2017, n. 1309. Le Sezioni Unite pervengono a questa conclusione dopo aver ripercorso lo stato della giurisprudenza che tra il 2010 (Cass., S.U., 27.12.2010, n. 26129 e poi Cass., S.U., 29.3.2011, n. 7097)6 ed il 2014 (Cass., 19.6.2014, n. 13940), mossa dalla soluzione di ammettere il ripensamento dell’attore, salvo a penalizzarlo eventualmente sul piano della responsabilità per le spese processuali, era in seguito venuta avallando in linea di principio la diversa soluzione accolta da sentenza del Consiglio di Stato, che aveva dichiarato inammissibile perché abusiva l’autoeccezione di difetto di giurisdizione; questo peraltro escludendo che nel caso concreto la condotta processuale tenuta dalla parte andasse qualificata come abusiva.
Le ragioni che secondo le Sezioni Unite militano in senso contrario e giustificano che la precedente soluzione sia abbandonata si possono così, in estrema sintesi, riassumere:
a) «Tanto l’elaborazione giurisprudenziale formatasi sull’art. 37 c.p.c. quanto la lettera dell’art. 9 cod. proc. amm. e dell’art. 15 cod. giust. cont. qualificano in termini di capo la statuizione sulla giurisdizione contenuta nella sentenza di primo grado che decide il merito della causa . . .» (punto 10.3);
b) «Di fronte ad una sentenza di rigetto della domanda non è ravvisabile una soccombenza dell’attore anche sulla questione di giurisdizione: rispetto al ‘capo’ relativo alla giurisdizione egli va considerato a tutti gli effetti vincitore, avendo il giudice riconosciuto la sussistenza del suo dovere di decidere il merito della causa, così come implicitamente o esplicitamente sostenuto dallo stesso attore, che a quel giudice si è rivolto, con l’atto introduttivo della controversia …» (punto 10.4);
c) «… la soccombenza nel merito non può essere trasferita sul (e utilizzata per censurare il) diverso capo costituito dalla definizione endoprocessuale della questione di giurisdizione, trattandosi di aspetto non destinato, per sua natura, a differenza di ciò che avviene con riguardo ad altre questioni pregiudiziali di rito, a condizionare l’efficacia e la utilità stessa della decisione adottata. Rispetto al capo sulla giurisdizione che accompagna la statuizione di rigetto della domanda è configurabile esclusivamente la soccombenza del convenuto, sempre che a sua volta non abbia chiesto al giudice di dichiararsi munito di giurisdizione. Il vincitore pratico della causa, se non ha interesse ad impugnare per primo sul capo della giurisdizione … ha tuttavia interesse ad impugnare dopo e per effetto della impugnazione principale sul merito da parte del soccombente pratico e così in via incidentale per il caso del suo accoglimento …» (punto 10.4).
La soluzione accolta dalle decisioni appena riferite ha incontrato un’accoglienza variegata7.
Altri due temi ci sembrano di speciale interesse e meritevoli di approfondimento: l’applicazione dell’art. 360 bis, n. 1, c.p.c. e quella dell’art. 363 c.p.c.
Investite della questione di massima relativa all’interpretazione della disposizione dettata dall’art. 360 bis, n. 1, c.p.c. – questione che le era stata rimessa dalla Sezione II con ordinanza 26.7.2016, n. 155138 – le Sezioni Unite, con sentenza 21.3.2017, n. 71559, hanno dichiarato inammissibile il ricorso, che era stato proposto nel 2015, dopo aver constatato che le ragioni esposte a suo fondamento riportavano pedissequamente critiche dottrinarie risalenti al 2010, mentre la contraria giurisprudenza della Corte sul punto era stata ribadita ancora da Cass., 16.3.2016, n. 5211. In una precedente decisione sull’argomento, le Sezioni Unite avevano affermato che il vaglio sull’ammissibilità del ricorso da condurre alla stregua dell’art. 360 bis, n. 1, c.p.c. – che secondo la lettera della disposizione, avrebbe dovuto sfociare, se negativo, in una pronuncia d’inammissibilità delle critiche mosse nel ricorso alla decisione impugnata – implicando il confronto tra pronuncia impugnata, motivi esposti nel ricorso e interpretazione delle pertinenti norme di diritto al momento della decisione non poteva che richiedere una pronunzia con sentenza10. Ora, è indubbio, come le Sezioni Unite hanno rilevato, che l’inammissibilità del ricorso principale trae con sé quella del ricorso incidentale (art. 334 c.p.c.) e di qui il profilo di rilevanza del distinguere tra inammissibilità del ricorso ed il suo essere infondato, ma come si considera del resto sia nella sentenza delle Sezioni Unite (al paragrafo 4) sia nell’ordinanza di rimessione (al paragrafo 7) resta invece nell’ambito applicativo del modulo di decisione con sentenza il caso del ricorso che prospetti ragioni di critica degli argomenti in base ai quali si è sviluppata l’interpretazione sino allora in corso. In conclusione è il mancato confronto critico con l’interpretazione sin lì seguita dalla giurisprudenza dalla Corte a far sì che il ricorso resti privo di un elemento invece essenziale già dal punto di vista formale, sì da giustificarne la pronuncia d’inammissibilità.
Nella sentenza 22.6.2017, n. 15482, a giustificazione del ricorso cui si accingeva a farne, la Corte ha considerato, al punto 7.8, che «... a norma dell’art. 363, terzo comma, c.p.c., come novellato dall’art. 4 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, se (…) il P.G. presso la stessa Corte non chieda l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge, le Sezioni (…) dichiarata l’inammissibilità del ricorso, possono esercitare di ufficio il potere discrezionale di formulare il principio di diritto concretamente applicabile. Tale potere, espressione della funzione di nomofilachia, comporta che – in relazione a questioni la cui particolare importanza sia desumibile non solo dal punto di vista normativo, ma anche da elementi di fatto – la Corte di cassazione possa eccezionalmente pronunciare una regola di giudizio che, sebbene non influente nella concreta vicenda processuale, serva tuttavia come criterio di decisione di casi analoghi o simili (S.U. 27187 del 2007)». Ed ha ancora osservato, traendo la considerazione dall’ordinanza sez. II, 20.5.2011, n. 11185, che pure «… le sezioni semplici della Corte di cassazione, anche in sede camerale, possono enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge … su una questione ritenuta di particolare importanza, non necessariamente circoscritta alle ragioni per le quali il ricorso è stato dichiarato inammissibile, potendo invece investire tutte le ragioni di merito o processuali, che sono state fatte oggetto del giudizio di legittimità».
Negli anni 2016 e 2017, la Corte ha fatto ricorso all’applicazione dell’art. 363, co. 3, c.p.c. in molteplici casi. Merita tra questi richiamare in particolare la decisione assunta da Cass., S.U., 20.4.2016, n. 7951, sulla base della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, d.lgs. 5.4.2002, n. 77, pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza 25.6.2015, n. 11911, a sua volta provocata da ordinanza di rimessione 1.10.2014, n. 2066112, assunta dalle Sezioni Unite in un contesto, in cui la questione di legittimità costituzionale veniva sollevata, in funzione della enunciazione di principio di diritto nell’interesse della legge, dalla stessa Corte.
Un rilevante profilo di applicazione dell’istituto è venuto assumendo nel tempo il ricorso fattovi dal procuratore generale presso la Corte sulla base dell’art. 363, co. 1, c.p.c.13
A proposito dell’iniziativa del p.g., Cass., S.U., 18.11.2016, n. 2346914, rifacendosi a quanto già deciso da Cass., S.U., 1.6.2010 n. 1333215 ha indicato (al punto 13) nei seguenti termini i presupposti del procedimento ex art. 363 c.p.c.:«a) l’avvenuta pronuncia di almeno uno specifico provvedimento giurisdizionale non impugnato o non impugnabile, tanto meno per cassazione; b) la reputata illegittimità del provvedimento stesso … quale indefettibile momento di collegamento ad una controversia concreta; c) un interesse della legge, quale interesse pubblico o trascendente quello delle parti, all’affermazione di un principio di diritto per l’importanza di una sua formulazione espressa». Che è quanto dire – come del resto risulta dal co. 1 dell’art. 363 c.p.c. – che, anche in questo caso, il primo necessario tramite per l’accesso al procedimento per l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge è l’avvenuto svolgimento davanti a un giudice d’un processo su domanda la cui avvenuta decisione investa un interesse che oltrepassi quello delle parti.
Conviene a questo punto approfondire, formulando qualche rilievo critico, la questione della contestazione della giurisdizione da parte dell’attore.
Da un primo punto di vista, riguardo alla soluzione accolta da Cass., S.U., n. 21260/2016 si potrebbe partire con l’osservare che l’art. 9 c.p.a. presenta una formulazione incentrata non sulla posizione delle parti del processo, ma su quella del giudice, che mentre nel giudizio di primo grado ha il dovere di prendere in considerazione il punto dell’avere o no giurisdizione sulla domanda, non l’ha invece nel giudizio di appello, dove il dovere di sottoporre a controllo la giurisdizione richiede che la statuizione esplicita o implicita contenuta al riguardo nella decisione di primo grado abbia costituito oggetto d’impugnazione.
Da ciò parrebbe dover derivare che sia altrove che si debba ricercare la giustificazione di non permettere all’attore, rimasto soccombente sul fondo della domanda, di porre in discussione la giurisdizione del giudice da lui stesso adito.
La presenza nell’ordinamento del ricorso per regolamento preventivo, il dovere del giudice adito di verificare in primo grado la sua giurisdizione, la disciplina sulla prosecuzione orizzontale del giudizio sulla base dell’iniziale domanda davanti al diverso giudice indicato da quello adito per primo, starebbero a dimostrare che la ricerca del giusto giudice non è operazione semplice.
Al centro del sistema unitario della giurisdizione la disciplina configurata dall’art. 59 l. 18.6.2009, n. 69 sulla scorta di C. cost., 12.3.2007, n. 77 affida infatti al giudice cui l’attore propone la domanda il compito di verificare se ha la giurisdizione per pronunciarsi sul merito ed in caso negativo quello di indicare alla parte il giudice davanti al quale può fare in modo che il giudizio, se lo vuole, prosegua in funzione della decisione sul fondo della domanda. In questo quadro, la pronuncia del giudice che, affrontando direttamente il merito, non assolve il dovere processuale di verificare la propria giurisdizione ed in concreto l’eserciti provvedendo sulla domanda in senso positivo per l’attore non eccita l’interesse di questi a dolersene, non diversamente da quanto accade per ogni altro errore decisionale, ma il rigetto nel merito della domanda o l’impugnazione del convenuto che apre l’adito ad un tale esito rende attuale l’evenienza che la decisione sul merito della domanda finisca per provenire da un ordine giudiziario carente di giurisdizione, mentre non avrebbe dovuto esserlo se il giudice di primo grado avesse rilevato – di ufficio come avrebbe dovuto – il proprio difetto di giurisdizione.
La soluzione di negare all’attore il potere processuale di impugnare la sentenza resa dal giudice, bensì da lui stesso adito, ma che ha mancato di rilevare il proprio difetto di giurisdizione, altera il funzionamento del sistema, perché se non può che spettare alla parte attrice l’onere di individuare il giudice che possa avere la giurisdizione, rientra tuttavia nel dovere del giudice verificare se sia lui ad averla, o se invece il giudizio, qualora l’attore intenda proseguirlo, non possa che esserlo davanti al giusto giudice, che però deve essergli indicato. Ora, se dovere per il giudice c’è, ma non è osservato, in mancanza di una norma che espressamente limiti al convenuto la possibilità di dolersene – il che non è scritto nell’art. 9 c.p.a. – dolersene non può non spettare anche all’attore.
I dati del problema – lo si è appena visto – sono nella sostanza questi:
i) la scelta dell’attore e la mancata contestazione del convenuto non tolgono che il giudice di primo grado debba di ufficio verificare se ha giurisdizione, dichiarandone il difetto se non l’ha, potendo bensì accollare all’attore le spese della fase di giudizio, ma lasciandolo indenne da un risultato negativo sul fondo della domanda;
ii) è in discussione se, avendo l’attore scelto il giudice e non avendo l’altra parte contestato tale scelta, ciò impedisca all’attore, ma eventualmente anche al convenuto, in caso di soccombenza nel merito, di impugnare la decisione sulla giurisdizione.
Ora, la disposizione dettata dall’art. 9 c.p.a. non limitail potere delle parti di introdurre in appello la questione di giurisdizione; d’altro canto il silenzio delle parti sul punto non influisce sul dovere processuale del giudice di verificare, in primo grado, anche di ufficio, se ha o no la giurisdizione che è stato richiesto di esercitare.
Riprendendo una tesi svolta in dottrina, tra altri da Luiso16, ma che ha incontrato dissensi, si prospetta la possibilità di far riferimento all’art. 157, co. 3, c.p.c., che vieta alle parti di prevalersi di una nullità cui esse stesse hanno dato causa.
E però qui non si tratta di vincolare il giudice adito a pronunciarsi nel merito anche quando non ha giurisdizione, ma di attribuire effetto ad un’implicita rinuncia delle parti a contestarla nel prosieguo del giudizio.
Ma si può obiettare che, se avere una parte scelto il giudice e non averne l’altra contestato la giurisdizione non toglie che il giudice abbia il dovere di verificare di ufficio se abbia giurisdizione e se pur non avendola l’eserciti, la decisione sul fondo della domanda viene a presentare un vizio che inficia a cascata la decisione sul merito, sicché da un lato la parte ha interesse a togliere effetto a tale decisione e quindi a impugnarla, dall’altra la decisione presenti il vizio denunciato.
D’altro canto è nella prospettiva di un esito favorevole della lite che il giudizio è promosso e lo è davanti al giudice che la parte ritiene avere giurisdizione, sicché un esito favorevole della lite fa sì che non abbia interesse ad impugnare, mentre è l’esito negativo che lo rende attuale.
Ma conclusiva, nel senso di togliere rilievo alla scelta del giudice operata dalla parte attrice, è la considerazione che, nel sistema di raccordo tra le giurisdizioni rappresentato dalla translatio, la scelta del giudice davanti al quale iniziare il giudizio non implica rinunzia a far valere la pretesa davanti ad un diverso giudice, quello che, rilevando il proprio difetto di giurisdizione, il giudice adito deve indicare come competente.
Comunque, in una situazione normativa che tace a proposito degli effetti di tale silenzio, il comportamento delle parti non può essere considerato univoco in questa direzione, potendo essere spiegato per ambedue le parti con l’attesa di un esito a sé favorevole del giudizio.
Così come non può essere tratto argomento dal non essersi sperimentato il regolamento preventivo; anzi, in presenza di una questione affidata in primo grado al rilievo di ufficio, la possibilità dell’appello sulla giurisdizione contro la decisione sfavorevole nel merito ha l’indiretto effetto di evitare che tali questioni vi affluiscano anticipatamente.
Si potrebbe però e d’altra parte osservare che norme del codice di procedura civile dettate in tema di impugnazione (appello: art. 348 bis; ricorso per cassazione: art. 360 bis, n. 1) qualificano come inammissibile l’appello che non presenti ragionevoli possibilità di accoglimento e parimenti inammissibile il ricorso per cassazione se non offra motivi per discostarsi da precedenti orientamenti della Cassazione.
Al di là del dato positivo – di riguardare non un singolo motivo, ma il mezzo d’impugnazione nel suo insieme – da queste disposizioni è possibile trarre il principio per cui il mezzo d’impugnazione che al confronto con lo stato della giurisprudenza si presenti al momento della decisione non fondato può essere dichiarato inammissibile, se non vengano prospettate ragioni per rimettere la regola in discussione.
L’inammissibilità risulterebbe in questo modo collegata non all’aver la parte impostato la domanda su base da lei stessa messa in discussione, ma sull’essere l’impostazione in allora prescelta considerata conforme a diritto anche per la giurisprudenza seguita nel momento in cui si tratti di decidere sull’impugnazione.
1 In Riv. dir. proc., 2016, 1647, con nota di Auletta, F.Poli, R., Il lento addio dei giudici all’‘inesistenza’ degli atti processuali, e in Foro it., 2017, I, 684, con annotazione di M. Adorno.
2 In Guida dir., 2017, fasc. 11, 53, con nota di Sacchettini, E., Privilegiata una soluzione intermedia.
3 In Giur. it., 1969, I, 1, 324, con nota di Proto Pisani, A., Riflessioni in tema di cancellazione c.d. volontaria dagli albi professionali del procuratore legale costituito.
4 In Giust. civ., 2013, I, 371, con nota di Morozzo Della Rocca, F., Notificazione dell’atto di impugnazione a procuratore domiciliatario cancellatosi dall’albo: tra inesistenza e nullità la Corte esplora una terza via.
5 In Foro it., 2017, I, 966, con note di Poli, G.G., Ancora limiti al difetto di giurisdizione: le sezioni unite dall’abuso del processo al difetto di interesse ad appellare dell’attore soccombente nel merito; Travi, A., Abuso del processo e questione di giurisdizione: una soluzione conclusiva?, e Auletta, F., La Corte di cassazione afferma il principio di coerenza nella difesa della parte: non si può più contestare il potere del giudice dal quale si è preteso (invano) di ottenere ragione; ed ancora in Corr. giur., 2017, 267, con nota di Consolo, C., Osservazione sistematica sulla n. 21260. Il «vecchio» rapporto giuridico processuale ed i suoi (chiari e non tutti antichi) corollari: inter multos l’inammissibilità per carenza di legittimazione ad impugnare e la inanità dell’inerziale richiamo della figura dell’abuso del processo; in Riv. dir. proc., 2017, 799, con nota di Ruffini, G., Interesse ad impugnare, soccombenza ed acquiescenza. In precedenza, sull’argomento ed orientati verso un’opposta soluzione, s’erano espressi, in ordine di tempo, Verde, G., Abuso del processo e giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2015, 1138 ss.; Baccarini, S., Giudizio amministrativo e abuso del processo, ivi, 2015, 1203 ss.; Corso, G., Abuso del processo amministrativo, ivi, 2016, 1 ss.
6 Cass., S.U., n. 7097/2011 (in Riv. dir. proc., 2012, 1107, con nota di Giordano, R., Note intorno alla portata dell’art. 37 c.p.c. ed alla parte legittimata ad eccepire il difetto di giurisdizione dinanzi alla Corte di cassazione) aveva affermato che la questione di giurisdizione può essere sempre posta, anche nel giudizio di cassazione, purché almeno una delle parti l’abbia sollevata tempestivamente nel giudizio di appello, con ciò impedendo la formazione del giudicato sul punto. Aveva ritenuto che in presenza di tale condizione, la questione può essere posta anche dalla stessa parte che ha adito il giudice e ne ha successivamente contestato la giurisdizione in base all’interesse che le deriva dalla soccombenza nel merito. Aveva aggiunto però che nel caso il giudice può condannare la parte alla rifusione delle spese del giudizio di impugnazione anche se sia risultata vincitrice in punto di giurisdizione, potendo ravvisarsi in simile comportamento la violazione del dovere di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c. Nello stesso senso s’era espressa Cass., S.U., 28.1.2011, n. 2067, cui avevano dato seguito Cass., 23.2.2012, n. 2752 e Cass., S.U., 11.4.2012, n. 5704.
7 Come risulta dagli scritti richiamati supra, nt. 5.
8 In Foro it., 2016, I, 3091, con nota di Costantino, G., Note sulla «antipaticità» del ricorso in Cassazione tra inammissibilità e manifesta infondatezza.
9 In Foro it., 2017, I, 1177, con nota di Costantino, G., Note sulla «inammissibilità sopravvenuta di merito»: dal ricorso «antipatico» al ricorso «sarchiapone».
10 Cass., S.U., 6.9.2010, n. 19051, in Giust. civ., 2011, I, 403, con nota di Terrusi, F., Il filtro di accesso al giudizio di cassazione: la non soddisfacente risposta delle sezioni unite.
11 In Giur. cost., 2015, 945 e 955, con nota di Esposito, M., La Consulta schiva l’occasione per dire la sua sull’attività ultragiurisdizionale della Corte di cassazione (a proposito dell’art. 363 c.p.c. in tema di enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge).
12 In Foro it., 2014, 3435, corredata delle note di De Santis, A.D., Sul rilievo di una questione di legittimità costituzionale da parte della Cassazione che voglia pronunciare ex officio il principio di diritto nell’interesse della legge, e di Dal Canto, F., La Corte di cassazione, il principio di diritto nell’interesse della legge e le condizioni di proponibilità della questione di legittimità costituzionale. In precedenza Cass., 15.5.2000, n. 6237 s’era espressa in diverso senso, affermando che la questione di legittimità costituzionale è rilevante solo quando investa una norma dalla cui applicazione dipende la definizione del giudizio.
13 In Foro it., 2017, V, 223 ss. (Sulla richiesta di enunciazione del principio di diritto da parte del procuratore generale presso la Corte di cassazione) sono gli scritti del p.g. P. Ciccolo e di G. Ruffini: il primo preannunzia le linee direttive di un potenziato ricorso all’istituto da parte del proprio ufficio, il secondo è volto a fissare le condizioni per tale intervento.
14 In Foro it., 2016, I, 3753 e 3767, con nota di richiami di A. Palmieri.
15 In Foro it., 2011, I, 1862, con nota di Ianniruberto, G., La domanda del procuratore generale della Cassazione per l’enunciazione del principio di diritto: regole processuali.
16 Luiso, F.P., Diritto processuale civile, I, Principi generali, Milano, 2011, 78 s.