Processo amministrativo telematico: violazione delle regole tecniche
Dal 1 gennaio 2017 è divenuto operativo il processo amministrativo telematico, che prevede l’uso obbligatorio delle forme telematiche e si applica a tutti i processi indipendentemente dall’oggetto. La digitalizzazione riguarda ogni fase del processo e tutti gli atti e gli adempimenti delle parti, che devono essere effettuati in via telematica. Alle modalità telematiche sono affidati la formazione, la sottoscrizione, la notificazione, il deposito e la visualizzazione degli atti processuali e dei documenti, così come la pubblicazione delle decisioni. Per questo sono state dettate specifiche norme che disciplinano le modalità di formazione, sottoscrizione e deposito degli atti, dettando determinati requisiti. La questione fondamentale che si pone è la validità degli atti che non rispettano le norme tecniche o, in altri termini, stabilire quali sono dal punto di vista giuridico le conseguenze processuali della violazione delle norme del PAT.
1.3 Principi di gerarchia delle fonti e riserva di legge 2. La focalizzazione 2.1 Assenza di sottoscrizione e deposito digitale 2.2 La sottoscrizione del modulo di deposito 2.3 Mancata sottoscrizione dei documenti 2.4 Mancata redazione dell’atto in formato nativo digitale 2.5 Notifica cartacea e doppio originale 2.6 Firma CAdES anziché PAdES ai fini della notifica 3. I profili problematici
L’entrata a regime dal 1° gennaio 2017 del processo amministrativo telematico (PAT) ha portato in evidenza il tema delle conseguenze, in termini di invalidità, nel caso di difformità degli atti delle parti dalle regole tecniche imposte dal nuovo regime processuale sull’utilizzo delle modalità telematiche.
Il PAT detta un regime obbligatorio di digitalizzazione degli atti che si applica a sino al 31.12.2017 ai soli procedimenti il cui ricorso introduttivo sia stato depositato in primo o secondo grado a partire dall’1.1.2017, ma a partire dall’1.l.2018, si applicherà a tutti i processi pendenti anche risalenti.
In linea generale si può dire che la normativa tecnica sul PAT ai fini della formazione, sottoscrizione, notificazione e deposito degli atti processuali delle parti e dei documenti, preveda:
a) la formazione degli atti processuali in file formato nativo digitale (di solito PDF) e la sottoscrizione degli atti processuali con firma digitale versione PAdES;
b) il deposito dei documenti in formato copia immagine (di solito PDF in cd. copia “scansionata”). Il deposito della procura rilasciata in forma analogica e degli atti notificati con le modalità tradizionali in formato copia immagine previa asseverazione con firma digitale della conformità all’originale cartaceo, al pari di altri documenti per i quali la parte intende asseverare tale conformità;
c) la notifica tramite PEC o anche nelle forme del tradizionale atto cartaceo (stante l’esistenza di soggetti, quali ad esempio i controinteressati parti private, che non sono muniti di casella PEC);
d) il deposito del ricorso e degli altri atti e documenti in via telematica a mezzo PEC o, eccezionalmente, tramite Upload.
Nella valutazione delle conseguenze della violazione di tale disciplina vengono in rilievo diversi aspetti problematici inerenti alla valenza della normativa che ha introdotto il PAT sulla forma degli atti processuali, alla gerarchia delle fonti normative in relazione e all’applicazione del principio di conservazione degli atti in ambito processuale.
Sin dall’inizio dell’operatività del PAT, si sono registrati due opposti filoni interpretativi sulla valenza da dare all’introduzione del processo telematico e, in particolare, alle norme che riguardano la forma degli atti processuali e ne disciplinano la redazione, la sottoscrizione e il deposito in formato digitale.
Un primo filone interpretativo ritiene che l’entrata in vigore delle norme sul PAT abbia inciso sulla forma stessa dell’atto processuale che non è più quella tradizionale “cartacea” bensì esclusivamente quella digitale, intesa come forma vincolante intesa come forma vincolane ai fini della sua validità. L’art. 136 c.p.a. dispone, al co. 2 bis, che «salvi i casi di cui al comma 2, tutti gli atti e i provvedimenti del giudice, dei suoi ausiliari, del personale degli uffici giudiziari e delle parti sono sottoscritti con firma digitale». Allo stesso modo, parallelamente, l’art. 136, co. 1, c.p.a. prevede che il deposito vada effettuato in forma digitale. Le disposizioni del d.P.C.M. n. 40/2016 confermano la necessità della redazione, sottoscrizione e deposito in forma digitale. La violazione delle norme di rango primario inerenti alla “forma telematica”, quali quelle dettate dall’art. 136 c.p.a., sono veri e propri vizi formali dell’atto, con conseguente nullità (o inesistenza) dei relativi atti in caso di loro inosservanza, salvo il rispetto del principio di tassatività delle nullità processuali e l’eventuale applicazione del principio di sanatoria per raggiungimento dello scopo1. Al contrario, una differente corrente di pensiero considera le norme previste dal PAT per la formazione e la sottoscrizione degli atti come norme attinenti al deposito, che rilevano ai fini delle formalità di produzione in giudizio degli stessi ma che non incidono sulla forma degli atti in senso stretto. Questo orientamento riduce l’impatto in innovativo del PAT portando alla “dequotazione” della valenza della violazione delle regole sulla redazione e firma degli atti previste per il PAT. Tali violazioni non vanno considerate quali vizi di forma dell’atto processuale in senso stretto, anche qualora inerenti a normativa di fonte primaria previste dal codice del processo amministrativo. Corollario di tale impostazione è che l’assenza della forma digitale non rendere radicalmente invalidi per vizio di forma gli atti, ponendo “solo” problema di regolarità del deposito.
In sostanza, quest’ultimo orientamento esclude che l’atto debba essere redatto necessariamente in forma digitale, continuando ad applicarsi il principio della libertà della forma previsto dall’art. 121 c.p.c., anzi, per meglio dire, il principio della funzionalità della forma rispetto allo scopo.
Il codice del rito amministrativo non regola la materia della nullità degli atti processuali, se non in minima parte, e occorre quindi fare riferimento alle disposizioni del processo civile, in virtù della norma di rinvio contenuta nell’art. 39, co. 1, c.p.a., ai sensi del quale «per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali». In tale contesto trova ampio spazio anche il principio di conservazione degli atti e, in particolare, la regola generale secondo cui le nullità processuali vengono sanate nel caso in cui l’atto abbia in concreto raggiunto il suo scopo, anche nell’ipotesi di mancanza dei requisiti formali previsti dalla legge a pena di nullità. Appare, infatti pacificamente applicabile al processo amministrativo la norma del co. 3, art. 156, c.p.c. secondo cui «la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato».
Lo scopo degli atti previsti nel PAT deve essere individuato nell’ottica di assicurare la possibilità di esercizio del diritto di azione e difesa, nonché la piena conoscibilità degli atti anche da parte del giudice. In sostanza, si può valorizzare il criterio del raggiungimento dello scopo “salvando” l’atto che risulti pienamente a conoscenza delle controparti e del Collegio giudicante, di cui siano certe di volta in volta l’appartenenza, la data di sottoscrizione, di deposito
o di notifica, che rispetti pienamente il contraddittorio e non abbia determinato alcuna concreta violazione del diritto di difesa.
Inoltre, si deve tener conto del principio secondo cui le invalidità fondate sulla violazione di norme di rito non sono volte a tutelare l’interesse all’astratta regolarità del processo, ma a garantire l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della rilevata violazione, con l’impossibilità di declaratoria di nullità per vizi formali che non comportano conseguenze sostanziali in termini di vulnus all’andamento del processo o al diritto di difesa delle parti2.
Assume rilevanza per la tematica del regime delle violazioni della normativa PAT anche il principio di gerarchia delle fonti normative e quello di riserva di legge. La normativa sul PAT è un insieme di norme primarie, con valenza legislativa, e secondarie, di natura regolamentare. In particolare, il PAT è disciplinato da fonti primarie come il codice del processo amministrativo (artt. 25, 136 e art. 13 delle Norme di Attuazione, all. 2; fonte regolamentare d.P.C.M. n. 40/2016 (Regole tecnico-operative) e all. A specifiche tecniche. Vi sono poi, come fonti primarie quali ad esempio il d.l. 31.8.2016, n. 168 conv. in l. 25.10.2016, n. 197 e rinvii ad altre fonti “esterne”, fra le quali primo fra tutti il d.lgs. 7.3.2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale).
In sostanza, tuttavia, la maggior parte delle norme tecniche di operatività del PAT è contenuta nel d.P.C.M. n. 40/2016.
Il codice del processo amministrativo ha, infatti, scelto per l’introduzione del PAT, di rinviare sostanzialmente a un regolamento la disciplina delle “regole tecnico-operative” del nuovo processo digitale. L’opzione per la sede regolamentare è stata giustificata, nella stessa Relazione di accompagnamento al Codice del processo amministrativo, dalla necessità di assicurare i due requisiti della flessibilità e tempestività di adattamento alle novità tecnologiche, in un contesto caratterizzato da una forte tecnicità e da una rapida obsolescenza dei sistemi, analogamente a quanto avvenuto con il d.m. 17.7.2008 che ha fissato le regole tecnico-operative per l’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile.
Anzi, a ben vedere, il d.P.C.M. n. 40/2016, prevede oltre al Regolamento con le regole tecniche-operative, anche un all. A, con le “specifiche tecniche”, nonché dei (non meglio specificati) “parametri tecnici”, che sono una fonte sub regolamentare, tanto è vero che vengono «adeguati ed aggiornati in base all’evoluzione scientifica e tecnologica» con provvedimento del responsabile del Sistema Informativo della Giustizia Amministrativa (SIGA).
Il nostro ordinamento è caratterizzato da un principio di riserva di legge per quanto concerne la materia processuale. Al riguardo, infatti, l’art. 111, co. 1, Cost. prevede che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge».
Sia che tale riserva di legge si consideri assoluta (come pare più probabile) sia che si consideri relativa, in questa materia possono essere demandate alla fonte regolamentare solo disposizioni che traducono in modalità tecniche le regole processuali fissate da fonte primaria, con la conseguenza che il potere regolamentare del Governo deve limitarsi a regolamenti di stretta esecuzione.
Le norme regolamentari sul PAT debbono avere, quindi, valenza meramente esecutiva delle norme processuali primarie, specificandone dal punto di vista tecnico il contenuto, e non possono porsi in contrasto con le regole processuali previste dalle disposizioni del codice, né modificare le regole in materia di termini, oneri e decadenze per le parti, né tantomeno stabilire autonomi casi di nullità o inammissibilità.
Qualora lo facciano, le norme regolamentari e sub regolamentari di cui all’indicato d.P.C.M. sono direttamente disapplicabili in quanto in contrasto con norme processuali primarie3.
Le nullità degli atti processuali, al pari delle ipotesi di inammissibilità, devono infatti essere ricondotte a una fonte normativa primaria.
Ciò impone lo sforzo interpretativo, in caso di violazione delle regole stabilite nel d.P.C.M., di ricondurre le conseguenze di tali violazioni a effetti sanciti da una fonte primaria e, in primis, al codice del processo amministrativo (nel senso che la violazione della norma regolamentare dovrà concretarsi anche nella violazione di una norma primaria di cui quella regolamentare specifica la portata in modo meramente esecutivo e la sanzione dovrà essere ricondotta alla previsione della fonte legislativa).
Qui di seguito si traccerà un quadro delle questioni più rilevanti emerse sul tema delle conseguenze della violazione delle regole tecniche.
Si deve al riguardo segnalare come in entrambi gli orientamenti indicati nel par. 1.1 sulla forma digitale come forma dell’atto o come modalità accessoria al deposito, si riconosce ampio spazio al principio di conservazione degli atti che, tuttavia, opera diversamente.
Nel primo caso in sede di sanatoria, per il concreto raggiungimento dello scopo dell’atto affetto da nullità, sulla base del generale disposto dell’art. 156, co. 3, c.p.c. Nel secondo caso ab origine, per escludere la nullità della violazione della norma tecnica dequotandola a mera irregolarità.
Al livello giurisprudenziale si deve registrare che sinora le decisioni hanno assunto un contenuto equilibrato e consapevole della novità della riforma, privilegiando il criterio di conservazione degli atti e limitando, in concreto davvero al minimo, le pronunce di inammissibilità.
Inoltre, anche nelle ipotesi in cui l’indirizzo giurisprudenziale è stato restrittivo, acclarando la nullità dell’atto non conforme alle prescrizioni sulla forma digitale previste dal PAT, si è fatto talvolta uso dell’istituto dell’errore scusabile, ex art. 37 c.p.a., “neutralizzando” così le conseguenze pratiche delle violazioni poste in essere dalle parti, a cui viene chiesto comunque un particolare sforzo di diligenza per la corretta applicazione del regime PAT, considerata anche l’esistenza di alcune inevitabili incertezze interpretative4.
La prima questione venuta in rilievo è l’assenza di sottoscrizione con firma digitale dell’atto. Al riguardo l’orientamento che ritiene che la forma digitale e la sua sottoscrizione con firma elettronica siano requisiti di forma, tende a sanzionare con la nullità tale assenza. Ciò a fronte dell’indicata previsione di nullità tassativa dell’art. 44, co. 1, lett. a), c.p.a., ai sensi del quale il ricorso è nullo se manca la sottoscrizione.
In questo senso si sono espressi il TAR Campania, Napoli, II, n. 1053/2017 e TAR Campania, Napoli, I, n. 3507/2017, secondo cui l’art. 136, co. 2-bis, c.p.a., nello stabilire che tutti gli atti delle parti (salvo specifiche eccezioni) sono sottoscritti con firma digitale, e non più che gli stessi «possono essere sottoscritti con firma digitale» (come nel testo anteriore al d.l. n. 168/2016, conv. in l. n. 197/2016), contiene un’espressa disposizione sulla forma degli atti e non riguarda la sola modalità di deposito5.
La prescrizione dell’art. 40 c.p.a., in base al quale il ricorso deve contenere la sottoscrizione del ricorrente, se sta in giudizio personalmente, o del difensore munito di procura speciale, deve intendersi riferita alla sottoscrizione mediante firma digitale. Nello stesso senso va interpretato l’art. 44, co. 1, lett. a), c.p.a., per il quale il ricorso è nullo se manca la sottoscrizione.
A conferma di ciò si porrebbe anche l’art. 9, co. 1, d.P.C.M. n. 40/2016, il quale contempla che «salvo diversa espressa previsione, il ricorso introduttivo, le memorie, il ricorso incidentale, i motivi aggiunti e qualsiasi altro atto del processo, anche proveniente dagli ausiliari del giudice, sono redatti in formato di documento informatico sottoscritto con firma digitale conforme ai requisiti di cui all’articolo 24 del CAD». Ribadita a livello di principio la nullità del ricorso privo di sottoscrizione digitale, si ritiene, tuttavia, che si possa fare applicazione del principio di conservazione degli atti in concreto, ex art. 156, co. 3, c.p.c., e non si possa pronunciare la nullità prevista dalla legge – perché l’atto ha comunque raggiunto il suo scopo – qualora l’imputabilità dell’atto al suo autore sia rilevabile aliunde, come ad esempio dalla notifica in forma cartacea del medesimo ricorso.
In particolare, viene richiamata la giurisprudenza processual-civilistica secondo cui la declaratoria di nullità non si giustifica allorché dalla copia dell’atto notificato, benché priva della sottoscrizione del difensore, sia possibile desumere, sulla scorta degli elementi in essa contenuti (ad es. in base alla sottoscrizione per autentica della procura in calce), la provenienza da un procuratore abilitato munito di mandato (Cass., VI, 20.1.2011, n. 1275).
Nel regime del PAT è ancora consentito ricorrere alle formalità tradizionali di notificazione del ricorso e nel caso in cui l’atto cartaceo notificato alle altre parti rechi l’autenticazione in calce del mandato e le relazioni di notifica redatte e sottoscritte (in maniera autografa e legittima) dal difensore, l’atto notificato è inequivocabilmente riferibile al difensore e, in quanto tale, non può essere dichiarato nullo nonostante l’assenza della firma digitale.
Tra l’altro si osservi che se può esservi nel processo civile il dubbio che l’assenza di sottoscrizione comporti l’inesistenza dell’atto processuale (come tale non sanabile), il codice del processo amministrativo sanziona espressamente con la nullità tale vizio.
In tale contesto è intervenuta la pronuncia del Cons. St., IV, n. 1541/2017, che in un caso di deposito in forma cartacea del ricorso, si è espressa con una pronuncia di ampio respiro, abbracciando sostanzialmente l’indicato orientamento alternativo secondo cui le disposizioni sulla digitalizzazione vanno configurate come disposizioni sul deposito degli atti e non come disposizioni che impongono una forma vincolata.
Secondo questo indirizzo, il ricorso non redatto o comunque non sottoscritto in forma digitale, benché certamente non conforme alle prescrizioni di legge, non diverge in modo così radicale dallo schema normativo di riferimento da dover essere considerato del tutto inesistente perché, anche alla luce del principio di strumentalità delle forme processuali, non si configura in termini di non atto. Peraltro, la normativa sul PAT consente ancora delle ipotesi in cui è consentito, seppure in via eccezionale, il deposito con sottoscrizione cartacea ad es. nel caso dell’esistenza di particolari ragioni di riservatezza o di mancato funzionamento del SIGA. Non può, inoltre, nemmeno configurarsi come un atto abnorme. L’atto non è, infine, neppure nullo in considerazione del generale principio processual-civilistico, applicabile anche al processo amministrativo, della tipicità delle nullità processuali, di cui all’art. 156, co. 1, c.p.c., ai sensi del quale l’inosservanza di norme comporta la nullità degli atti del processo solo in caso di espressa comminatoria da parte della legge.
Dato che nel PAT manca una specifica previsione di nullità per difetto della forma e della sottoscrizione digitale, non vi sarebbero i presupposti necessari per dichiarare il ricorso nullo nella sua fase genetica di formazione e sottoscrizione, come allo stesso modo in relazione alla successiva notificazione e deposito, difettando, anche in questo caso, specifiche disposizioni che sanciscano la nullità dell’adempimento se realizzato in formato cartaceo.
L’atto compiuto in violazione delle norme sul PAT è, conseguentemente, “solamente” irregolare e le prescrizioni sulla forma, sulla sottoscrizione e sul deposito in digitale sono solo strumentali alla “correntezza” del PAT, ma non si pongono a garanzia di altri interessi superiori6.
Accertata l’irregolarità dell’atto il Collegio deve, quindi, fissare al ricorrente, ex co. 2, art. 44, c.p.a., un termine perentorio per la regolarizzazione nelle forme di legge, la cui inosservanza comporta l’irricevibilità del ricorso.
Secondo questo indirizzo, pertanto, il principio di conservazione degli atti opera riportando l’assenza di deposito e sottoscrizione in forma digitale a mera irregolarità.
In riferimento ai termini di ampio respiro dell’indicata pronuncia del Consiglio di Stato si può precisare come quest’ultima riguardi un caso di deposito di ricorso in forma cartacea anziché digitale; non, quindi, l’ipotesi di assenza di sottoscrizione elettronica tout court, bensì quella più circostanziata di “sostituzione” dell’atto telematico con un atto cartaceo7.
Pur in tale ottica, pertanto, la violazione delle norme sulla firma digitale appare qualificabile come mera irregolarità solo nel caso in cui esista un corrispondente atto cartaceo. In assenza del deposito di una sottoscrizione cartacea, infatti, dovrebbe operare la previsione di nullità ex art. 44, co. 1. lett. a), c.p.a. Non saremmo in presenza di una violazione delle regole tecniche del PAT, bensì della norma processuale sostanziale che impone la sottoscrizione del ricorso.
Sempre con riferimento alla sottoscrizione digitale si pone la questione se l’assenza della firma digitale sugli atti processuali depositati (es. ricorso, memoria di costituzione etc.) possa essere ovviata dalla sottoscrizione digitale del modulo di deposito dei medesimo atti.
La problematica riguarda l’interpretazione del co. 5, art. 6, all. A (specifiche tecniche) al d.P.C.M. n. 40/2016, secondo cui tutti i documenti digitali da allegare «compreso il ricorso, sono inseriti in un unico contenitore» (ovverosia il modulo di deposito) e la firma digitale PAdES apposta sui moduli di deposito «si intende estesa a tutti i documenti in essi contenuti».
Quest’ultima norma, nel prevedere l’estensione della firma apposta sul modulo di deposito, sembrerebbe far venir meno la necessità di una specifica sottoscrizione sui singoli atti. Tuttavia il tema pone una problematica di coordinamento con altre norme di fonte superiore che dispongono la necessità della sottoscrizione sui singoli atti processuali.
Al riguardo, infatti, l’art. 136 c.p.a. prevede che gli atti processuali devono essere sottoscritti con firma digitale e l’art. 9, co. 1, d.P.C.M. n. 40/2016, prescrive che «il ricorso introduttivo, le memorie, il ricorso incidentale, i motivi aggiunti e qualsiasi altro atto del processo… sono redatti in formato di documento informatico sottoscritto con firma digitale».
Si è posto, quindi, il problema di verificare l’esatta portata normativa della previsione dell’art. 6, co. 5, delle specifiche tecniche a cui la giurisprudenza ha sinora dato soluzioni contrastanti.
Sul punto si è espresso in senso negativo il TAR Campania, Napoli, I, n. 1694/2017, ritenendo che la nullità degli atti processuali depositati senza sottoscrizione digitale, non possa essere ovviata dalla firma digitale apposta sul modulo di deposito.
L’adito TAR motiva la sua posizione restrittiva in base a considerazioni basate sul principio di gerarchia delle fonti normative e sulla natura di mera fictio iuris della sostenuta estensione.
La motivazione fondante della pronuncia è basata sul già indicato argomento della necessità del rispetto dei principi di gerarchia delle fonti normative e di riserva di legge in materia processuale, ai sensi dell’art. 111, co. 1, Cost.
Le disposizioni delle specifiche tecniche contenute nell’all. A non possono derogare alle fonti normative di livello superiore e la previsione contenuta nell’art. 6, co. 5, delle specifiche tecniche – che prevede l’estensione della firma apposta nel modulo di deposito – non può consentire una deroga agli artt. 136, co. 2 bis, c.p.a. e 9, co. 1, d.P.C.M. n. 40/2016, che prevedono la necessità dell’apposizione della firma digitale conforme ai requisiti di cui all’art. 24 del CAD su tutti atti processuali delle parti.
In secondo luogo, ammettere la validità di un atto processuale privo di sottoscrizione digitale, per il solo fatto che sia stato firmato il modulo di deposito, si tradurrebbe in una fictio iuris, volta a considerare come valido ed efficace un atto che, in realtà, è privo di un requisito essenziale. A riprova della natura fittizia dell’estensione della firma digitale apposta sul modulo di deposito ai documenti in esso contenuti, milita la circostanza che, dopo la sottoscrizione con firma digitale del modulo, non risulta di fatto apposta sui singoli documenti alcuna firma digitale, come peraltro il Collegio si è premurato di accertare con strumenti idonei.
Al contrario, altra giurisprudenza si è espressa in senso favorevole all’estensione della firma digitale del modulo di deposito agli atti processuali ivi contenuti: TAR Lazio, Roma, III bis, ord. 8.3.2017, n. 3231; TAR Calabria, Reggio Calabria, 15.3.2017, n. 209. Tali decisioni hanno ritenuto che la previsione dell’indicato art.6, co. 5, all. A, d.P.C.M. n. 40/2016 – secondo cui «la firma digitale PAdES si intende estesa a tutti i documenti contenuti» nel modulo di deposito – deve intendersi riferita, in senso onnicomprensivo, a tutti gli atti di parte allegati al modulo stesso. Questi atti, ove non sottoscritti ex ante specificamente, dovranno ritenersi firmati al momento della sottoscrizione di invio del modulo di deposito (secondo quanto riscontrabile tramite il software Adobe).
Ciò sia in considerazione della ratio del PAT, sia per l’espresso testuale riferimento del co. 4 del medesimo art.6, all. A al “ricorso”, sia, infine, per la considerazione che i semplici documenti allegati non devono essere firmati dal difensore, ma tutt’al più autenticati. Quello che si può osservare è che la problematica si pone, in linea generale, per gli atti diversi dal ricorso che deve, infatti, essere sottoscritto prima del deposito. Inoltre, seppure tra i dubbi che possono ingenerare le questioni prettamente tecniche qualora trasferite sul piano giuridico, quello che pare porsi come argomento dirimente è che l’estensione della firma digitale dal modulo all’atto depositato si risolve effettivamente in una mera fictio in quanto, di fatto, la firma apposta sul modulo non risulta apposta sui singoli allegati contenuti nel modulo singolarmente considerati o almeno non è evincibile dagli stessi (per far ciò sarebbe necessaria una modifica del sistema informatico attuale della giustizia amministrativa). Tale fictio non è peraltro neanche “coperta” da una disposizione di rango legislativo.
La mancata sottoscrizione o l’assenza di asseverazione dei “semplici” documenti allegati al ricorso non comporta, invece, problemi di invalidità. Si deve, infatti, “ragionare” come con il cartaceo, dove il deposito di semplici copie fotostatiche era pienamente ammissibile. Solo nell’ipotesi in cui sia necessario depositare in giudizio una copia conforme all’originale, perché ad esempio vi sono contestazioni, allora si potrà procedere ad attestare la conformità di quanto depositato in digitale all’originale cartaceo, in modo identico a quanto accadeva nel previgente processo “cartaceo” nel caso di necessità di copie conforme. Al riguardo, l’ordinanza del TAR Lazio, Roma, III bis, n. 3231/2017 ha indicato che la copia informatica di un documento analogico priva di asseverazione, in assenza di contestazione, ha la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui è tratto (ai sensi dell’art. 22, co. 3, CAD), salvo che la conformità all’originale non sia espressamente disconosciuta, costituendo in pratica la versione moderna delle riproduzioni fotografiche cartacee.
La normativa sul PAT prevedere la redazione degli atti processuali (intesi come gli atti sottoscritti dalle parti come i ricorsi, le memorie etc.) in formato nativo digitale, ottenuto dalla trasformazione di un documento testuale, mentre per i documenti ammette anche la copia immagine (art. 12 delle specifiche tecniche, all. A, d.P.C.M. n. 40/2016).
Nel caso in cui l’atto sia redatto in formato copia immagine (copia scannerizzata) di un atto cartaceo, ma presenti la firma digitale e sia leggibile dalle parti e al Collegio, il mancato deposito dello stesso in formato nativo digitale, determina “solo” la violazione del formato digitale prescritto dalle specifiche tecniche. Si può quindi fare corretta applicazione del principio di conservazione degli atti per idoneità al raggiungimento dello scopo (TAR Calabria, Catanzaro, I, 10.2.2017, n. 175)8. Sebbene, infatti, l’atto depositato risulti difforme dalle norme sul PAT, tale difformità non si traduce in una nullità, avendo l’atto raggiunto il suo scopo e dovendosi quindi applicare il principio sancito dall’art. 156, co. 3, c.p.c.
Sin dal primo giorno di operatività del PAT si è posta la questione delle modalità di introduzione del giudizio nel caso in cui si debba procedere alla notifica in forma cartacea e non mediante PEC, perché il soggetto destinatario è privo di un valido indirizzo di posta certificata.
La notifica in forma cartacea è, infatti, ancora prevista dall’art. 14 d.P.C.M. n. 40/2016 e questa modalità diventa necessaria nel caso in cui l’atto va notificato a un controinteressato parte privata o a un’Amministrazione non inserita nel pubblico elenco PEC9.
È sorto, infatti, il quesito se in queste ipotesi si debba notificare l’atto “nato” in formato nativo digitale e sottoscritto con firma elettronica (consegnandone all’ufficiale giudiziario la stampa con l’asseverazione della conformità del cartaceo all’originale digitale), oppure se si debba procedere alla notifica di un ricorso cartaceo, firmato in forma autografa, e poi depositare (anche) un atto nativo digitale firmato digitalmente (tesi del cd. “doppio originale”).
Le norme sul punto non danno indicazioni esplicite limitandosi l’art. 136, co. 2 bis, c.p.a. a prevedere che tutti gli atti di parte siano sottoscritti con firma digitale, l’art. 9 d.P.C.M. n. 40/2016 a indicare che il ricorso introduttivo, le memorie, il ricorso incidentale, i motivi aggiunti e qualsiasi altro atto del giudizio debbano essere redatti in formato digitale e sottoscritti con firma digitale e l’art. 136, co. 2 ter, c.p.a., a prescrivere che il difensore possa depositare una «copia informatica, anche per immagine…di un atto processuale di parte... detenuto in originale o in copia conforme», attestandone la conformità alla versione cartacea ai sensi dell’articolo 22, co. 2, CAD.
In pratica è possibile, infatti, la seguente alternativa:
1) la redazione di un originale informatico, dal quale viene estratta una copia analogica, autenticata dall’avvocato, ai fini della notifica cartacea;
2) la redazione di due distinti originali, uno analogico, ai fini della notifica cartacea, ed uno informatico, per le eventuali, parallele notifiche a mezzo PEC, o, comunque, ai fini del deposito telematico.
Entrambe le soluzioni pongono aspetti problematici: la prima presuppone la sussistenza del potere dell’avvocato di attestare la conformità della copia cartacea all’originale digitale, messa in dubbio da alcuni, in forza del mancato richiamo nella normativa sul PAT all’art. 23 CAD («Copie analogiche di documenti informatici»), poiché l’art. 136, co. 2 bis, c.p.a. si limita richiamate l’art. 22 CAD; la seconda presuppone la necessità di ammettere l’anomala esistenza di un doppio originale del ricorso, uno in formato cartaceo (notificato) e l’altro in formato digitale, nonché in caso di procura sottoscritta dalla parte con firma digitale, l’impossibilità di esposizione con l’originale analogico.
A fronte delle difficoltà interpretative si è quindi prospettato un orientamento frutto di un atteggiamento “equilibrato” e ispirato a pragmatismo che attinge appieno al principio di conservazione degli atti.
Si può ritenere come entrambe le soluzioni possibili nel caso di notifica con le modalità tradizionali possano essere considerate valide, nell’ottica del raggiungimento dello scopo di cui all’art. 156, co. 3, c.p.c., qui consistente nel portare l’atto difensivo, nella sua piena leggibilità, a conoscenza della controparte e del Collegio, a condizione che si realizzino la certezza in ordine: alla paternità dell’atto, alla data di sottoscrizione e alla trasmissione dell’atto stesso, senza che, dunque, possa essere invocata alcuna concreta violazione del diritto di difesa e nel pieno rispetto del contraddittorio. Si può, inoltre, richiamare il principio secondo cui il rilievo di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme di rito non è volto a tutelare l’interesse all’astratta regolarità del processo ma a garantire l’eliminazione del pregiudizio, qui inesistente, subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della rilevata violazione.
In giurisprudenza si è pronunciata in tal senso TAR Lazio, Roma, III, 9.5.2017, n. 554510. Il medesimo avviso era stato espresso in un parere reso dalle associazioni delle avvocature all’esito dei lavori di un tavolo tecnico permanente, costituito presso il Segretariato della Giustizia Amministrativa in occasione dell’avvio del PAT, pubblicato, a fini informativi, sul sito della giustizia amministrativa11.
Altra questione è la sottoscrizione dell’atto in formato digitale CAdES, anziché con quello PAdES, ai fini della notifica del ricorso.
Gli artt. 6, co. 5, e 12, co. 6, all. A, d.P.C.M. n. 40/2016 prevedono infatti che nel PAT la firma digitale debba intervenire in formato PAdES (e non CAdES che, invece, è il formato che caratterizza le sottoscrizioni digitali nel processo civile telematico). Si è, tuttavia, ritenuto valido il ricorso notificato con firma apposta secondo il formato CAdES (TAR Campania Napoli, V, 4.4.2017, n. 1799)12.
In sostanza la validità del formato di sottoscrizione CAdES è stato fatto derivare da tre ordini di argomenti.
In primo luogo le indicate norme prescrivono l’utilizzo della firma digitale secondo lo standard PAdES per sottoscrivere digitalmente il ricorso depositato ma non per la sottoscrizione ai fini della notifica, che può essere eseguita anche negli altri formati ammessi dall’ordinamento.
In secondo luogo, la violazione delle specifiche tecniche con la sottoscrizione in formato CAdES non dà luogo ad alcuna violazione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione finale sicché non comporta l’invalidità dell’atto, ma, tutt’al più, una mera irregolarità sanabile in virtù del principio del raggiungimento dello scopo.
In terzo luogo, si deve tener conto della normativa europea e, in particolare, del Regolamento eIDAS (Regolamento UE n. 910/2014 del 23.7.2014) e della decisione esecutiva della Commissione europea n. 2015/1506 dell’8.9.2015 che impongono agli stati membri di riconoscere le firme digitali apposte secondo determinati standard, tra i quali figurano sia il CAdES sia il PAdES. Non si può, quindi, sanzionare con l’inesistenza l’utilizzo della firma apposta secondo lo standard CAdES, trattandosi di un formato ammesso dall’ordinamento come pienamente affidabile in termini di riconducibilità dell’atto al firmatario. L’utilizzo del formato CAdES per la firma digitale del ricorso notificato potrebbe, al massimo, determinare un’irregolarità della notifica, sanata dalla costituzione delle parti ex art. 44, co. 3, c.p.a..
Pur condividendo la soluzione adottata di non ritenere nulla la sottoscrizione dell’atto notificato in formato CAdES, si può probabilmente ritenere che la sua validità possa essere ricercata, più che sulla generale valenza precettiva della normativa comunitaria, nel rinvio esterno effettuato dal co. 2, art. 39, c.p.a., ai sensi del quale «le notificazioni degli atti del processo amministrativo sono comunque disciplinate dal codice di procedura civile e dalle leggi speciali concernenti la notificazione degli atti giudiziari in materia civile». Il riferimento alla generale applicabilità per le notifiche delle norme del processo civile ben potrebbe ricomprendere anche la sottoscrizione in formato CAdES dell’atto notificato espressamente prevista per il rito civilistico.
Pur nella dicotomia delle diverse concezioni della digitalizzazione come forma dell’atto o come modalità di deposito, è ampiamente condivisibile l’utilizzo di strumenti interpretativi di conservazione dell’atto, come l’applicazione del principio di raggiungimento dello scopo e di quello che considera irrilevanti le violazioni prive di incidenza sostanziale, così come una stringente applicazione del principio di tipicità delle nullità processuali.
La problematica più rilevante che si prospetta riguarda la possibilità, affermata dalla citata sentenza del Cons. St., IV, n. 1541/2017, del deposito in forma cartacea. Secondo chi scrive, infatti, l’operatività del principio conservativo si deve arrestare dinanzi al paletto invalicabile del deposito in forma digitale. Ritenere semplicemente irregolare il deposito cartaceo può portare alla violazione del principio dettato dall’art. 156, co. 2, c.p.c., secondo cui pur in assenza di una espressa previsione di invalidità per l’inosservanza della norma processuale, la nullità deve «essere pronunciata quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo».
È fortemente dubitabile, infatti, che a fronte della violazione dell’obbligo imposto dal co. 2, art. 136, c.p.a. e ribadito dal co. 4, art. 13, co. 1 ter c.p.a (ovverosia da norme primarie) di effettuare il deposito degli atti con modalità telematiche l’atto possa raggiungere ugualmente lo scopo a cui la legge lo ha preordinato.
Se è vero che lo scopo della previsione di determinate forme o adempimenti di legge è quello di portare la controversia a piena conoscenza del giudice e delle parti e consentire a queste ultime il corretto diritto di difesa, mettendole in condizione di esercitare i lorodiritti e facoltà processuali. È, tuttavia, altrettanto vero che si deve anche tener conto della complessiva finalità del PAT, che è quella di avere un processo telematico dove i diritti di azione e di difesa siano esercitabili attraverso il SIGA e, in generale, attraverso gli strumenti telematici previsti dalla normativa sulla digitalizzazione, come ad es. la PEC o la sottoscrizione digitale. Lo scopo quindi del deposito in forma digitale non è solo quello di portare gli atti nella piena potenziale conoscenza del giudice e delle parti, ma anche quello di farlo con immediatezza e facilità di accesso, mediante il portale del SIGA, così come quello di avere piena contezza del fascicolo e di tutte le attività svolte nel processo sempre tramite l’accesso al portale e, infine, che gli atti siano acquisiti e conservati nel fascicolo elettronico (che è l’unico fascicolo attualmente previsto) e vadano a confluire nel SIGA. La finalità del deposito in digitale previsto dal PAT è consentire che le parti esercitino i loro diritti di azione e difesa e, corrispondentemente, che il giudice eserciti le sue potestà decisorie, attraverso l’uso degli strumenti telematici e nell’ambito di un sistema informatico della Giustizia Amministrativa. Tale finalità difficilmente può essere conseguita consentendo il deposito cartaceo degli atti.
Nel regime del PAT il deposito in forma cartacea è, infatti, un’evenienza del tutto eccezionale a fronte di esigenze particolari o di “blocchi” del sistema, che deve rimanere entro ambiti strettamente tipici. L’ammissione in via ordinaria di tale modalità, in violazione delle disposizioni normative, va infatti potenzialmente a dequotare il sistema del PAT attenuando la vincolatività della forma digitale.
Senza contare i ritardi dei tempi processuali connessi alla necessità di consentire la regolarizzazione degli atti, che appaiono potenzialmente contrari al principio di ragionevole durata del processo prevista dall’art. 111, co. 2, Cost.
Seppure, quindi, non vi è una specifica sanzione di nullità per il deposito cartaceo, la sanzione della nullità, se non addirittura di inesistenza, può essere tratta dall’inidoneità dell’atto a raggiungere il suo scopo.
1 Esemplificativi di tale indirizzo sono TAR Campania, Napoli, II, 22.2.2017, n. 1053 e I, 28.6.2017, n. 3507
2 Cass. civ., S.U., 18.4.2016, n. 7665; Cons. St., IV, 4.4.2017, n. 1541.
3 Sulla questione Viola, L., Diritto e tecnica nel processo amministrativo telematico, in federalismi.it, n. 22/2016, 2 ss.
4 Hanno concesso l’errore scusabile in assenza di sottoscrizione digitale: TAR Calabria, Catanzaro, I, ord. caut., 9.2.2017, n. 50; TAR Campania, Napoli, IV, 13.2.2017, n. 892 e VII, 7.6.2017, n. 3065.
5 Si sono espressi per lo stesso motivo per l’inammissibilità di una memoria di costituzione TAR Campania, Napoli, I, 28.3.2017, n. 1694 e TAR Calabria, Catanzaro, I, 26.1.2017, n. 33.
6 Nello stesso senso TAR Calabria, Reggio Calabria, ord. 26.4.2017, n. 69 e TAR Campania, Napoli, VII, 12.6.2017, n. 3201.
7 Così TAR Campania, Napoli, VII, n. 3065/2017.
8 Contra TAR Campania, Napoli, I, n. 1694/2017.
9 Sul punto TAR Sicilia, Palermo, III, 13.7.2017, n. 1842 ha precisato che ai fini della validità della notifica telematica di un atto processuale ad una p.a. deve utilizzarsi esclusivamente l’indirizzo PEC inserito nell’elenco tenuto dal Ministero della Giustizia, di cui all’art. 16, co. 12, d.l. 18.10.2012, n. 179, che contiene l’indirizzo di posta elettronica certificata al quale le pubbliche amministrazioni – di cui all’art 1, co. 2, d.lgs. 30.3.2001, n. 165 – dotate di autonoma soggettività processuale hanno comunicato di voler ricevere le notificazioni per via telematica.
10 Si sono espressi per la validità della modalità del doppio originale: TAR Calabria, Catanzaro, I, 26.4.2017, n. 679; TAR Lazio, Roma, II, 1.3.2017, n. 2993.
11 Si tratta del documento «Indicazioni sulle modalità di esecuzione della notifica cartacea nel processo amministrativo telematico», redatto congiuntamente dai rappresentanti del CNF, dell’Avvocatura dello Stato, delle Avvocature pubbliche, delle Associazioni rappresentative degli Avvocati amministrativisti UNAA e SIAA.
12 Si è, invece, espresso per l’inesistenza del ricorso sottoscritto ai fini della notifica con firma digitale CAdES: TAR Basilicata, 14.2.2017, n. 160.