Abstract
Retaggio di un sistema processuale inquisitorio, eccentrico nel panorama dei riti speciali, il procedimento per decreto penale, icasticamente definito in termini di “condanna senza processo” trova il suo carattere qualificante in un lineamento – il differimento del contraddittorio – che determina uno strappo di difficile ricomposizione con il modello costituzionale dell’accertamento penale. L’analisi dei profili strutturali e funzionali dell’istituto mette in luce una pluralità di snodi problematici corrispondenti, tra l’altro, al rapporto tra petitum e condanna, alla inquietante correlazione tra misura delle garanzie difensive e levità della pena, alla natura e agli effetti dell’atto di opposizione.
1. Le origini di un modulo procedimentale debole nella fisionomia costituzionale e incerto nell’inquadramento sistematico
Il procedimento per decreto costituisce, tra i modelli alternativi di definizione del procedimento penale, l’istituto più antico, che affonda le radici nell’età intermedia, trovando un significativo precedente storico nel processus ex informata conscientia, di netto stampo inquisitorio (v., per tutti, Bellavista, G., Il procedimento penale monitorio, Milano, 1952, 1. Fa invece risalire l’istituto al procedimento inglese del plea guilty or not guilty, ma isolato, Longhi, S., Il decreto penale e le sue trasformazioni, in Scuola pos., 1911, 337).
Nella sua configurazione moderna, il procedimento per decreto compare per la prima volta nel codice del 1913, che costruisce il rito speciale in termini di strumento efficace di deflazione del carico giudiziario, articolato su un accertamento sommario e sulla previsione di un contraddittorio meramente eventuale e differito. Il decreto penale di condanna, pronunciato senza previa contestazione dell’accusa all’imputato, diventava esecutivo, a meno che l’imputato non lo impugnasse entro cinque giorni presentandosi in cancelleria per chiedere il dibattimento. La delimitazione dell’ambito operativo dell’istituto alle sole contravvenzioni punite con una mite pena pecuniaria veniva già a scolpire il rapporto tra levità della pena, semplificazione del rito e carattere intuitivo dell’accertamento (v. Mortara, L.-Aloisi, U., Spiegazione pratica del codice di procedura penale, I, Torino, 1922, 641). La stessa configurazione del procedimento per decreto in termini di rito a contraddittorio differito improntato a criteri di celerità ha veicolato un poco ragionevole parallelismo tra minore gravità del reato e sistematica riduzione delle garanzie processuali.
La fisionomia del decreto penale di condanna, icasticamente definito in termini di “condanna senza processo”, si conserva sostanzialmente inalterata nella successione delle diverse codificazioni unitarie, che consentono l’emissione del decreto penale di condanna senza previa contestazione dell’accusa all’imputato, salva la possibilità, per quest’ultimo, di proporre opposizione (la nota definizione è di Cordero, F., Procedura penale, Milano, 2006, 235).
L’allargamento dell’asse di indagine alla prospettiva interdisciplinare mette in luce le affinità tra il procedimento per ingiunzione e il procedimento per decreto, ricondotto dalla prevalente dottrina sotto il vigore del codice abrogato alla categoria del processo monitorio puro (Satta, S., Di alcuni profili del procedimento d’ingiunzione, in Studi dedicati ad Alessandro Raselli, II, Milano, 1971, 1464; contra Bellavista, G., Il processo penale monitorio, Milano, 1952, 14).
Calato nell’ambito del panorama dei riti speciali previsti dal codice del 1988, il procedimento presenta inediti profili di premialità. Sotto il profilo strutturale il rito si caratterizza ora per la mancanza sia dell’udienza preliminare sia del dibattimento.
Le difficoltà di inquadramento sistematico del rito speciale si ripercuotono sull’incerta natura giuridica dell’atto di opposizione, solo con qualche difficoltà riconducibile nel genere degli atti di impugnazione (v. sulla materia Piziali, G., Il procedimento per decreto, in I procedimenti speciali in materia penale, a cura di M. Pisani, Milano, 1998, 555 ss.).
L’avvento della Costituzione repubblica ha evidenziato una serie di profili di attrito dell’istituto con i principi fondamentali del sistema, moltiplicati dalla novella dell’art. 111 Cost. Le limitazioni impresse al contraddittorio si saldano alla sommarietà dell’accertamento nel coinvolgere valori costituzionalmente rilevanti distinti e ulteriori rispetto alle garanzie della difesa. La mancanza di un apporto argomentativo dell’imputato, quanto meno nella forma implicita di un preventivo consenso al rito, è suscettibile di ripercuotersi sia sull’imparzialità del giudice sia sul principio di completezza delle indagini sia sulla presunzione di innocenza, che comporta il diritto dell’imputato al tempestivo riconoscimento della propria innocenza.
2. La compatibilità con l’assetto costituzionale quale tradizionale snodo problematico del procedimento per decreto
Il tratto tipico qualificante la fisionomia del rito monitorio risiede, tuttora, proprio in quel profilo – il differimento del contraddittorio – che rappresenta il principale nodo di attrito con la cornice costituzionale del processo penale. Un’ininterrotta serie di pronunce, che muove dalla decisione n. 46 del 1957, concorre a delineare il granitico orientamento della Consulta sui rapporti tra contraddittorio e rito monitorio a fronte della continua formulazione di omogenee censure di legittimità (v. C. cost., 18.03.1957, n. 46, in Riv. proc. pen., 1957, 373, con nota di Conso, G., Anticostituzionalità dell’art. 510, comma 1° c.p.p.). Il ragionamento della Consulta ruota tradizionalmente intorno al nesso tra specialità del rito e modulazione differenziata del diritto di difesa. La Consulta sviluppa, quindi, tale premessa per approdare ad una costante valutazione di legittimità di una disciplina che consente l’emissione del decreto penale di condanna senza previa contestazione dell’accusa all’imputato.
La giurisprudenza costituzionale ha, peraltro, contestualmente intrapreso un diverso itinerario diretto a riequilibrare il deficit di garanzie prodotto dal differimento del contraddittorio con un rafforzamento globale dei diritti della difesa. Lungo questo percorso si snoda un itinerario giurisprudenziale che muove dalla nota decisione n. 90 del 1963 per approdare al più recente intervento sulla disciplina delle forme di notificazione del decreto penale (C. cost., 18.11.2000, n. 504, in Cass. pen., 2001, 799).
La consacrazione dei canoni del giusto processo nel testo novellato dell’art. 111 Cost. impone un rinnovato vaglio di legittimità della normativa sul rito monitorio, sotto più profili. L’art. 111 Cost., nel codificare le deroghe al principio del contraddittorio, pone, infatti, inediti criteri di controllo sui modelli processuali ex parte. In particolare, la previsione di un consenso dell’imputato successivo non solo alla formazione – e all’utilizzazione – della prova, ma anche alla pronuncia di condanna apre una breccia di legittimità nell’assetto processuale prefigurato dalla norma costituzionale. Analogamente, l’esplicita enunciazione, nel corpo dell’art. 111 Cost., del «diritto dell’indagato ad essere informato, nel più breve tempo possibile, della natura e dei motivi dell’accusa» non può non ripercuotersi sulla fisionomia costituzionale di un rito che consente di pervenire ad una affermazione di responsabilità dell’imputato senza che questi abbia avuto conoscenza del procedimento a suo carico. Le tradizionali questioni di costituzionalità parametrate sul principio di uguaglianza e sul diritto di difesa trovano, così, un nuovo referente normativo nell’art. 111, co. 3-5, Cost. Alla nuova veste assunta da petita tradizionali e a nuovi temi del giudizio di costituzionalità, rappresentati dall’omessa previsione dell’avviso di conclusione delle indagini, fa riscontro la rivisitazione da parte della Consulta del collaudato armamentario argomentativo forgiato sotto il vigore del codice abrogato. La tramatura delle decisioni più recenti prende le mosse da un pacifico rilievo di ordine generale: il necessario adeguamento dei principi sul giusto processo al carattere dei singoli procedimenti (v., in ordine alla variabile modulazione del contraddittorio in relazione alla peculiare struttura dei singoli riti alternativi, C. cost., 11.11.2010, n. 317; C. cost, ord. 13.7.2004 n. 292, in Giur. cost., 2004, 2949; C. cost., 27.3.2003, n. 131, ivi, 2003, 981). La Corte corrobora il consolidato corredo giustificativo con argomentazioni attinte al rafforzamento delle garanzie difensive nella fase successiva all’emissione del decreto, che varrebbe a controbilanciare le lacune della fase precedente.
3. I presupposti
3.1 Il progressivo ampliamento dell’ambito operativo dell’istituto
L’area operativa del procedimento per decreto viene a coincidere con la sfera dei reati punibili in concreto con una pena pecuniaria, anche se inflitta in sostituzione di una pena detentiva. Il quadrante dell’accesso al rito era disegnato in origine in funzione del regime di procedibilità dei reati e veniva a limitare l’ambito oggettivo di esperibilità dell’istituto ai reati perseguibili di ufficio. La l. n. 479/1999 ha esteso l’operatività del rito speciale ai reati perseguibili a querela, a condizione che questa sia stata validamente presentata e che il querelante non abbia nella stessa dichiarato di opporvisi.
La ratio sottesa all’impiego del rito riposa sulla manifesta fondatezza della notitia criminis e sulla conseguente presunzione di acquiescenza dell’interessato. Si ricollega a tale manifesta fondatezza il requisito formale costituito dal termine per la presentazione della richiesta di emissione del decreto, che deve essere avanzata dal pubblico ministero entro sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato.
Completa il quadro dei presupposti che delimitano l’impiego del rito speciale il disposto di cui all’art. 459, co. 4, secondo il quale il procedimento per decreto non è ammesso quando risulta la necessità di applicare una misura di sicurezza personale.
L’atto introduttivo del procedimento è costituito dalla richiesta che il pubblico ministero presenta al giudice per le indagini preliminari previa trasmissione del fascicolo formato dallo stesso pubblico ministero. Il pubblico ministero, che deve necessariamente indicare la pena principale proposta, può chiedere l’applicazione di una pena diminuita sino alla metà rispetto al minimo edittale.
La richiesta costituisce atto di esercizio dell’azione penale e deve essere motivata al fine di convincere il giudice della ipotizzata responsabilità dell’imputato (Lemmo, E., Il procedimento per decreto, in AA.VV., I riti differenziati tra procedimento e processo, Milano, 1990, 182).
3.2 I limiti del sindacato giurisdizionale sulla richiesta del pubblico ministero
Si profila problematico il quesito circa la natura e l’ampiezza del sindacato conferito al giudice in ordine a una richiesta del pubblico ministero che già contiene la formulazione di un progetto di dispositivo. Gli interrogativi di legittimità vertono, al riguardo, sia sul principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato sia sull’estensione dei residui poteri decisori ufficiosi del giudice.
L’ordito codicistico fa emergere un modello decisorio improntato a una stretta correlazione tra petitum e condanna che trova, tuttavia, significativi temperamenti. La possibilità di provvedere ultra petita non si arresta alla adozione di una pronuncia ex art. 129 c.p.p. o alla trasmissione degli atti al pubblico ministero, ma può determinare l’integrazione del provvedimento richiesto dall’organo dell’accusa con le statuizioni contemplate dall’art. 460 c.p.p., fondate sui risultati della valutazione discrezionale del giudice.
Qualora le risultanze delle indagini non consentano né di accogliere la richiesta dell’accusa né di pronunciare il proscioglimento ex art. 129, il g.i.p. deve restituire gli atti al pubblico ministero (v. Cass., S.U., 30.9.2010, n. 43055, inedita). La Consulta ha ravvisato ipotesi tipiche di restituzione degli atti al pubblico ministero nei casi di ritenuta incongruità della pena indicata nella richiesta e di sopravvenienza di amnistia dopo la richiesta di decreto penale di condanna (C. cost., 28.12.990, n. 580, in Giur. cost., 1990, 3263).
Conducono naturalmente alla restituzione degli atti al pubblico ministero la valutazione giudiziale circa l’incongruità della pena o la diversa qualificazione giuridica attribuita al fatto dal giudice per le indagini preliminari (con riferimento alla prima ipotesi v. C. cost., 12.10.1990, n. 447, in Giur. cost., 1990, 2678).
Sotto un diverso profilo il giudice conserva il potere discrezionale di valutare se applicare la sospensione condizionale della pena. In tal senso va letto il disposto dell’art. 460, co. 2, che prevede altresì che con il decreto di condanna il giudice ordini la confisca o la restituzione delle cose sequestrate.
Il «valore di pronuncia di condanna» riconosciuto al decreto penale dalla Consulta tonifica la necessità di una motivazione completa, ancorché concisa, che costituisce, peraltro, il corollario degli ampi poteri decisori già scandagliati dagli interventi della Corte. Esigenze di funzionalità del rito si saldano a ragioni di compatibilità costituzionale nel richiedere una motivazione convincente. Sotto un diverso profilo, la motivazione del decreto penale assolve la funzione di veicolare le ragioni dell’accusa con la quale l’imputato non sia stato posto in grado di interloquire nelle fasi precedenti.
Il vaglio penetrante demandato al giudice in sede di delibazione della richiesta di decreto penale integra quella «valutazione contenutistica dell’ipotesi accusatoria» assunta dalla giurisprudenza quale criterio identificativo di una situazione di incompatibilità. La decisione sulla richiesta è suscettibile di rivestire, nella struttura della fattispecie di incompatibilità, un duplice ruolo: quello di sede pregiudicante e quello di sito pregiudicato da una precedente attività fonte di prevenzione. Simmetricamente, la Consulta ha enucleato con due pronunce additive due ipotesi di incompatibilità aventi quali termini iniziali e finali, rispettivamente, il rigetto della richiesta di decreto penale di condanna e la partecipazione al giudizio, da un lato, la pronuncia di ordinanza di imputazione coatta e la partecipazione al procedimento per decreto, dall’altro (v. C. cost., 30.12.1991, n. 502, in Giur. cost., 1991, 4028 e C. cost., 21.11.1997, n. 346, ivi., 1997, 3411). Va peraltro rilevato come il testo novellato dell’art. 34 c.p.p. abbia introdotto una incompatibilità generale tra le funzioni di giudice per le indagini preliminari e la successiva partecipazione al procedimento per decreto.
4. Il decreto penale di condanna. Requisiti ed effetti
Il decreto penale di condanna presenta una struttura complessa che cumula i requisiti dell’atto di contestazione dell’accusa e della decisione di condanna, in corrispondenza con le diverse funzioni rivestite dal decreto. In questa ipotesi, infatti, la contestazione dell’addebito coincide con la notifica della condanna resa inaudita altera parte (Nicolucci, G., Il decreto penale di condanna tra principio del contraddittorio e diritto di difesa, in Dir. pen. e processo, 2003, 1019).
Entro l’ordito dei contenuti tipici della decisione di condanna si lasciano inquadrare la concisa motivazione; il dispositivo; la data e la sottoscrizione del giudice e dell’ausiliario che lo assiste. Con il decreto di condanna il giudice applica la pena nella misura richiesta dal pubblico ministero indicando l’entità dell’eventuale diminuzione della pena stessa al di sotto del minimo edittale.
Nell’alveo del secondo ordine di requisiti, tipici dei provvedimenti introduttivi del giudizio, rientra l’avviso che l’imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria hanno la facoltà di nominare un difensore, nonché l’avviso che l’imputato può chiedere mediante l’opposizione il giudizio immediato ovvero il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena ex art. 444.
Il decreto contiene altresì l’avviso che l’imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria possono proporre opposizione entro quindici giorni dalla notificazione del decreto e l’avvertimento che, in caso di mancata opposizione, il decreto diviene esecutivo. La mancata opposizione viene costruita in termini di accettazione della condanna inflitta con il decreto, ovvero in termini di acquiescenza. Quindi è la valorizzazione del consenso postumo prestato dall’imputato a fungere da contrappeso all’assenza di contraddittorio. La provvisorietà del decreto può suffragare un’interpretazione tanto elastica del termine «consenso» di cui all’art. 111 Cost. da ricomprendere un contraddittorio implicito e postumo (in tal senso v. Fiandaca, G.-Di Chiara, G., Una introduzione al sistema penale. Per una lettura costituzionalmente orientata, Napoli, 2003, 356; manifesta, invece, perplessità condivisibili Grevi, V., Alla ricerca di un processo penale «giusto», Milano, 2000, 297).
La deroga al contraddittorio tanto più si allinea ai principi costituzionali quanto più l’acquiescenza si colori in termini di scelta consapevole. L’accettazione della condanna può trovare solidi motivi ispiratori nei profili premiali che caratterizzano l’istituto. Infatti, il decreto penale di condanna non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento, né l’applicazione di pene accessorie. Anche se divenuto esecutivo, il decreto penale di condanna non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo. Il reato è estinto se nel termine di cinque anni, quando il decreto concerne un delitto, ovvero di due anni, quando il decreto concerne una contravvenzione, l’imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole. In questo caso si estingue ogni effetto penale e la condanna non è comunque di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena.
Il decreto penale di condanna non produce, quindi, effetti extrapenali. Al contrario, il decreto penale di condanna è assimilato alla sentenza resa in giudizio sotto il profilo della irrevocabilità e ai fini del giudizio di revisione (in particolare, il decreto penale di condanna produce l’effetto preclusivo tipico delle decisioni irrevocabili riconducibile al principio del ne bis in idem). Il decreto penale di condanna ha forza esecutiva quando è divenuto irrevocabile, ovvero quando è inutilmente decorso il termine per proporre opposizione o quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile. In queste ipotesi, il giudice che ha emesso il decreto di condanna ne ordina l’esecuzione.
5. L’alternativa tra acquiescenza e opposizione nel prisma dei rapporti tra difesa tecnica e autodifesa
L’imputato, cui sia stato notificato il decreto penale di condanna, è posto nell’alternativa tra prestare acquiescenza al medesimo e proporre opposizione, che rappresenta lo strumento idoneo a realizzare un compiuto, ancorché differito, esercizio del diritto di difesa da parte del condannato. L’assenza di contraddittorio nel primo segmento del procedimento per decreto impone, di per sé, un corrispondente irrobustimento delle garanzie difensive negli snodi procedimentali successivi all’emissione del decreto penale. La notifica del decreto fa decorrere il termine perentorio di quindici giorni per la proposizione dell’opposizione. L’opposizione può essere proposta sia dal condannato personalmente, sia dal difensore mediante dichiarazione ricevuta nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari che ha emesso il decreto. L’inammissibilità dell’opposizione presentata fuori termine o da persona non legittimata viene dichiarata con ordinanza, ricorribile per cassazione, nella quale si ordina contestualmente l’esecuzione del provvedimento impugnato. Tra gli ulteriori requisiti di ammissibilità della dichiarazione di opposizione l’art. 461 annovera l’indicazione degli estremi del decreto di condanna, della data del medesimo e del giudice che lo ha emesso. Come opportunamente rilevato dalla giurisprudenza, tuttavia, tali indicazioni sono prescritte a pena di inammissibilità nella misura in cui assolvono la funzione di consentire l’individuazione del provvedimento impugnato (Cass., 18.5.1992, Oppo, in Cass. pen., 1994, 1260).
Un primo problema concerne l’adeguatezza delle forme di notificazione. L’emissione del decreto penale su richiesta del pubblico ministero inaudita altera parte comporta l’adozione di un regime speciale delle notificazioni calibrato sull’esigenza di effettiva conoscenza del decreto da parte dell’imputato. Cadono, di conseguenza, sotto la scure della Corte costituzionale, le modalità di notificazione improntate a un criterio normativo di conoscenza: il rito previsto per gli irreperibili e il procedimento applicabile in caso di impossibilità della notificazione del decreto nel domicilio dichiarato dall’imputato (C. cost., 18.11.2000, n. 504, in Cass. pen., 2001, 799). L’attribuzione al difensore di un autonomo potere di proporre opposizione imprime di per sé un diverso significato alla prevista inoperatività del rito degli irreperibili, che non riflette più il portato di una necessità logica, ma esclusivamente il prodotto di una valutazione negativa in ordine all’opportunità di demandare all’esclusivo apprezzamento del difensore una scelta, quella tra acquiescenza e opposizione, così densa di implicazioni per l’imputato.
Sotto un diverso profilo, il più ampio ventaglio di opzioni difensive a disposizione del condannato nel vigente rito penale ha acuito l’esigenza di un apporto tecnico-giuridico nel confezionamento dell’atto di opposizione (v. Tranchina, G., I procedimenti alternativi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in AA. VV., I nuovi binari del processo penale, Milano, 1996, 111). L’assetto della difesa tecnica nel rito monitorio è, del resto, radicalmente mutato a seguito della l. n. 60/2001 che ha recepito le indicazioni suggerite dalla dottrina nel prevedere la notifica del decreto al difensore d’ufficio e quindi, implicitamente, la necessaria preventiva nomina di difensore d’ufficio. La giurisprudenza costituzionale ha fugato ogni dubbio in ordine alla configurabilità di un autonomo potere di opposizione in capo al difensore d’ufficio (v. C. cost., 18.2.2010, n. 55; Cass., 15.11.2007, n. 1799, in CED Cass., 238644).
6. Il giudizio conseguente all’opposizione. Instaurazione e svolgimento
La dottrina più recente tende senza incertezze ad inquadrare l’atto di opposizione nell’ambito dei rimedi impugnativi, sottolineandone peraltro i profili peculiari (di impugnazione speciale parla Alma, M., Decreto penale di condanna, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, IV, 1, Procedimenti speciali, a cura di L. Filippi, Torino, 2008, 431; la giurisprudenza attribuisce all’opposizione al decreto penale di condanna natura di impugnazione: v. Cass., sez. III, 28.5.1999, Prevedoni, in CED Cass., 214346). L’atto di opposizione presenta, infatti, il duplice contenuto di atto di impugnazione e di manifestazione di dissenso dell’imputato rispetto al rito speciale (v. Orlandi, R., Procedimenti speciali, in Conso, G.-Grevi, V., Compendio di procedura penale, Padova, 2006, 640). Infatti, nel giudizio conseguente all’opposizione il decreto penale di condanna deve essere revocato. L’opposizione non viene ad attribuire a un giudice di grado superiore la cognizione del procedimento, che prosegue davanti al giudice di primo grado. L’opposizione è quindi priva del cosiddetto effetto devolutivo (al contrario, l’opposizione viene ad attribuire al giudice la cognizione dell’intera causa, anche nell’ipotesi in cui l’opponente abbia indicato specifici motivi; per questa ragione l’opposizione è considerata l’archetipo dei rimedi impugnativi riconducibili alla categoria del gravame; v. Bargis, M., Impugnazioni, in Conso, G.-Grevi, V., Compendio, cit., 581).
L’opposizione produce invece un effetto estensivo nei casi in cui il decreto sia stato pronunciato contro una pluralità di imputati per il medesimo fatto. In questo caso, infatti, l’esecuzione del decreto di condanna rimane sospesa nei confronti di coloro che non hanno proposto opposizione fino a quando il giudizio conseguente all’opposizione proposta da altri coimputati non sia definito con pronuncia irrevocabile. Allo stesso modo, se l’opposizione è proposta dal solo imputato o dalla sola persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, gli effetti si estendono anche a quella fra le dette parti che non ha proposto opposizione.
L’art. 461, co. 3, consente all’opponente di indicare il procedimento prescelto per il giudizio conseguente all’opposizione. La proposizione dell’opposizione ammette quindi una articolazione della strategia difensiva secondo una tattica di trasformazione del rito. Con l’atto di opposizione l’imputato può presentare domanda di oblazione oppure chiedere al giudice che ha emesso il decreto di condanna il giudizio immediato ovvero il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena a norma dell’articolo 444. In assenza di specifiche richieste, il procedimento prosegue nelle forme del giudizio immediato.
Nel giudizio conseguente all’opposizione non opera il divieto di reformatio in peius. In particolare, il dibattimento che si instaura a seguito dell’ opposizione si svolge secondo le regole ordinarie. Del resto, la revoca del decreto è antecedente logico giuridico del(la definizione del) giudizio di opposizione.
La ridefinizione delle scansioni del procedimento, operata dalla l. n. 479/1999, nel precludere l’accesso dell’imputato ai riti speciali non richiesti nell’atto di opposizione, ha reso ineludibile un rafforzamento delle prescrizioni in tema di difesa tecnica.
Sotto un diverso profilo, l’articolazione della strategia difensiva secondo una tattica di trasformazione del rito comporta una stretta compenetrazione tra la disciplina del procedimento per decreto e l’assetto degli altri giudizi speciali. In particolare, l’inedita struttura impressa al rito abbreviato proietta inevitabili riflessi sulle scansioni procedimentali del rito monitorio. Così, la Corte costituzionale ha esteso alla richiesta di giudizio abbreviato formulata con l’opposizione a decreto penale di condanna la dichiarazione di illegittimità della normativa sul giudizio abbreviato «nella parte in cui non prevedeva il sindacato del giudice dibattimentale sul rigetto della richiesta di giudizio abbreviato condizionato» (cfr. C. cost., 23.5.2003, n. 169, in Giur. cost., 2003, 1337, con nota di G. Lozzi).
Fonti normative
Artt. 129, 459, 460, 461, 462, 463, 464, 648, 649 c.p.p.
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