Problemi storici del sottosviluppo
La categoria economica del sottosviluppo fu elaborata nella seconda metà del 20° sec. con l’inizio del processo di decolonizzazione e fu posta in collegamento inscindibile con la categoria di sviluppo. Non fu riferita infatti alle economie di pura sussistenza e in totale ristagno, ma a quelle di Paesi del Terzo mondo che, investiti dalle forze dirompenti del commercio internazionale, degli investimenti stranieri, del colonialismo, del capitalismo industriale, continuavano ad accusare una consistente inferiorità rispetto ai Paesi più sviluppati in termini di reddito pro capite, efficienza produttiva, livello di industrializzazione, quantità e tipologia dei consumi, condizioni igieniche e materiali di vita. Nel 1960 H. Singer proponeva di definire sottosviluppato un Paese in cui l’80% della popolazione fosse dedito all’agricoltura con modesti correttivi collegati allo sviluppo del commercio con l’estero. Criteri di distinzione così univoci e rigidi non furono mai unanimemente accettati, ma resta fermo il dato di fatto che la maggior parte dei Paesi che a metà Novecento si trovavano in condizioni di sottosviluppo conservava una struttura economica e sociale in larga prevalenza agricola, anche se non proprio e non sempre nelle dimensioni indicate da Singer. Nel contempo i Paesi che costituivano il cd. «mondo sviluppato» avevano tutti un’economia imperniata su un robusto apparato industriale e alcuni di essi cominciavano a entrare nella fase dello sviluppo postindustriale. Osservato attraverso questi parametri definitori, il sottosviluppo come realtà storica cominciò a comparire con l’inizio del processo di industrializzazione in Inghilterra, Francia, Belgio e poi Germania. Gli storici e i teorici dell’economia usarono e usano il concetto di arretratezza per definire il dislivello economico creatosi allora in Europa tra Paesi industrializzati e non. Ma, se si guardano i parametri proposti da Singer per qualificare il sottosviluppo nel 20° sec., troviamo evidenze statistiche sorprendentemente simili a quelle delle economie ancora preindustriali nel Sette-Ottocento.
Le spiegazioni del sottosviluppo sono state molteplici. Dotazione di risorse naturali e fonti energetiche furono chiamate in causa per spiegare lo sviluppo inglese, belga e franco-tedesco e il ritardo di altri Paesi privi di risorse minerarie e in particolare di carbone. Tuttavia il fatto che Paesi europei anche cospicuamente dotati di risorse naturali non fossero riusciti ancora a fine Ottocento ad avviare un consistente processo di sviluppo industriale e che ancor meno ciò avvenisse negli imperi coloniali spinse alla ricerca di spiegazioni più complesse del sottosviluppo, che non fu mai ricondotto univocamente alla carenza di risorse naturali. Negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento W.A. Lewis pose l’accento sul rapporto tra rivoluzione industriale e rivoluzione agraria. L’Inghilterra, quando mosse i primi passi sulla strada dell’industrializzazione, aveva un’agricoltura evoluta in senso capitalistico e tecnicamente efficiente, un grande sistema di scambi commerciali con l’estero, il reddito per abitante più alto d’Europa e quindi del mondo. I Paesi tropicali, sia per ragioni strettamente climatiche, sia per questioni di natura organizzativa e tecnica, secondo Lewis, avevano alla fine dell’Ottocento, e ancora ai suoi tempi, e possiamo dire in gran parte ancora oggi, rendimenti agricoli nettamente inferiori a quelli dell’area temperata, quindi redditi bassi e scarsissima capacità di acquistare beni manufatti. Altri studiosi non ritennero però che la rivoluzione agricola, da sola, fosse sufficiente a spiegare la casistica del sottosviluppo. In realtà la comparsa sul mercato internazionale dei prodotti dell’area avanzata esercitò sin dall’Ottocento un’indubbia funzione di blocco delle economie prive di apparati industriali e questo continuava a valere ancora nel Novecento in qualunque contesto integralmente liberista. Per questo R. Nurkse riteneva decisivo per l’industrializzazione non l’innalzamento della produttività e dei salari in agricoltura, quanto invece l’abbassamento dei prezzi dei prodotti industriali grazie all’impiego di tecnologie più avanzate, e per le quali era necessaria, secondo A. Gerschenkron, un’accumulazione forzata di capitali interni, oppure l’importazione di capitali esteri assieme a un’oculata azione dello Stato a protezione del mercato interno. Il protezionismo e l’intervento dello Stato era però possibile solo nei Paesi politicamente indipendenti, come quelli dell’Europa dell’Ottocento, studiati per l’appunto da Gerschenkron; non era certo praticabile da parte delle colonie rispetto alla madrepatria. Il problema del sottosviluppo, da esclusivamente economico, veniva quindi a configurarsi come problema anche politico. Buona parte della letteratura marxista sull’imperialismo aveva già da tempo insistito sulla funzione di blocco dello sviluppo economico svolta dalla madrepatria nel proprio impero coloniale. Le colonie sarebbero state in linea generale costrette tutte ad accettare, in forza di un rapporto di natura politica, una divisione del lavoro che le relegava nel ruolo di periferia agricola sfruttata e bloccata nelle sue possibilità di sviluppo da parte del centro industriale avanzato della madrepatria.
A questa teoria si erano contrapposte, sin dall’inizio del 20° sec., analisi neoliberali che la smentivano o la ridimensionavano sensibilmente. Fu rilevato che i mercati coloniali non erano stati affatto decisivi per lo sviluppo industriale della madrepatria, o comunque che erano stati molto meno importanti di quelli interni (in effetti ancora alla fine degli anni Sessanta del Novecento tutte le esportazioni dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina equivalevano ad appena il 3,5% del reddito dei Paesi industrializzati). Si era visto che i capitali investiti nei Paesi arretrati erano stati assai nettamente inferiori a quelli investiti nella madrepatria. Se era vero che il colonialismo aveva significato in molti casi drenaggio di risorse naturali dalle colonie alla metropoli, era vero anche che nelle colonie erano state create infrastrutture, amministrazione pubblica, condizioni igieniche e sanitarie e istruzione decisamente superiori a quelle delle aree non colonizzate. Paesi mai sottoposti in modo significativo al giogo coloniale erano rimasti ugualmente sottosviluppati e più poveri di molte colonie ed ex colonie. Successivamente si verificò anche che molte colonie, raggiunta l’indipendenza, continuarono a restare nella povertà e nell’arretratezza. Tutto ciò aveva portato al ridimensionamento dell’incidenza esplicativa del vincolo politico coloniale; restava però abbastanza estesa la convinzione che i Paesi sviluppati esercitassero comunque pesanti rallentamenti sullo sviluppo economico di quelli sottosviluppati e soprattutto che assai difficilmente lo sviluppo, in virtù di una spinta di natura puramente economica, finisse inevitabilmente per investire, prima o poi, l’intero pianeta, eliminando il sottosviluppo. Il fatto poi che negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento apparisse impossibile individuare cause univoche della divaricazione che si era prodotta su scala planetaria tra i Paesi ricchi e quelli poveri rendeva ancor più complicato individuare i rimedi.
I teorici del sottosviluppo degli anni Cinquanta, a partire da Lewis e H. Johnson, sulla scorta di analisi che muovevano dalle dinamiche ottocentesche ricostruite da W. Rostow, pervennero alla convinzione che solo un atto di deliberata volontà politica poteva creare le condizioni per rimuovere il sottosviluppo del Terzo mondo, così come solo un’industrializzazione per molti aspetti diversa e «governata» dai «fattori sostitutivi» (banca, Stato, capitali esteri) aveva consentito ai Paesi second comers europei di avviare la rincorsa all’Inghilterra nell’Ottocento. La strategia di lotta al sottosviluppo avrebbe dovuto basarsi su un trasferimento netto di capitali a vantaggio dei Paesi del Terzo mondo e sulla costruzione di un loro autonomo apparato industriale, capace di emanciparli dalle importazioni di manufatti esteri. Strategie simili furono tentate, sin dagli anni Cinquanta, non solo nella lotta al sottosviluppo dei Paesi del Terzo mondo, ma anche nelle politiche di riequilibrio interno di Paesi sviluppati, come l’Italia, alle prese con aree arretrate come il Mezzogiorno. Esse ebbero risultati diseguali, a volte con l’innesco di processi di modernizzazione delle strutture civili, di miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e dell’alfabetizzazione, e anche di crescita della produzione industriale, che causarono sensibili differenziazioni all’interno del Terzo mondo. Esse, tuttavia, non produssero mai in misura generalizzata un annullamento completo del sottosviluppo. Anzi, rispetto a molti Paesi, soprattutto dell’Africa, il divario crebbe. Nel 1970 il prodotto nazionale lordo per abitante del Terzo mondo, Cina esclusa, era di 310 dollari USA del 1960, contro i 2.280 dei Paesi sviluppati (inclusi i Paesi dell’Est europeo), pari quindi al 13,6%. Nel 1990 era di 370 contro 3510, pari al 10,5%. Solo la Cina dimostrava di reggere con 430 dollari, pari al 12,3%. Nel 1970 i Paesi ricchi del mondo accoglievano il 26% della popolazione del globo e ben l’82% del prodotto nazionale lordo e l’83% del commercio estero mondiale.
Sin dalla seconda metà degli anni Sessanta diversi studiosi del sottosviluppo portarono maggiore attenzione all’agricoltura e cominciarono a ipotizzare un modello di azione basato più sulle esportazioni (export oriented) che sulla sola difesa del mercato interno dei Paesi sottosviluppati (import substitution). Altri, rifacendosi a I. Bhagwati, teorizzarono che, senza troppo attendere sul fronte della trasformazione delle strutture produttive, occorresse puntare subito sul soddisfacimento dei bisogni umani di base. La Banca mondiale ispirò la sua politica a questa linea. Contemporaneamente si affermava la linea «terzomondista», di S. Amin, A. Gunder Frank, P. Baran, basata su assunti teorici marxisti. Per essa, le relazioni di dipendenza tra Paesi sviluppati e Paesi sottosviluppati erano sostanzialmente immodificabili, al di là delle oscillazioni che potevano prodursi in seguito alle crisi cicliche del sistema economico mondiale. Nelle aree sottosviluppate le forze produttive sarebbero state sempre bloccate dal rapporto di dipendenza con le aree sviluppate, e solo una rivoluzione su scala mondiale delle gerarchie politiche esistenti avrebbe potuto cambiare le cose.
A partire dagli anni Settanta-Ottanta, il quadro dei rapporti economici internazionali è stato sconvolto da due grandi fenomeni: a) la gravissima crisi dell’indebitamento estero dei Paesi del Terzo mondo, che ha interrotto la crescita non solo dei Paesi africani, ma anche dei Paesi dell’America Latina, con la sola eccezione del Brasile; b) la straordinaria affermazione dei cosiddetti Paesi di nuova industrializzazione (new industrialized countries, NIC) come Taiwan, Singapore, Corea del Sud, Hong Kong, Cina e, da ultimo, India, i quali, pur essendo poco dotati, e alcuni del tutto privi, di risorse naturali, hanno realizzato processi di industrializzazione di straordinaria rapidità e portata, basandosi sulla disponibilità illimitata di manodopera a basso costo e sull’assenza di qualsiasi vera misura di sicurezza del lavoro e di tutela ambientale. Questi due fenomeni hanno dimostrato, con opposte dinamiche, che la qualità delle risorse umane e le condizioni sociali, politiche e culturali possono compromettere anche la più favorevole delle situazioni di partenza (America Latina), o consentire il sovvertimento anche della più proibitiva delle dipendenze economiche, mettendo in crisi un po’ tutte le spiegazioni del sottosviluppo e le correlate ricette per il suo superamento. Il sottosviluppo appare ancora oggi come condizione economica della maggior parte della popolazione mondiale, resistente a ricette di tipo universale, ma vulnerabile da parte di terapie specifiche applicate a livello di contesti nazionali o addirittura regionali.
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