privazione
Concetto impiegato da Aristotele, che nella Metafisica ne individua le diverse accezioni (V, 1022 b 22 - 1023 a 7). È riferito fondamentalmente al divenire, e indica la mancanza di una forma, rivelata da una sorta di predisposizione ad acquisirla (Metafisica, XII, 1069 b 33). La p. (στέρησις) non indica una‘assenza’, una negazione (ἀπόφασις), ma un tendere, la predisposizione di un ente al possesso (ἕξις) di ciò di cui è privo: «la negazione non è altro se non assenza […] invece nel caso della p. vi è anche un sostrato naturale che fa da predicato alla p. stessa» (Metafisica, IV, 1004 a 14-16). In ambito etico, nel pensiero cristiano e nella tradizione agostiniana, il concetto di p. è centrale nella definizione del male; questo infatti non è inteso come un principio contrapposto al bene, avente un valore equivalente ma di segno contrario, poiché ciò comproverebbe la tesi manichea. Il male è inteso come «p. di bene» (Agostino, De civitate Dei, 11, 22; trad. it. La città di Dio) dovuta alla situazione metafisica della creatura vincolata alla finitezza (male metafisico) da cui deriva la scelta morale erronea (male morale). In età moderna, tali temi sono al centro della discussione sulla teodicea in Malebranche (che riconosce un carattere ‘positivo’ al male) e in Bayle, che presenta una tesi neomanichea, cui si oppone Leibniz nei Saggi di teodicea (1710). In ambito metafisico, la riflessione sulla p. come principio del divenire, accanto alla forma e alla materia, presente in Aristotele (Metafisica, XII, 1069 b 33), viene ripensata da Alberto Magno, che riconosce il ruolo attivo della p. in relazione alla dottrina dell’inchoatio formae, la forma ‘iniziale’ contenuta nella materia (Alberto Magno, Metaphysica, IX, 1, 3), e in prospettiva ancor più nettamente antiaristotelica da Cusano e Bruno, che vi riconoscono un superamento della rigida opposizione logica fra essere e non essere, a favore di una logica del reale che incorpora positivamente la p. nella coincidentia oppositorum («ut scilicet privatio sit principium ponens coincidentiam contrariorum»; Cusano, De beryllo, XXV): «ponendo la p. (cui è congiunta certa disposizione) come progenitrice, parente e madre della forma» (Bruno, De la causa, principio et uno, 1584, V). La materia è secondo Bruno «privata de le forme e senza quelle, non come […] il profondo è privato di luce: ma come la pregnante è senza la sua prole» (IV). Tale integrazione positiva della p. nel processo del divenire viene sviluppata nelle filosofie idealistiche e romantiche. In ambito logico, Locke (approfondendo la riflessione nominalista e hobbesiana) insiste sul significato delle «parole privative» (privative words) definendole come riferite a idee positive di cui significano l’assenza (Saggio sull’intelletto umano, 1690, III, 1, 4), sottolineando che una «causa privativa» produce comunque un’idea positiva (II, 8, 4-6). Leibniz si oppone a tali tesi nei luoghi corrispondenti dei Nuovi saggi sull’intelletto umano (1704): «non vedo perché non si potrebbe dire che vi sono idee privative» (III, 1, 4). La riflessione logica evolve verso una differenziazione fra enti privativi, i cui nomi indicano una mancanza, ed enti positivi, cui quelli rinviano (per es., la cecità come mancanza di vista). Nel Sistema di logica deduttiva e induttiva (➔) (1843) J. Stuart Mill scrive che i «nomi privativi» equivalgono a nomi positivi e negativi «presi insieme», poiché connotano l’assenza di alcuni attributi e la presenza di altri, laddove ci si sarebbe aspettato di riscontrare i primi (I, 2, 6).