privacy
<prìvësi> (it. <pràivasi>) s. ingl., usato in it. al femm. – Proveniente dagli Stati Uniti, ove il concetto è stato per la prima volta enucleato alla fine del 19° secolo, il lemma – volto in italiano con riservatezza – è stato introdotto nella nostra cultura con la progressiva assunzione di consapevolezza in ordine ai problemi inerenti la tutela della sfera privata dell’individuo; e ciò per effetto, tra l’altro, dell’incessante sviluppo della tecnica. Il conseguente, progressivo accentuarsi della sensibilità sociale per il tema ha indotto il legislatore a disciplinare la materia, per la prima volta, nel 1996; rivisitando poi la normativa nel 2003, con l’emanazione del . È innegabile che nell’arco di poco più di quindici anni, anche in ragione dell’istituzione del cosiddetto , una specifica autorità amministrativa indipendente, i temi legati alla riservatezza abbiano ricevuto un’attenzione sempre maggiore presso l’opinione pubblica. Tale percorso corrisponde, del resto, a quello di altri paesi: sicché non è un caso che il «rispetto della vita privata» e il «diritto alla protezione dei dati di carattere personale» siano oggi espressamente contemplati tra le «libertà» previste dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; mentre la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948) conteneva un divieto assai più generico di «interferenze arbitrarie nella vita privata». Dall’odierna normativa di matrice comunitaria, dunque, si trae l’itinerario concettuale che il lemma ha sin qui percorso: dacché inizialmente veniva riferito, appunto, alla sfera della vita privata, oggi indica, in modo più appropriato, anche il diritto, di cui ogni individuo è titolare fin dalla nascita, di controllare le informazioni che lo riguardano: cioè, nel linguaggio giuridico, i propri dati personali (v. ). Per quanto parte della dottrina italiana si sforzi di rintracciare nella Costituzione un supporto normativo a tale diritto, i richiami alla generale libertà personale e alle sue specifiche manifestazioni (inviolabilità del domicilio, segretezza di ogni forma di comunicazione, ecc.) non appaiono, in tal senso, decisivi. Il mancato, esplicito inserimento della riservatezza nella Costituzione, dovuto esclusivamente al fatto che, all’epoca della sua promulgazione, la coscienza politica e sociale non aveva maturato una consapevolezza adeguata, non significa che il diritto in esame non vada considerato tra quelli di rango costituzionale. E infatti lo si può far rientrare tra di essi riconducendolo nei «diritti inviolabili dell’uomo» previsti dall’art. 2: tanto più dopo il menzionato inserimento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Più in dettaglio, la normativa si fonda sul principio per il quale, poiché «chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano» (art. 1 d. lgs. 196/2003), qualunque «operazione» che quei dati coinvolga (ciò che il legislatore definisce «trattamento») può avvenire soltanto se il soggetto cui i dati si riferiscono (l’«interessato») ha prestato il proprio consenso, in modo espresso e consapevole. A meno che non ricorrano i particolari casi nei quali, in via d’eccezione, il trattamento è legittimo pur in assenza di autorizzazione. Ciò accade, tra l’altro, qualora sia effettuato per la necessità di rispettare un obbligo imposto dalla legge o da un contratto, o per salvaguardare l’incolumità fisica di una persona; nonché, nel rispetto di determinate condizioni, per esclusivi scopi scientifici, statistici o storici; ovvero, ancora, sulla base di informazioni provenienti da registri ed elenchi pubblici o da documenti conoscibili da chiunque. Quando, per converso, il trattamento sia effettuato in violazione delle prescrizioni di legge, l’autore ne risponde innanzitutto penalmente, se vi ha provveduto al fine di trarne profitto (per sé o per altri) o di recare ad altri un danno. Chi, poi, per effetto del trattamento illecito cagioni ad altri un pregiudizio, è tenuto a dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee a evitarlo: diversamente, ne è ritenuto responsabile (civile) e deve risarcirlo. Al di là di numerosi, ulteriori profili di disciplina (che mutano in funzione dell’ambito in cui si svolge e delle peculiari finalità alle quali s’indirizza il singolo trattamento), la più recente riflessione e la giurisprudenza degli ultimi anni lasciano cogliere un’evoluzione nell’inquadramento del diritto alla privacy. In effetti, nell’immediatezza dell’entrata in vigore della prima normativa italiana (1996), lo sforzo degli studiosi si era indirizzato in primo luogo alla ricostruzione della natura, della portata e delle peculiari modalità di esercizio di quello che è, a ragione, considerato un diritto della personalità. Successivamente, gli avvenimenti storici (innanzitutto l’11 settembre 2001) e l’evoluzione tecnologica sempre più spinta (a titolo d’esempio: la capillare diffusione di Internet e di strumenti – telefoni mobili, computer, social network – che hanno ulteriormente agevolato le comunicazioni di massa) hanno orientato l’attenzione su una prospettiva parzialmente differente: più attenta a sottolineare la coesistenza della riservatezza con altri diritti che l’attuale società postindustriale non può trascurare. Si pensi all’urgenza di assicurare la sicurezza dei cittadini a fronte di reati, non solo di stampo terroristico; alla necessità di non ostacolare l’attività di operatori economici nei settori, tra gli altri, della pubblicità e del marketing; o alla più tradizionale esigenza di garantire la libertà di espressione e di manifestazione del pensiero, che si esprime, tra l’altro, nell’esercizio dei fondamentali diritti di cronaca e di critica. Di qui – solo per citare alcuni degli esempi più eclatanti – il dibattito sull’opportunità di installare telecamere nelle vie cittadine, a presidio della sicurezza sociale ma con simmetrica contrazione della sfera privata di chi venga casualmente ritratto; o sulla legittimità delle intercettazioni telefoniche e, in generale, sulla possibilità di accedere alle innumerevoli informazioni sugli utilizzatori che gli apparati tecnici d’uso quotidiano recano con sé; o, ancora, alla legittimità di campagne pubblicitarie in forme invasive e indesiderate. Ma in tal modo si spiegano, anche, gli sforzi dei giudici più sensibili, chiamati a definire controversie assai delicate, per rinvenire un misurato punto di equilibrio tra le diverse, contrapposte esigenze. Se ne trae il convincimento che, nei prossimi anni, tema ineludibile continuerà a essere la ricerca del corretto bilanciamento tra riservatezza e altri diritti: bilanciamento da attuare in concreto, ma alla stregua di una valutazione, essenzialmente giuridica, della prevalenza che l’ordinamento assegna, anche secondo la gerarchia delle fonti, all’uno o all’altro degli interessi coinvolti dal singolo trattamento.
Privacy e nuove tecnologie. – Le tecnologie digitali di raccolta, organizzazione e diffusione di informazioni hanno infatti acuito la consapevolezza che non solo va difesa la dignità del singolo (celebre o ignoto che sia) rispetto alle 'invasioni' della sua vita privata, ma ancor prima va tutelato il suo diritto ad autodeterminarsi, nella dimensione privata così come in quella pubblica, senza essere esposto a influenze, pressioni, discriminazioni, riprovazione sociale o ad altre forme di interferenza da parte di chi possieda informazioni sul suo conto (ivi incluse le amministrazioni dello Stato). La sfera personale consiste, in altre parole, nell’«insieme di azioni, comportamenti, opinioni, preferenze, informazioni personali su cui l’interessato intende mantenere un controllo esclusivo, non solo per garantirne la riservatezza, ma per assicurarsi una piena libertà di scelta» (S. Rodotà, 1992). Essa si estende ben oltre la sfera privata: comprende per es. l’appartenenza politica o sindacale e le convinzioni religiose o filosofiche. Anche in questa ulteriore dimensione della p. si pone un problema di contemperamento degli interessi dell’individuo a cui le informazioni si riferiscano con quelli dei differenti soggetti, sia pubblici sia privati, che dispongano di tali informazioni o che intendano utilizzarle. E ad aumentare la complessità del quadro è l’accresciuta valenza economica dei dati personali, divenuti beni negoziabili o fattori produttivi di quella che è stata definita l’economia della conoscenza. Il punto di equilibrio raggiunto in Europa, a metà degli anni Novanta del 20° sec., si fonda su una disciplina piuttosto complessa, che ha i suoi cardini nel consenso informato alla raccolta e al trattamento di informazioni personali, e nel diritto dell’interessato a seguire e controllare il flusso di dati che lo riguardano. L’emergere dei social media, pur assai eterogenei tra loro (progetti collaborativi come Wikipedia, blog o microblog come Twitter, aggregatori di contenuti come YouTube, social network come Facebook, ecc.), ma accomunati dall’interazione dell’utente con l’informazione, insieme all’evolversi di altri strumenti tecnologici e modalità di utilizzo di Internet (deep packet inspection, pubblicità comportamentale, cloud computing, ecc.), sembra però mettere quel modello sotto una crescente pressione. Una pressione che è forse sociologica, prima che tecnologica o giuridica. Infatti, recenti ricerche rivelano che i cittadini più esperti nell’uso delle tecnologie digitali possono dividersi in due gruppi: i nativi digitali (coloro che sono nati e cresciuti con Internet) e gli immigrati digitali (coloro che hanno appreso a usare Internet nel corso della vita scolastica o lavorativa). I due gruppi hanno una percezione contrapposta della propria p.: pressoché irrilevante per il primo, assai rilevante (e preoccupantemente minacciata) per il secondo. La circostanza che i più consapevoli utenti della rete considerino la protezione delle loro informazioni personali, rispettivamente, irrilevante o inefficace, pone un evidente problema di politica legislativa, che le istituzioni dell’UE intendono affrontare con la recentissima proposta di un nuovo regolamento generale sulla protezione dei dati. Uno dei punti qualificanti (e più dibattuti) di tale proposta consiste nell’introduzione del cosiddetto diritto all’oblio. Benché non si tratti di una completa innovazione, ma piuttosto dell’irrobustimento e della precisazione di una norma già esistente, è questo forse il riconoscimento che il precedente paradigma, fondato sul consenso preventivo e sulla possibilità di controllo del flusso di informazioni, non regge dinanzi al mutato contesto tecnologico e sociologico: a quel paradigma si vuole ora sovrapporre, senza sostituirlo, quello del 'ripensamento' e del contenimento ex post del flusso di informazioni. Il tema della p., e della protezione dei dati, si interseca qui con quello dell’identità personale, intesa non nella sua accezione anagrafica, ma quale proiezione sociale dell’individuo, e pone la questione assai delicata dei limiti entro cui ciascuno può legittimamente esercitare un controllo esclusivo sulla propria rappresentazione esterna.