Abstract
Viene esaminato il significato del principio di laicità dello Stato, con particolare riferimento alla rilevanza che tale principio ha assunto nell’ordinamento italiano, sin dai primi anni successivi all’entrata in vigore della costituzione repubblicana; viene richiamata l’attenzione su democrazia e pluralismo ritenuti essenziali garanzie della laicità. Nella voce sono anche esaminati i problemi pratici della laicità, oggi in Italia.
Nella società contemporanea, multiculturale e multireligiosa, la laicità dello Stato, con riferimento ai temi della secolarizzazione, della neutralità rispetto alla questione delle “verità religiose”, della separazione tra la sfera politica e quella religiosa e del riconoscimento come diritti delle libertà di religione e verso la religione, costituisce il punto di riferimento fondamentale per evitare fenomeni di fondamentalismo e integralismo religioso e per ottenere il risultato di una civile convivenza fra tutti, a prescindere dalle diverse connotazioni di ciascuno: religiose, etiche, razziali, linguistiche, etniche, politiche, di sesso, di orientamento sessuale od altro.
Il principio di laicità dello Stato costituisce un principio di convivenza valido per tutti: la laicità non è altro che principio di democrazia, difesa del pari diritto, riconoscimento della libertà di coscienza, regola del «non fare ad altri ciò che non vorresti essere fatto a te», contro qualsiasi principio restrittivo (Calogero, G., Il principio del laicismo, in AA.VV., A trent’anni dal Concordato, Firenze, 1959, 67).
Il laico non è una persona che non vuole credere o che non crede; anche i laici, come tutti gli esseri umani, credono ed esprimono, nell’ambito filosofico, culturale e religioso, convinzioni, passioni, fedi e dunque è improponibile la definizione dei laici come “non credenti”. E non è neppure proponibile una contrapposizione tra “laici” e “cattolici”, per il semplice motivo, assai noto a chi conosce i problemi pratici della laicità, che nell’esperienza concreta vi sono molti cattolici che possono considerarsi laici, così come vi sono individui che, pur dichiarandosi non credenti o atei, non assumono tuttavia comportamenti rispettosi delle esigenze di laicità: laico può considerarsi chiunque si ispiri al principio della responsabilità della vita, un principio di libertà e di autonomia intellettuale per il quale ciascuno può consapevolmente scegliere il proprio progetto di vita, in base al valore dell’autodeterminazione.
Non esistono sostanziali differenze tra i due termini “laicità” e “laicismo”, nonostante la frequenza con la quale, nella polemica politica, il termine “laicista” viene usato, in senso spregiativo, per qualificare (negativamente) chi si propone di ottenere il rispetto delle esigenze di laicità nella società e si espone così all’accusa di essere un inguaribile “laicista”. Se si consultano i più diffusi vocabolari della lingua italiana, può constatarsi che con il termine di “laicità” si intende l’«estraneità rispetto alle gerarchie ecclesiastiche o alle confessioni religiose» e con quello di “laicismo” si indica l’«atteggiamento che propugna l’indipendenza e l’autonomia dello Stato nei confronti della Chiesa, sul piano politico, civile, culturale» (cfr. Devoto, G.-Oli, G.C., Dizionario della lingua italiana, II ed., Firenze, 1975); non sussistono in realtà differenze tra le due espressioni e tra le definizioni che se ne danno ed è solo un astratto artificio retorico quello di chi ritiene che tra le due espressioni ricorra una diversità sostanziale, che dovrebbe indurre, nelle intenzioni di chi usa tale artificio, a ritenere ammissibile il principio di laicità e meritevole di aspra contestazione chi sostenga il rispetto dell’esigenza laicista.
Quando si utilizzano aggettivi intesi a qualificare, in senso positivo o negativo, espressioni alle quali corrispondono determinati valori, risulta negativa per la chiarezza del dibattito la tendenza a differenziare concetti tra i quali non esiste una differenza sostanziale. La “sana” laicità è un’espressione usata nell’intento di dimostrare che quella degli oppositori di talune tendenze clericali è una laicità “malata”, meritevole dunque di un’idonea terapia; ed è molto accreditata l’aggiunta degli aggettivi “vero” e “vera” per definire, e qualificare positivamente, il laico e la laicità.
Di frequente le gerarchie ecclesiastiche in Italia tendono a svuotare del suo contenuto la parola laicità, un obiettivo che risulta chiaro se si valutano molti documenti ecclesiastici che riguardano tale questione: il punto di vista delle gerarchie cattoliche, quando parlano di “sana laicità”, è che separazione della religione dalla politica non significa separazione fra la morale e la politica e che la Chiesa cattolica è l’autorità divina, ultima e legittima, che definisce la verità in tema di moralità e che stabilisce ciò che è giusto in politica.
Nel linguaggio politico contemporaneo, il laicismo si contrappone al confessionalismo, al clericalismo e al fondamentalismo, espressioni con le quali ci si propone di assegnare alle istituzioni politiche e ai pubblici poteri il compito di ottenere il rispetto obbligatorio per tutti dei principi religiosi della Chiesa dominante.
Il laicismo si esprime comunemente in un orientamento tendenzialmente individualista e razionalista, con un riferimento tuttavia più ampio e comprensivo rispetto a quello della tematica religiosa, potendosi esso ritenere una concezione della cultura e della vita civile basata sulla tolleranza delle credenze di tutti e sul rifiuto del dogmatismo in ogni settore della vita sociale. Se una forma di separazione fra Stati e Chiese è la premessa storica allo sviluppo del pensiero laico, che è impossibile immaginare in un contesto politico-religioso caratterizzato dall’identità di Stati e Chiese, è con l’avvento dello Stato moderno che si è determinato un mutamento dell’originaria concezione unitaria del potere politico. Il pensiero e l’atteggiamento di quanti si professano laici riconoscono nella separazione tra la sfera pubblica della politica e la sfera privata della vita religiosa una condizione necessaria per la dignità dell’uomo e per il libero esplicarsi di tutte le sue capacità.
Un elemento essenziale del pensiero laico è stato individuato nel principio della tolleranza, detto anche principio del dialogo, a proposito del quale Guido Calogero riteneva necessario valutare «se, e in che misura, nelle singole culture, sia presente quel fondamentale principio della tolleranza, o principio del dialogo, secondo cui il rispetto, e la volontà di comprensione, per le culture e filosofie e religioni altrui, è ancora più importante, ai fini della civile convivenza di tutti, del sincero convincimento della verità delle idee proposte» (Calogero, G., Tolleranza e indifferenza, in Quaderno laico, Bari, 1967, 72-73, ivi, 72).
Storicamente il principio di tolleranza nasce come reazione alle persecuzioni religiose e prepara gradualmente la separazione della sfera politico-statale dalla sfera religiosa e l’affermazione della libertà di coscienza e della libertà di pensiero. Il principio del dialogo si è venuto sempre più affermando nella filosofia contemporanea e, nelle più diverse situazioni di cultura e di pensiero, vale per qualsiasi coscienza rispettosa di sé e delle altre: vale, o dovrebbe comunque valere, anche per ogni cattolico consapevole che la convivenza civile comporta pure esigenze di coesistenza con i non cattolici e i non credenti.
Se la ragionevolezza, l’antidogmatismo, la tolleranza e il dialogo sono tratti essenziali del pensiero laico, le garanzie della laicità sono soprattutto assicurate dai sistemi politico-giuridici, come quello entrato in vigore in Italia dopo il 1948, che prevedono la democrazia e il pluralismo.
Il principio di laicità non è espressamente contemplato nelle costituzioni europee diverse da quella francese del 1958, nella Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali approvata a Roma nel 1950, nella Carta dei diritti approvata a Nizza il 15 dicembre del 2000 e nel Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007: testi costituzionali che non prevedono espressamente il principio di laicità e che tuttavia stabiliscono regole e principi dai quali si può dedurre la pratica applicazione del valore della laicità. Tale principio non è espressamente contemplato nella Costituzione italiana del 1948; nell’art. 7, co. 1, è previsto il principio dell’indipendenza (e di sovranità) tra Stato e Chiesa cattolica, ma occorre essere consapevoli che il richiamo, nell’art. 7, co. 2, Cost., dei Patti lateranensi del 1929, con gli elementi di confessionalità che essi contenevano, ha ostacolato la realizzazione del principio di laicità nell’ordinamento costituzionale italiano: ed è nota la pesante influenza che, per l’evoluzione democratica della società italiana, ha rappresentato la decisione, approvata dalla maggioranza dell’assemblea costituente il 25 marzo del 1947, con il voto determinante del partito comunista italiano, di richiamare nella costituzione i Patti del Laterano, a proposito dei quali giustamente si è per molti anni parlato di un’ipoteca del concordato sulla democrazia nel nostro paese.
Quel voto influenzò profondamente la politica delle istituzioni repubblicane negli anni successivi all’entrata in vigore della carta costituzionale. In conformità a quanto aveva lucidamente previsto in assemblea costituente Piero Calamandrei, la considerazione dello Stato come braccio secolare delle istanze provenienti dalla Chiesa cattolica per un lungo periodo, è stato il “nocciolo” della questione dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica.
Se la Carta costituzionale del 1948 non fa alcun riferimento al principio di laicità, quest’ultimo costituisce tuttavia un principio che, soprattutto se inteso nella sua accezione originaria, come separazione della sfera dello Stato da quella propria delle Chiese, può essere dedotto dal sistema di democrazia pluralista previsto nella Carta costituzionale italiana e in molte altre costituzioni europee.
A proposito dei vari significati che può assumere il concetto di laicità, è noto che, con specifico riferimento al “caso italiano”, con la sent. 12.4.1989, n. 203, la Corte costituzionale ha inteso affermare l’esistenza nel nostro ordinamento della cd. laicità positiva, quella cioè della «non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale»; la Corte costituzionale non ha invece accolto quella concezione della “laicità-neutralità”, considerata «l’espressione più propria della laicità» da un giurista di accentuata sensibilità democratica come Costantino Mortati: una concezione che, al contrario di quella accolta dai nostri giudici costituzionali, comporta l’irrilevanza per lo Stato e per le istituzioni repubblicane dei rapporti derivanti dalle convinzioni religiose dei suoi cittadini, nel senso di considerarli fatti privati da affidare alla coscienza dei credenti. Tale concezione della laicità era bene espressa dalla formula del settimo principio fondamentale della Costituzione della Repubblica romana del 1848, nel quale si stabiliva che l’esercizio dei diritti privati e pubblici dei cittadini non avrebbe dovuto dipendere dalla loro credenza religiosa. È questa una concezione che, a distanza di tanti anni da allora, tarda ad affermarsi nel nostro Paese, come dimostra l’esperienza della vita parlamentare e del dibattito politico in Italia.
Pur in assenza di disposizioni costituzionali che qualifichino espressamente lo Stato italiano e le sue istituzioni con riferimento al principio di laicità, il problema dell’alternativa laicità/confessionalità, che era stato discusso durante i lavori dell’assemblea costituente, ha dominato il dibattito sui caratteri dello Stato italiano dopo l’entrata in vigore della Costituzione del 1948 e la discussione sul carattere confessionale o laico dello Stato italiano ha costituito una questione di primaria importanza nella dottrina e nella giurisprudenza.
Per comprendere e valutare l’influenza che i valori costituzionali hanno esercitato sull’esperienza giuridica in materia religiosa nell’Italia democratica degli anni che seguono l’entrata in vigore della Carta costituzionale del 1948, è necessario tenere presenti le condizioni che hanno caratterizzato la vita sociale del nostro paese in tale periodo.
Un primo compito che si poneva con urgenza al legislatore dell’Italia democratica era quello di una tempestiva riforma della legislazione in materia ecclesiastica e religiosa, capace di assicurare: il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili di ogni essere umano sia come singolo sia nelle formazioni sociali nelle quale si sviluppa la sua personalità (art. 2 Cost.), il rispetto della eguaglianza formale e sostanziale dei cittadini, singoli e associati, indipendentemente dal culto professato (art. 3 Cost.), e del principio di imparzialità dello Stato in tale materia (art. 97 Cost.), l’attuazione del principio di separazione fra l’ordine civile e l’ordine religioso (art. 7, co. 1, Cost.), il riconoscimento delle libertà, individuali e collettive, di religione e verso la religione (art. 8, 17, 18, 19, 20, 21, 33 e 38 Cost.); una riforma idonea cioè ad inserire stabilmente nel sistema il riconoscimento dei più significativi valori contenuti nella Costituzione con riferimento al fattore religioso.
È stato merito della dottrina più sensibile al nuovo clima che andava maturando nel Paese, in corrispondenza con i profondi mutamenti costituzionali sopravvenuti alla caduta del regime fascista, avere tempestivamente individuato l’esigenza di affermare un criterio generale di interpretazione delle norme giuridiche riguardanti il fatto religioso: quello di saggiare le concezioni teoriche alla stregua delle garanzie di libertà dell’individuo. Per un lungo periodo tuttavia non vengono adeguatamente poste in rilievo le contraddizioni rilevabili nel sistema dopo le innovazioni previste dal costituente e non vengono evidenziate le nuove potenzialità offerte dai principi costituzionali in materia religiosa per una interpretazione della disciplina legislativa capace di rinnovarne i contenuti e i metodi e di tenere conto dei valori affermati nella Carta del 1948.
Dal punto di vista politico e giuridico la conferma della intangibilità dei Patti stipulati nel 1929 e l’interpretazione che, con varie sfumature, sostiene il principio della prevalenza del sistema concordatario e delle sue singole disposizioni sui principi costituzionali del 1948 determinano la grave conseguenza che per molti anni l’azione dello Stato viene vincolata all’osservanza di un’etica confessionale e le minoranze religiose nel nostro Paese vengono a trovarsi in una condizione di vergognosa mancanza di libertà.
Si spiega così come rimangano a lungo senza effetto i ripetuti tentativi con i quali i rappresentanti delle minoranze religiose in Italia chiedono l’abrogazione della legislazione sui «culti ammessi» (l. 24.6.1929, n. 1159 e r.d. 28.2.1930, n. 289) e l’applicazione del principio contenuto nell’art. 8, co. 3, Cost., che riconosce alle rappresentanze delle confessioni diverse dalla cattolica il potere di stipulare intese con lo Stato.
La tendenza a svalutare l’importanza dei principi costituzionali per una modifica del sistema legislativo e l’orientamento favorevole a interpretare in senso restrittivo le garanzie contemplate nella Costituzione e a negare l’influenza dei valori costituzionali sull’esperienza giuridica relativa al fenomeno religioso caratterizzano, nei primi anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, la politica del Governo, le prevalenti posizioni dottrinali e giurisprudenziali, la prassi amministrativa e l’atteggiamento dell’opinione pubblica. Per un lungo periodo, dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, gli organi pubblici, le forze politiche e sociali, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti agiscono come se la Carta costituzionale non esistesse.
Fu la lunga notte clericale, l’epoca delle persecuzioni scelbiane contro gli “acattolici”, l’epoca in cui ogni riunione dei protestanti era considerata sovversiva. L’art. 7 della Costituzione e la cancellazione del 20 settembre dalle festività nazionali (decisa in una seduta alla Camera del 25.5.1949) sono residui di quell’epoca e di quella mentalità (cfr. Basso, L., Perché chiedo l’abrogazione del Concordato, in L’Astrolabio, VIII, 27.9.1970, n. 38, 12).
Dei Patti lateranensi è rimasto oggi in vigore il solo Trattato del Laterano, con esclusione però dell’art. 1, nel quale era previsto che la religione cattolica, apostolica, romana era la sola religione dello Stato italiano; nel 1985 è entrato in vigore il Patto di villa Madama, stipulato fra l’Italia e la Santa sede il 18.2.1984.
Sono note le condizioni politiche che, all’inizio degli anni ottanta, hanno portato alla conclusione della lunga vicenda della revisione del concordato del 1929, quando i rappresentanti dello Stato italiano e della Santa sede hanno ritenuto di non condividere la tesi di chi da anni sosteneva come più opportuna la soluzione del superamento del regime concordatario nell’Italia democratica e pluralista. La prospettiva del diritto comune è stata abbandonata anche da parte delle confessioni religiose di minoranza: questo mutamento di prospettiva, dovuto all’importanza che, per le varie confessioni religiose, ha assunto l’obiettivo di ottenere l’abrogazione della legislazione sui culti ammessi del 1929-1930, ha esercitato notevole influenza nel rendere più debole la posizione di quanti, anche all’interno del mondo cattolico, continuano a ritenere che i concordati, e le intese con contenuti analoghi a quelli dei concordati, essendo accordi tra due ordinamenti che hanno natura e finalità diverse e spesso contrastanti, non sono strumenti idonei a soddisfare insieme le imprescindibili esigenze dello Stato italiano e delle Chiese.
L’aggiornamento dei Patti lateranensi del 1929 (una restaurazione camuffata da revisione) non ha rappresentato un risultato adeguato a soddisfare le esigenze che caratterizzano una società democratica: l’eguaglianza dei cittadini e dei gruppi sociali in materia religiosa, l’imparzialità dello Stato in tale materia e il principio di laicità, che opera come fattore primario del modello di democrazia pluralista del nostro sistema giuridico.
Negli ultimi decenni si sono verificate le condizioni favorevoli per l’instaurarsi di sempre più frequenti e intensi rapporti tra le autorità pubbliche e i rappresentanti degli interessi religiosi. Sull’affermarsi di questa pratica del confronto e del dialogo ha fortemente influito il proposito di agire nella prospettiva di un miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini, in ambiti essenziali quali sono quelli dell’educazione e della formazione, della lotta per il superamento delle discriminazioni e dell’emarginazione sociale, della parità dei sessi, della sanità. Queste tendenze e il perseguimento di questi obiettivi pongono problemi di non facile soluzione per chi si proponga di favorire la costruzione di una società e l’organizzazione di istituzioni fondate sul principio di laicità.
Pur nella consapevolezza di quanto siano mutate nel tempo le condizioni di rispetto dei diritti costituzionali in materia religiosa, occorre ritenere che oggi l’ordinamento italiano non è un ordinamento democratico perché non è garantito il principio di laicità delle istituzioni repubblicane (un ordinamento o è laico o non è democratico); non è garantita l’uguaglianza dei cittadini e delle confessioni religiose davanti alla legge; non è garantita l’eguale libertà delle confessioni religiose, che subisce lesioni ogni qual volta ad una confessione religiosa sia offerta la possibilità di una esplicazione più accentuata di libertà e la libertà si trasformi dunque in “privilegio”; non sono garantite le libertà di religione e verso la religione di moltissimi italiani, credenti e non credenti, bambini e adulti, donne e uomini, alunni e insegnanti, dentro la scuola e fuori della scuola; non è garantita l’eguaglianza tra credenze religiose e credenze filosofiche e tra confessioni religiose e organizzazioni non confessionali e filosofiche.
Sono molti i veti e divieti che la Chiesa cattolica, sul fondamento della tesi dei cd. valori non negoziabili, continua a porre alla previsione di nuove disposizioni normative in tema di procreazione assistita, riconoscimento giuridico di forme di convivenza diverse dal matrimonio eterosessuale e testamento biologico.
Le preoccupazioni sono particolarmente giustificate in materia scolastica, nella quale, sul fondamento di un radicale rifiuto della concezione della scuola pubblica come struttura essenziale per la conoscenza e l’accettazione dell’altro, da molto tempo è in atto un processo di sistematica distruzione della scuola della repubblica, dimostrato da tanti e significativi “fatti”: approvazione dalla l. 10.3.2000, n. 62, relativa alla parità scolastica e al diritto allo studio e all’istruzione, una legge a mio avviso incostituzionale, dovendosi ritenere in contrasto con i principi contenuti in tema di scuola, insegnamento e istruzione nell’art. 33 Cost.; assunzione a tempo indeterminato nella scuola pubblica di migliaia di docenti di religione cattolica; prassi delle scuole private cattoliche di ogni ordine e grado di licenziare chi si sposi con rito civile o chi realizzi una famiglia di fatto; sussistenza di un quadro complessivo di politica scolastica che privilegia le scuole private e la scuola come servizio ai privati e indebolisce ulteriormente il profilo laico della scuola concepita come luogo di convivenza e di confronto di tutte le idee.
È necessario essere consapevoli che soltanto una scuola veramente laica, che rispetti cioè tutte le fedi senza privilegiarne alcuna, è in grado di operare su un piano di parità e cioè con piena legittimità costituzionale. Il pluralismo religioso e culturale può realizzarsi soltanto se le istituzioni scolastiche sono imparziali di fronte al fenomeno religioso: l’imparzialità delle istituzioni scolastiche pubbliche di fronte al fenomeno religioso deve realizzarsi attraverso la mancata esposizione di simboli religiosi piuttosto che attraverso l’affissione di una pluralità di simboli, che non potrebbe in concreto essere tendenzialmente esaustiva e comunque finirebbe per ledere la libertà religiosa negativa di coloro che non hanno alcun credo.
I temi più delicati della questione relativa ai rapporti tra Stato e Chiese potranno trovare una soluzione soddisfacente solo quando le autorità della Repubblica italiana e delle confessioni religiose avranno acquisito la consapevolezza che nella coscienza sociale sono maturate nuove condizioni, che consentono di considerare il superamento della “logica concordataria” come il risultato dell’affermazione di una società pluralista, nella quale la garanzia della libertà delle Chiese non va ricercata negli accordi di vertice ma nella stessa società.
I convinti sostenitori dell’idea di laicità sono oggi impegnati nel perseguire l’affermazione di principi fondati sul rifiuto delle scelte di vertice sui problemi che riguardano da vicino la vita quotidiana di ciascun individuo e il raggiungimento dei seguenti obiettivi: contestazione di ogni forma di integralismo e di fondamentalismo; diffusione, soprattutto attraverso l’attività didattica svolta dai docenti delle scuole pubbliche, di un’adeguata valutazione di quali importanti novità derivino dall’avvento delle società multiculturali, interculturali, multireligiose e multietniche; impegno per la conoscenza della cultura dello Stato di diritto e delle garanzie costituzionali, che rappresentano le principali risorse per il rispetto del principio di laicità in ogni paese democratico; superamento di un modello unico di famiglia e riconoscimento pubblico, anche normativo, di forme di convivenza variamente denominate, che non si identificano con il tipo di famiglia fondata sul matrimonio previsto nell’art. 29 Cost. e tuttavia sono meritevoli di riconoscimento, ai sensi dell’art. 2 Cost., che riconosce i diritti degli individui sia come singoli sia nelle formazioni sociali nelle quali si sviluppa la loro personalità, e dell’art. 29, co. 1, Cost. riferibile anche alle famiglie «naturali», non fondate sul matrimonio; affermazione di libertà di scelte responsabili in ogni fase della vita, e dunque anche delle scelte riguardanti i trattamenti sanitari ai quali sottoporsi e del rifiuto di trattamenti sanitari che si esprimano attraverso forme di accanimenti terapeutici nei confronti delle persone; gestione laica del sistema sanitario e del sistema nazionale di istruzione; abolizione dell’insegnamento delle religioni in ogni ordine di scuola pubblica; cancellazione del sostegno pubblico diretto nei confronti delle scuole confessionali; cancellazione dei privilegi economici nei confronti di ogni confessione religiosa (esenzione dal pagamento dell’Imu, sistema dell’otto per mille ecc.); abolizione del concordato e dei privilegi in materia religiosa che da esso derivano alla Chiesa cattolica; previsione di un’unica disposizione costituzionale che, a proposito dei rapporti tra Stato e Chiese, stabilisca il diritto delle confessioni religiose, tutte uguali di fronte alla legge, di stipulare intese con lo Stato per disciplinare aspetti pratici dei diritti riconosciuti dalla carta costituzionale.
Una conclusiva valutazione del principio di laicità dello Stato italiano induce a ritenere che sia sempre più condivisa la necessità di perseguire con tenacia obiettivi indispensabili per la realizzazione di una società democratica nella quale, in attuazione dei valori di autodeterminazione e della pari e piena dignità sociale di tutti gli essere umani, venga rispettato il diritto di ciascuno di essere se stesso, sia come singolo sia nelle formazioni sociali nelle quali si svolge la sua personalità.
Cost., artt. 1, 2, 3, 7, 8, 17, 18, 19, 21, 29, 33, 97; l. 24.6.1929, n. 1159 e r.d. 28.2.1930, n. 289; l. 25.3.1985, n. 121; l. 11.8.1984, n. 449.
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