Principio di colpevolezza e responsabilità oggettiva
Dopo le sentenze della Corte costituzionale sul principio di colpevolezza, e dopo l’importante intervento del 2009 delle Sezioni Unite sull’art. 586 c.p., ci si sarebbe potuti attendere l’introduzione della colpa in via interpretativa in tutte le norme ancora sospette di contenere il germe della responsabilità oggettiva. Le aspettative sono state, tuttavia, deluse almeno in relazione all’art. 584 c.p. e, in parte, all’art. 116 c.p.: la giurisprudenza più recente, infatti, non è univoca nell’imputare il «reato diverso da quello voluto» al concorrente anomalo per colpa, mentre è decisamente ostile a far spazio alla colpa all’interno della fattispecie dell’omicidio preterintenzionale. In queste due norme la subordinazione della responsabilità alla colpa incontra ancora forti ostacoli, taluni dei quali rimovibili solo ad opera del legislatore, a partire dalla rimodulazione delle cornici edittali.
Al principio di colpevolezza è stato definitivamente riconosciuto rango costituzionale a partire dalla sentenza della Corte costituzionale sull’ignorantia legis. Ciò, tuttavia, non ha condotto ad una integrale ripulitura della nostra legislazione penale dalle scorie della responsabilità oggettiva, che tuttora sopravvive in alcune norme codicistiche.
1.1 Le norme in cui sopravvive la responsabilità oggettiva
La vigenza all’interno del nostro ordinamento del principio costituzionale di colpevolezza (art. 27, co. 1, in combinato disposto con l’art. 27, co. 3, e l’art. 25, co. 2, Cost.) può dirsi incontroversa almeno a partire dalla sentenza della Corte costituzionale del 1988 sull’ignorantia legis. Ciò che è invece controverso sono la portata e i contenuti di tale principio e, di conseguenza, la sua idoneità ad imporre il criterio della colpa al fine di correggere, almeno in via interpretativa, le norme codicistiche improntate alla logica della responsabilità oggettiva. In altre parole, si discute tuttora se, in forza del principio di colpevolezza, i giudici ordinari debbano procedere ad un’interpretazione costituzionalmente orientata di tali norme o in subordine, ove essa risulti impossibile, sollevare questione di incostituzionalità, in modo da espellere qualsiasi residuo di responsabilità oggettiva dal nostro ordinamento.
Ai fini della presente trattazione, incentrata su un’analisi della giurisprudenza di legittimità del 2012 e dell’ultimo scorcio del 2011, occorre, peraltro, precisare preliminarmente quanto segue in relazione alle norme ancora ispirate alla logica della responsabilità oggettiva:
a) a quanto ci è noto, gli artt. 82 e 117 c.p., nonché l’art. 18, co. 2, l. 22.5.1978, n. 194 non sono stati oggetto di alcuna recente applicazione giurisprudenziale che abbia coinvolto la problematica del criterio di imputazione della responsabilità;
b) i reati dolosi aggravati da un evento (necessariamente) non voluto sembrerebbero aver ricevuto, negli ultimi tempi, un’interpretazione conforme al principio di colpevolezza per effetto della qualificazione dell’evento aggravatore quale circostanza aggravante, con conseguente applicazione del limite della colpa, espressamente imposto dall’art. 59, co. 2, c.p.1;
c) una (possibile) lettura dell’art. 609 sexies c.p. (ignoranza dell’età della persona offesa nei delitti contro la libertà sessuale) nell’ottica della responsabilità oggettiva era già stata respinta dalla Corte costituzionale nel 2007 con la sentenza interpretativa di rigetto 24.7.2007, n. 322; ad ogni buon conto, nell’ottobre 2012 tale articolo è stato riformulato con l. 1.10.2012, n. 172 in termini conformi al principio di colpevolezza;
d) oggetto di un certo numero di pronunce di legittimità sono stati, invece, negli ultimi mesi, gli artt. 116, 584 e 586 c.p.: è a questi che sarà, pertanto, dedicata la successiva analisi.
1.2 Le indicazioni interpretative della Corte costituzionale
Prima, tuttavia, di procedere all’analisi delle più recenti sentenze sugli artt. 116, 584, 586 c.p., conviene richiamare alcuni passaggi della giurisprudenza costituzionale sul principio di colpevolezza, dai quali si potrebbero trarre feconde indicazioni per procedere ad un’interpretazione secundum Constitutionem delle norme in parola. Già de iure condito, infatti, la necessità della colpa per l’imputazione della responsabilità nelle ipotesi qui controverse si imporrebbe se solo si considerasse che:
a) la sentenza 24.3.1988, n. 364 – se pur afferma che «il primo comma dell’art. 27 Cost. non contiene un tassativo divieto di ‘responsabilità oggettiva’» – sottolinea fermamente la necessità di verificare «di volta in volta, a proposito delle diverse ipotesi criminose, quali sono gli elementi più significativi della fattispecie che non possono non essere ‘coperti’ almeno dalla colpa perché sia rispettata la parte del disposto di cui all’art. 27 primo comma Cost. relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto»: e nelle norme al nostro esame, il reato diverso da quello voluto (nell’art. 116 c.p.), la morte (nell’art. 584 c.p.), la morte o le lesioni (nell’art. 586 c.p.) non possono non essere ricompresi tra «gli elementi più significativi», essendo essi assai significativi sia rispetto all’offesa (in quanto incarnano l’offesa a beni giuridici penalmente protetti, anche di rango assai elevato, quali la vita e l’incolumità individuale), sia rispetto alla pena (in quanto determinano l’inflizione di una pena maggiore rispetto a quella prevista per il solo reato-base);
b) la sentenza 13.12.1988, n. 1085 – dopo aver affermato a chiare lettere che il principio del versari in re illicita «contrasta con l’art. 27 primo comma Cost.» – aggiunge che «affinché l’art. 27 primo comma Cost. sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovati»: e tra i predetti elementi sicuramente rientra, nelle norme al nostro esame, il reato diverso da quello voluto (nell’art. 116 c.p.), la morte (nell’art. 584 c.p.), la morte o le lesioni (nell’art. 586 c.p.) in quanto essi contrassegnano incisivamente il disvalore delle relative fattispecie;
c) infine, la sentenza 24.7.2007, n. 322 – dopo aver ribadito il rango «fondamentale» del principio di colpevolezza e le sue funzioni «garantistica» e «fondante» – statuisce in termini inequivocabili che il principio di colpevolezza «si pone non soltanto quale vincolo per il legislatore, nella conformazione degli istituti penalistici e delle singole norme incriminatrici; ma anche come canone ermeneutico per il giudice, nella lettura e nell’applicazione delle disposizioni vigenti».
1.3 Le Sezioni Unite del 2009 sull’art. 586 c.p.
Il percorso interpretativo indicato dalla Corte costituzionale è stato seguito, con decisa coerenza, dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza 29.5.2009, n. 22676, imp. Ronci (nel prosieguo: la “sentenza Ronci”). Tale pronuncia interviene per dirimere un contrasto di giurisprudenza tra sezioni semplici in relazione ai requisiti di applicazione dell’art. 586 c.p. nella specifica ipotesi della morte dell’assuntore di sostanze stupefacenti illecitamente cedutegli. La rilevanza delle affermazioni ivi contenute e la profondità delle valutazioni espresse travalicano, tuttavia, i confini di tale singola ipotesi, sicché potrebbero riverberarsi anche sulle altre norme sopra menzionate, in cui si profila la spinosa questione della “rivalità” tra responsabilità oggettiva e colpa nel contendersi il ruolo di criterio di imputazione della conseguenza ulteriore non voluta di un reato-base.
Nella “sentenza Ronci” si afferma, infatti, che «è il rispetto del principio di colpevolezza e della sua portata liberalgarantistica … ad imporre che la fattispecie di cui all’art. 586 debba essere connotata dal requisito della colpa in concreto. Al fine di individuare la soluzione preferibile, non può ovviamente prescindersi dal principio di colpevolezza e dalle sentenze della Corte costituzionale che gli hanno esplicitamente riconosciuto rango costituzionale». Ne consegue che «l’unica interpretazione conforme al principio costituzionale di colpevolezza è quella che richiede, anche nella fattispecie dell’art. 586, una responsabilità per colpa in concreto». Se non si dovesse accogliere una siffatta interpretazione secundum Constitutionem, non vi sarebbe altra alternativa praticabile – conclude inappellabilmente la “sentenza Ronci” – che «sollevare questione di legittimità costituzionale dell’istituto per contrasto con il principio di colpevolezza».
La giurisprudenza di legittimità del 2012 e dell’ultimo scorcio del 2011 ha pienamente recepito le indicazioni provenienti dalla Corte costituzionale solo in relazione all’art. 586 c.p., mentre ancora forti resistenze incontra la colpa nelle fattispecie di cui agli artt. 116 e 584 c.p.
2.1 La definitiva penetrazione della colpa nell’art. 586 c.p.
La soluzione della “colpa in concreto”, accolta dalla “sentenza Ronci”, è stata appieno confermata anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità relativa all’art. 586 c.p. (Cass. pen., 19.1.2010, n. 2373; Cass. pen., 20.5.2010, n. 19090; Cass. pen., 7.7.2010, n. 25973; Cass. pen., 5.5.2011, n. 17394; Cass. pen., 4.7.2011, n. 26072; Cass. pen., 22.11.2011, n. 43006, tutte concernenti la morte del cessionario di stupefacenti quale conseguenza non voluta del delitto di spaccio).
All’interno di tali sentenze possiamo in effetti rinvenire una seria e argomentata motivazione in ordine alla sussistenza, o all’assenza, della colpa, da cui viene fatta dipendere l’applicabilità dell’art. 586. Si consideri, ad es., Cass. pen. n. 43006/2011, ove la colpa del cedente (un minorenne, anch’egli consumatore di droga) per la morte del cessionario (un coetaneo tossicodipendente) viene rinvenuta nei seguenti, specifici elementi: «1) il C. [imputato] aveva ammesso di aver acquistato la droga, poi ceduta al R. [vittima], da un fornitore nuovo, dal quale non aveva mai acquistato in precedenza, e, dunque, la non conoscenza della fonte di approvvigionamento – con conseguente possibilità di una fornitura suscettibile di riservare sorprese – avrebbe dovuto indurre il C. ad accertarsi della qualità della droga prima di cederla: ed in ciò appariva ravvisabile già la violazione della prima regola di prudenza; 2) altra regola di prudenza aveva violato il C. nel consegnare al R., che sapeva essere in ansiosa attesa della fornitura, quel quantitativo non minimo di stupefacente, tanto più che conosceva le abitudini del R. il quale era solito consumare tutta la fornitura nello stesso giorno o comunque a breve; 3) le indicazioni probatorie erano nel senso che la mescolanza di stupefacente – eroina adulterata con cocaina o eroina e cocaina – era riconducibile ad un’unica fornitura proveniente dal C.; 4) conclusivamente: il C. era nella condizione – qualora avesse prestato la debita attenzione alla situazione dell’amico R. – di rappresentarsi anticipatamente l’evento e di evitarlo».
Che la Cassazione faccia “sul serio” quando richiede la colpa ai fini dell’applicazione dell’art. 586, lo possiamo riscontrare anche in quelle pronunce che si risolvono nell’annullamento della sentenza di condanna impugnata con rinvio ad altro giudice affinché questi verifichi davvero se colpa c’è stata. Così procede, ad es., Cass. pen., n. 17394/2011: «pur avendo la sentenza impugnata fatto puntuale richiamo ai criteri recentemente elaborati dalle SS.UU. di questa Corte in tema di responsabilità del cedente per la morte dell’assuntore acquirente quale evento non voluto …, la decisione si caratterizza per alcune incongruità di tipo logico, non ultima delle quali una sostanziale applicazione del principio della cd. ‘causalità materiale’ basata sulla responsabilità di tipo oggettivo: nessun particolare approfondimento viene infatti dedicato ad alcuni fattori come la contemporanea assunzione di alcool da parte della vittima, dandosi, poi, per scontata la preventiva conoscenza da parte della M. [imputato] della situazione di intolleranza agli oppiacei da parte del L. [vittima] oltretutto affermata sulla base di dati di equivoca lettura …. Né vale a colmare tali lacune l’esclusione, peraltro apoditticamente affermata dalla Corte d’appello, di una concomitanza di fattori eccezionali ed imprevedibili: tanto più che la stessa Corte ha richiamato i risultati della consulenza medico-legale disposta dal P.M. in ordine alle cause che avevano determinato la morte del tossicodipendente, in cui si parla di un’azione combinata di droga ed alcool unita ad ingestione di sabbia: il che si pone come intima contraddizione di tipo logico. Tenuto conto della necessità di verificare in concreto la colpa dell’agente e di accertare l’intervento di altri fattori causali che possano aver interrotto per la loro imprevedibilità il necessario nesso causale … si impone quindi sul punto l’annullamento con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello».
2.2 L’incerta penetrazione della colpa nell’art. 116 c.p.
L’elezione della colpa quale criterio di imputazione colpevole della responsabilità per il «reato diverso da quello voluto» ha conosciuto, invece, esiti altalenanti nella più recente giurisprudenza di legittimità relativa all’art. 116 c.p.
Sopravvive ancora, infatti, un consistente orientamento giurisprudenziale che, scartata la colpa, ritiene sufficiente che il «reato diverso» sia anche solo in astratto prevedibile: basterebbe, in altre parole, che da un accostamento a priori della fattispecie astratta del «reato voluto» alla fattispecie astratta del «reato diverso», risulti possibile prevedere che dalla commissione del primo si possa “scivolare” nel secondo.
Ci si accontenta, pertanto, che il «reato diverso» costituisca «il logico sviluppo di quello concordato, sì da restare escluso solo qualora il diverso e più grave reato commesso dal concorrente consista in un evento atipico, del tutto eccezionale ed imprevedibile» (Cass. pen., 5.1.2011, n. 200), o – detto con formula nella sostanza equivalente – «la possibile conseguenza della condotta concordata, secondo regole di ordinaria coerenza dello svolgersi dei fatti umani, non spezzata da fattori accidentali e imprevedibili» (Cass. pen., 23.9.2011, n. 34536 e Cass. pen., 30.12.2011, n. 48726; in termini simili anche Cass. pen., 1.2.2012, n. 4330, ove, in base a tale regola di giudizio, il “palo” di un programmato furto, degenerato in rapina impropria, viene ritenuto responsabile ex art. 116 del tentato omicidio commesso da uno dei correi ai danni di un agente di P.S. prontamente intervenuto, «trattandosi [il tentato omicidio] di evento non imprevedibile né del tutto svincolato dal delitto di rapina, che determina pur sempre un grave pericolo per la vita del rapinato, portato, per impulso naturale, a resistere alla violenza e minaccia e a sperimentare qualsiasi mezzo per sottrarsi ad essa, sicché l’omicidio o il tentato omicidio deve ritenersi legato alla rapina da un rapporto di regolarità causale e può considerarsi un evento che rientra, secondo l’id quod plerumque accidit, nell’ordinario sviluppo della condotta delittuosa»).
Questo orientamento non può essere condiviso perché non garantisce il superamento della responsabilità oggettiva2. L’accertamento della prevedibilità in astratto, infatti, è a ben vedere affidato ad un mero accostamento, compiuto “a tavolino”, dei due modelli legali di reato – quello del «reato voluto» e quello del «reato diverso» –, senza bisogno di tener conto delle concrete modalità di realizzazione del fatto (ad es., poiché di regola “la” rapina può degenerare in omicidio, poco importa che nel caso concreto “quella” rapina non lasciasse prevedere un esito mortale: se Tizio consegna a Caio una pistola-giocattolo per il compimento di una rapina e Caio, inopinatamente, la sostituisce con un’arma vera, uccidendo la vittima, Tizio risponderà di concorso in omicidio doloso, anche se il «reato diverso» non era da lui in alcun modo prevedibile)3.
Eludono parimenti l’esigenza di un’imputazione realmente colpevole del «reato diverso» anche quelle sentenze in cui, pur affermandosi che l’art. 116 «non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva …, ma di responsabilità a titolo di dolo rispetto alla condotta del reato-base voluto e meno grave e a titolo di colpa rispetto all’evento non voluto diverso e più grave», tale colpa viene rinvenuta «nella violazione delle regole di prudenza, per essersi il compartecipe imprudentemente affidato per l’esecuzione di condotta criminosa al comportamento di altro soggetto che sfugge al suo controllo finalistico» (così da ultimo Cass. pen., 23.3.2012, n. 11442).
Tale affermazione comporta inevitabilmente, infatti, una presunzione assoluta di colpa, in quanto in tutte le ipotesi di realizzazione concorsuale si verificherebbe automaticamente la violazione della suddetta regola prudenziale: in pratica, il concorrente anomalo – il quale per definizione si affida ad altri per l’esecuzione di una condotta criminosa – risponderebbe sempre e immancabilmente per colpa del «reato diverso».
Vanno, invece, salutate con favore quelle sentenze che subordinano l’applicazione dell’art. 116 ad un accertamento della prevedibilità in concreto del «reato diverso», dando il giusto rilievo alla sua «concreta rappresentabilità» (Cass. pen., 15.5.2012, n. 18383), alla «personalità dell’imputato e alle circostanze ambientali nelle quali si è svolta l’azione» (Cass. pen., 16.2.2012, n. 6214), e comunque alle «circostanze del caso» (Cass. pen., 21.12.2011, n. 47652, secondo cui l’imputato – ideatore e poi, in fase esecutiva, palo della programmata rapina – poteva prevedere la morte della vittima, un anziano inerme a lui noto che fu fatto oggetto di una feroce aggressione con una sbarra di ferro, fornita proprio dall’imputato, da parte degli altri tre correi: un minorenne e altri due giovani plurirecidivi, uno dei quali già riconosciuto con precedente sentenza infermo di mente).
Un «modello di imputazione colposa» è, infine, espressamente ed encomiabilmente adottato da Cass. pen., 23.1.2012, n. 2652, secondo cui la «rappresentabilità [del reato diverso]» è «da valutarsi in relazione alle circostanze ed ad ogni altro profilo del fatto concreto». Il caso giudicato riguardava una rapina a mano armata realizzata, previa accurata programmazione, da una banda di criminali, che avevano fermato in autostrada un’autoblindo con un ingente quantitativo di denaro contante; la rapina era sfociata nell’uccisione dolosa, da parte di uno degli esecutori, di una delle due guardie giurate a bordo. Nel valutare se il concorrente anomalo – che, pur senza aver partecipato all’esecuzione della rapina, aveva fornito un contributo fondamentale alla sua pianificazione, essendo egli proprio il caposervizio delle due guardie assalite – dovesse rispondere ex art. 116 di omicidio, la Corte individua a suo carico un «atteggiamento negligente» rispetto alla morte, giacché egli «non poteva affatto escludere con certezza e non contemplare neppure il rischio che la criminale rapina a mano armata contro un’autoblindo con a bordo guardie giurate, anch’esse armate, non potesse in nessun modo degenerare nell’utilizzo delle armi medesime: le guardie giurate avevano il compito di difendere il carico loro affidato e se stessi, avevano il dovere, se necessario, di sventare la rapina anche con l’utilizzo delle armi, al cui uso lo stesso imputato aveva in passato invitato i dipendenti della società di vigilanza destinati al trasporto di valori».
2.3 La chiusura ermetica alla colpa nell’art. 584 c.p.
Dove la colpa – e con essa il principio di colpevolezza – sembra non aver fatto minimamente breccia nella giurisprudenza di legittimità più recente, è invece nell’art. 584 c.p.: qui, nonostante i vari imbellettamenti verbali utilizzati, la responsabilità viene tuttora imputata su base meramente causale.
Vero è che anche negli anni passati la giurisprudenza si era mostrata quanto mai fredda circa la necessità di effettuare una seria e motivata indagine sulla colpa rispetto all’evento morte ai fini dell’applicazione dell’art. 584 c.p.4. Né deve trarre in inganno quel gruppetto di sentenze (da ultimo, Cass. pen., 10.11.2006, n. 37385) nelle quali, nel delineare la differenza tra omicidio doloso ed omicidio preterintenzionale, è stato affermato che quest’ultimo configura un’ipotesi di dolo misto a colpa: tale affermazione, infatti, pur in sé pregevole, è rimasta solo sulla carta, in quanto nei relativi casi di specie si è ritenuto il dolo rispetto alla morte, con conseguente applicazione dell’art. 575 c.p. e venir meno di qualsivoglia necessità di un accertamento della colpa.
Questa freddezza è, tuttavia, divenuta gelo assoluto nelle sentenze di legittimità del 2012 e dell’ultimo scorcio del 2011: la Cassazione sembra aver sbarrato la porta (e buttato via la chiave) all’ingresso della colpa nella fattispecie di omicidio preterintenzionale.
Nella più recente di tali sentenze (Cass. pen., 17.9.2012, n. 35582) – che è anche la più estrema nell’ostracizzare la colpa – si afferma, riprendendo argomenti già emersi in ordine sparso nelle sentenze più sotto citate, che «non può essere condivisa l’opinione … che configura la preterintenzione come dolo misto a colpa. Da tempo, ormai, tale impostazione è stata abbandonata, sul rilievo, da un lato, che il legislatore, nell’art. 584, non esige affatto che l’evento più grave sia dovuto a negligenza, imperizia o imprudenza (atteso che la norma in questione prevede semplicemente che, con atti diretti a percuotere o ledere un soggetto, se ne causi la morte), dall’altro, che sarebbe paradossale pretendere cautela (quanto alle conseguenze) da parte di chi, comunque, mette in atto un’aggressione fisica nei confronti di un terzo».
«La concezione che vede nell’omicidio preterintenzionale una condotta sostenuta da dolo misto a colpa» – prosegue Cass. pen. n. 35582/2012 – «porterebbe a conseguenze irragionevoli, anche sul piano sanzionatorio. Per la sussistenza della colpa, infatti, è necessaria la prevedibilità dell’evento, elemento che il legislatore non esige per l’omicidio preterintenzionale, ma, mentre il reato ex art. 584 è punito con la reclusione da 10 a 18 anni, l’omicidio colposo – nel quale, si ripete, l’evento deve essere quantomeno prevedibile – è punito molto meno gravemente: da 6 mesi a 5 anni …. Considerazioni, dunque, di ordine letterale e logico impongono di abbandonare definitivamente la concezione che vuole l’elemento psicologico dell’omicidio preterintenzionale come caratterizzato da dolo misto a colpa».
«Quanto alla ricordata sentenza della Corte cost. (364/88, ma anche 152/84), essa sostiene» – osserva ancora Cass. pen. n. 5582/2012 – «che il comma 1 dell’art. 27 della Carta fondamentale non contiene un tassativo divieto di responsabilità oggettiva, dal momento che esso si limita a postulare la colpevolezza dell’agente in ordine agli elementi più significativi della fattispecie. Detti elementi vanno individuati di volta in volta. Insomma, responsabilità oggettiva è concetto ben distinto da quello di responsabilità per fatto di terzi. Orbene, poiché il delitto è preterintenzionale ‘quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dal soggetto’ (art. 43), deve necessariamente giungersi alla conclusione che esso è caratterizzato dal verificarsi di un evento che, benché non sia perseguito dall’agente, è comunque conseguenza della sua condotta e, per questo, ne aggrava il trattamento sanzionatorio. In altre parole, l’agente risponde per fatto proprio, sia pure per un evento più grave di quello effettivamente voluto».
Infine, come ultimo argomento di chiusura verso la colpa, Cass. pen. n. 35582/2012 sostiene che «per approntare una completa tutela contro l’aggressione volontaria al bene dell’integrità fisica, il legislatore, accanto alle lesioni lievi, gravi, gravissime, ha voluto prevedere, da un lato, l’ipotesi in cui dalle lesioni (o percosse), dolosamente inferte, sia derivata la morte (non voluta) della vittima (art. 584), dall’altro, quella in cui la morte sia stata conseguenza, parimenti non voluta, di altro delitto doloso, diverso dalle lesioni o percosse (art. 586). A proposito di tale ultima figura criminosa, è certamente vero che le S.U. di questa Corte (cfr. sentenza n. 22676/2009, ric. Ronci) hanno chiarito che, perché possa essere posta a carico dell’agente la responsabilità per la morte della vittima quale conseguenza di delitto doloso commesso dall’imputato, è necessario che a costui possa essere addebitato, oltre al nesso di causalità materiale, anche la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale, con prevedibilità ed evitabilità dell’evento stesso, da valutarsi alla stregua dell’agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, conosciute o conoscibili dall’agente reale. E tuttavia la differenza tra l’omicidio preterintenzionale e la morte quale conseguenza di altro delitto è evidente ed è riconosciuta dalla giurisprudenza. Nel secondo caso, il delitto dal quale deriva poi la morte della vittima, evidentemente, non è costituito né da quello previsto dall’art. 581, né da quello previsto dall’art. 582; deve – in altre parole – trattarsi di diverso delitto doloso (ad es. cessione di sostanza stupefacente). L’omicidio preterintenzionale – viceversa – costituisce ipotesi a sé, in cui tra la condotta di lesioni o percosse e la morte della persona aggredita sussiste una stretta relazione, non solo eziologica, ma anche funzionale, nell’ottica della progressione criminosa. Il legislatore ha voluto che la violazione del principio del neminem laedere si estendesse fino a coprire gli eventuali sviluppi che l’aggressione alla sfera fisica della vittima possa aver cagionato. Ciò in quanto la lesione dell’integrità fisica altrui può comunque avere, nella prospettiva, appunto, della progressione criminosa e causale, uno sviluppo che porti addirittura alla morte della persona aggredita. In altre parole, è lo stesso legislatore che indica come prevedibile la morte della vittima, quando verso la stessa si sia indirizzata l’attività di aggressione fisica da parte dell’agente … Vale a dire, in sintesi e conclusivamente, che la difesa dell’integrità fisica umana è talmente avanzata, per scelta del legislatore, che, data anche la astratta prevedibilità dell’evento più grave, si risponde della morte altrui (anche se non voluta), quando si siano poste in essere quelle condotte aggressive dalle quali l’evento più grave può essere causato, e di fatto, non raramente, è causato. L’agente che tiene una condotta aggressiva deve accettare, per scelta del legislatore, il rischio dell’evento letale della vittima, con tutte le conseguenze del caso».
Da questa lunga citazione di Cass. pen. n. 35582/2012 emerge, a ben vedere, che almeno alcuni degli argomenti utilizzati per sbarrare l’accesso alla colpa nella fattispecie di omicidio preterintenzionale risultano in realtà facilmente confutabili o del tutto anacronistici.
In primo luogo, infatti, pare quasi ingenuo l’appiattimento interpretativo più totale, qui mostrato dai giudici di legittimità, sulla mera lettera della legge: la Cassazione pare volerci dire che poiché l’art. 584 non parla di colpa, ma solo di causalità, nulla più che il solo rapporto causale dovrà essere accertato, con buona pace di qualsivoglia ulteriore criterio di interpretazione che, nella specie, potrebbe invece essere legittimamente impiegato (dall’interpretazione sistematica, con riferimento all’art. 59, co. 2, c.p., all’art. 586 c.p. e ai vari delitti aggravati dall’evento, all’interpretazione costituzionalmente orientata, con riferimento, è ovvio, al principio di colpevolezza).
Ai limiti dell’irragionevolezza, poi, risulta l’argomento basato sul confronto delle cornici edittali dell’omicidio colposo e di quello preterintenzionale. Alla Cassazione sfugge, infatti, grossolanamente che l’omicidio preterintenzionale è punito molto più dell’omicidio colposo nonostante il primo richieda, quanto a criteri di imputazione della responsabilità, molto meno del secondo: l’art. 589 richiede la causalità più la colpa, l’omicidio preterintenzionale (almeno stando all’orientamento ivi sostenuto) solo la causalità. L’inserimento della colpa nella fattispecie di cui all’art. 584 c.p. potrebbe allora almeno in parte colmare (pur senza sanarla del tutto) l’iniqua distanza tra le due cornici edittali, anziché aggravarla.
Il terzo argomento – quello fondato sul richiamo alla giurisprudenza costituzionale – appalesa invece una (deliberata?) ignoranza da parte dei giudici della sentenza qui criticata rispetto alla ricca e ormai consolidata giurisprudenza costituzionale concernente il principio di colpevolezza, richiamata supra § 1.2.
Solo il quarto argomento – quello che fa leva sulla rilevanza dei beni giuridici protetti e sulla “progressione criminosa” che sussisterebbe tra la condotta di lesioni o percosse e la morte – risulta, invece, di maggior pregio, ma pare comunque superabile. Da un lato, infatti, come ricordato da C. cost. n. 322/2007, «il principio di colpevolezza non può essere ‘sacrificato’ dal legislatore ordinario in nome di una più efficace tutela penale di altri valori, ancorché essi pure di rango costituzionale». Dall’altro lato, l’asserita “progressione criminosa” non solo è autorevolmente contestata da una parte della dottrina5, ma è altresì difficilmente riscontrabile a livello fattuale perlomeno in alcuni casi concreti cui è stato invece applicato, sulla base dell’accertamento del solo nesso causale, l’art. 584 c.p. (si pensi alle ipotesi dello schiaffo o della spinta che cagionano la morte). In ogni caso, tale progressione criminosa, quand’anche esistente a livello fattuale, per dar luogo all’inflizione di una pena più grave dovrebbe trovare altresì riscontro nell’atteggiamento soggettivo dell’agente.
Nonostante la confutabilità degli argomenti a suo sostegno, la conclusione fatta propria da Cass. pen. n. 35582/2012 (assoluta irrilevanza della colpa nell’art. 584 c.p.) era già stata accolta in tutte le sentenze del periodo considerato di cui abbiamo notizia6, con l’“aggravante”, peraltro, che se rispetto al caso di specie giudicato da Cass. pen. n. 35582/2012 la condanna per omicidio preterintenzionale si profila come una sorta di alternativa pro reo rispetto all’originaria imputazione per omicidio doloso (ai danni della vittima era stato attuato, infatti, un vero e proprio “linciaggio” da parte di più persone, che avevano adoperato anche un grosso bastone, un casco da motociclista e un guanto cd. rinforzato), negli altri casi la vittima, pur presa a pugni, muore però di infarto dovuto alla grave anomalia cardiaca di cui è affetta, sconosciuta agli imputati (Cass. pen., 2.5.2011, n. 16846; Cass. pen., 10.1.2012, n. 219) o, pur essendo in buona salute e non avanti negli anni, muore per effetto di un unico schiaffo al volto, che ne provoca la perdita di equilibrio e la caduta al suolo con conseguenti lesioni cranio-encefaliche (Cass. pen., 30.12.2011, n. 48718). Ancor più stridente con il principio di colpevolezza risulta, pertanto, in questi ulteriori casi una condanna – pronunciata a prescindere da qualsiasi indagine in ordine all’atteggiamento soggettivo dell’agente – per un delitto punito con la reclusione da 10 a 18 anni!
A questo punto occorre chiedersi come mai l’introduzione della colpa in via interpretativa nell’art. 116 c.p. e, ancor più, nell’art. 584 c.p. incontri così tanta resistenza nella giurisprudenza di legittimità, pur trattandosi di una soluzione ormai a portata di mano (dopo la “sentenza Ronci”) se non addirittura ineludibile (dopo le sentenze della Corte costituzionale ricordate supra § 1.2).
Almeno tre, a nostro avviso, le ragioni di una tale resistenza7.
In primo luogo, la colpa non gode certo, tra i nostri giudici, dello stesso “fascino” su di essi esercitato, invece, dalla responsabilità oggettiva, “ammaliati” dalle sue seguenti “lusinghe”:
a) la responsabilità oggettiva, nelle ipotesi in esame, lascia almeno in parte sopravvivere una concezione primitiva della responsabilità penale basata sul mero nesso di causalità, concezione mai definitivamente sepolta, nella coscienza individuale e collettiva, proprio quando si tratta di delitti di sangue;
b) attraverso la responsabilità oggettiva si ottiene una notevole semplificazione probatoria: grazie ad essa, i giudici non devono avventurarsi sul terreno, talora assai impervio, delle valutazioni inerenti alla dimensione soggettiva dell’illecito, ma possono arrivare speditamente alla condanna (anche in termini di risarcibilità del danno in sede civilistica per la vittima o i suoi congiunti), limitandosi all’accertamento del solo nesso causale;
c) la responsabilità oggettiva vanterebbe – ma si tratta di un vanto indimostrato sul piano empirico e difficilmente suffragabile sul piano logico – una maggior efficacia generalpreventiva rispetto alla colpa, giacché la consapevolezza, da parte del potenziale autore di un reato doloso, che l’ordinamento gli addosserà tutte le conseguenze materialmente connesse alla sua azione illecita (volute, non volute e perfino casuali) potrebbe costituire un potente fattore capace di inibire la sua spinta criminosa.
In secondo luogo, l’introduzione della colpa deve fare i conti con una certa riluttanza, diffusa sia in dottrina che in giurisprudenza, ad ammettere la possibilità di muovere un rimprovero per colpa nei confronti dell’autore di un reato-base doloso, in quanto si nega, in generale, la configurabilità di una colpa in attività illecita: eppure, anche a prescindere da altre considerazioni, basterebbe il confronto con l’art. 59, co. 2, c.p., con l’art. 586 c.p. come interpretato nella “sentenza Ronci”, e con l’art. 81, co. 1, c.p. inteso quale conferma della possibilità che con una sola azione od omissione si realizzi un fatto doloso e un altro fatto colposo, per stemperare tale riluttanza.
Occorre, infine, considerare che un’eventuale introduzione, in via interpretativa, della colpa nel concorso anomalo e nell’omicidio preterintenzionale potrebbe soddisfare il principio di colpevolezza solo in relazione all’an della responsabilità (“nessuna pena senza colpevolezza”), non invece in relazione al quantum della responsabilità (“nessuna pena più grave senza colpevolezza più grave”), giacché la pena prevista dall’art. 116 c.p. è quella di un reato doloso (mentre al concorrente anomalo si potrebbe muovere solo un rimprovero per colpa) e quella prevista per l’omicidio preterintenzionale è decisamente superiore alla pena che risulterebbe dall’applicazione delle ordinarie regole del concorso formale dei reati di percosse o lesioni e di omicidio colposo. I nostri giudici di legittimità, quindi, sono probabilmente restii a subordinare l’applicazione di tali due norme all’accertamento della colpa anche perché tale operazione produrrebbe un effetto dirompente: squarcerebbe il velo, tanto esile quanto ipocrita, che copre l’irragionevolezza di pene così sproporzionate rispetto alla misura della colpevolezza dell’agente.
Immaginiamo, infatti, un giudice che interpreti l’art. 584 c.p. come già contenente il limite della colpa: un attimo dopo aver accertato nel caso di specie l’effettiva presenza della colpa rispetto all’evento morte, questo giudice avvertirebbe il gravissimo imbarazzo di dover infliggere una pena estremamente superiore alla misura della colpevolezza espressa dal fatto concreto. Il nostro giudice dovrebbe a questo punto sollevare questione di incostituzionalità dell’art. 584 c.p. per violazione del principio di colpevolezza quoad poenam. Ma l’eventuale declaratoria di incostituzionalità dell’art. 584, con conseguente libero operare delle ordinarie regole sul concorso formale di reati, potrebbe produrre conseguenze perverse: l’aumento delle condanne per omicidio doloso a dolo eventuale, in tutti quei casi concreti in cui la pena risultante dal concorso tra lesioni o percosse e omicidio colposo venisse percepita, dall’opinione pubblica o dallo stesso giudice, come troppo blanda. Un rimedio, quindi, peggiore dello stesso male che si vuole correggere8.
Effetti “a cascata” difficilmente pronosticabili potrebbero aversi anche in caso di declaratoria di incostituzionalità dell’art. 116 c.p. per violazione del principio di colpevolezza quoad poenam. Da un lato, infatti, la sua espulsione dal nostro ordinamento, con conseguente libero operare delle ordinarie regole sul concorso di persone nel reato, determinerebbe una drastica riduzione dell’area del “penalmente rilevante” rispetto alla situazione attuale: il concorrente anomalo che agisce per colpa non solo non risponderebbe per il «reato diverso» effettivamente commesso ogni qual volta questo reato sia punito solo a titolo di dolo (ad es., una rapina commessa al posto del furto da lui voluto), ma forse nemmeno nei casi in cui tale reato sia punito anche a titolo di colpa, attesa l’attuale controversa ammissibilità di un concorso colposo al delitto doloso altrui. Dall’altro lato, similmente a quanto appena rilevato a proposito dell’omicidio preterintenzionale, la scomparsa dell’art. 116 potrebbe comportare «il rischio di lasciare impuniti tutti i partecipi per il fatto certamente commesso da taluno di essi. Ciò avrebbe come conseguenza che i partecipi si coprirebbero a vicenda, asserendo ciascuno di ignorare chi sia stato l’autore del fatto più grave. Di riflesso e per reazione, il giudice potrebbe essere indotto a ritenere non attendibile la deposizione degli imputati e ritenerli tutti colpevoli del reato doloso in realtà commesso da uno di essi»9.
Il superamento almeno di questo terzo ostacolo richiederebbe, quindi, un calibrato intervento del legislatore che, pur rispettando appieno il principio di colpevolezza, prevenga inopportuni vuoti di tutela, pericolosamente colmabili in via giudiziale con condanne ancora più inique.
1 Per sostenere con certezza tale affermazione occorrerebbe un’ampia analisi della giurisprudenza relativa ai vari reati dolosi aggravati da un evento non voluto. Limitandoci, in questa sede, ad un solo (ma significativo) esempio – i maltrattamenti seguiti da morte (art. 572, co. 2, c.p.) – segnaliamo che la giurisprudenza più recente ha in effetti subordinato l’inflizione dell’aggravamento di pena ivi previsto ad un’indagine circa la colpa o, per lo meno, circa la “concreta prevedibilità” della morte: Cass. pen., 18.3.2008, n. 12129; Cass. pen., 19.11.2009, n. 44492; Cass. pen., 27.7.2010, n. 29631 (non ci risultano sentenze di legittimità più recenti concernenti il criterio di imputazione dell’evento morte).
2 Riferimenti in Basile, F., Commento all’art. 116, in Dolcini, E.-Marinucci, G., Codice penale commentato, III ed., Milano, 2011, 1626 ss. (air.unimi.it/handle/2434/177752).
3 Dolcini, E.-Marinucci, G., Corso di diritto penale, III ed., Milano, 2001, 470.
4 Riferimenti in Basile, F., Commento all’art. 584, in Dolcini, E.-Marinucci, G., Codice penale commentato, cit., 5367 ss. (air.unimi.it/handle/2434/177798).
5 Riferimenti in Basile, F., La colpa in attività illecita, Milano, 2005, 48 (air.unimi.it/handle/2434/10891).
6 Una timida apertura alla colpa può, invece, leggersi – peraltro, solo tra le righe – in una sentenza di poco precedente al periodo qui preso in esame: Cass. pen., 23.9.2010, n. 34521, in motivazione.
7 Per una più ampia argomentazione delle seguenti affermazioni v. Basile, F., L’alternativa tra responsabilità oggettiva e colpa in attività illecita, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2011, 936 ss. (air.unimi.it/handle/2434/176927).
8 Esiti meno dirompenti potrebbero forse prodursi se il giudice delle leggi si limitasse a rimuovere il limite minimo della pena edittale prevista dall’art. 584 c.p.
9 Pagliaro, A., La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto, Milano, 1966, 169.