principato
Il sostantivo ricorre quattro volte nell'opera di D. e in differenti accezioni. Nel senso di " stato di colui che primeggia in autorità, dignità, potere " (da princeps, " colui che tiene il primo posto ") il termine è introdotto in Cv IV IX 10 in ciascuna arte e in ciascuno mestiere li artefici e li discenti sono, ed esser deono, subietti al prencipe e al maestro di quelle... e fuori di quello la subiezione pere, però che pere lo principato. Si tratta della più frequente accezione di principatus nei classici, bene attestata anche nella Vulgata (los. 11, 10; Iudic. 5, 11; Ps. 138, 17); in volgare ricorre in testi dotti, dal Cavalca " la verginità è... principato di virtù ", Specchio dei peccati, Milano 1840, 280) al Boccaccio (Vita di D., a c. di D. Guerri, Bari 1918, 37; Esposizioni sopra la Comedia, a c. di G. Padoan, Milano 1965, 85, 90). In Cv II V 5 tre gerarchie (angeliche), quelle degli Angeli, degli Arcangeli e dei Troni, sono dette anche tre principati santi o vero divini; per la gerarchia espressamente chiamata Principati, v. sub voce.
Nell'accezione più ristretta e tecnica di p. politico la parola si collega all'assunzione del titolo di princeps da parte di Augusto, " qui cuncta... nomine principis sub imperium accepit " (Tacito Ann. I I 1); già Cicerone (Fin. III XVI 52) aveva distinto tra gl'innumerevoli altri il " regium principatum "; Plinio il Giovane (Pan. VII 1, XXXVI 4, ecc.) e Svetonio (Caligula XXII 1) usano ormai principatum per antonomasia senza aggettivo, con accentuata connotazione di " forma di governo di un solo ", che tuttavia si differenzia dalla monarchia assoluta e dalla tirannide; reiterati esempi offre anche la Vulgata (Prov. 29, 2; Ecli. 10, 1; Is. 9, 6). Con questo significato D. impiega il termine in Cv IV IV 4 conviene di necessitade tutta la terra... essere Monarchia, cioè uno solo principato e uno principe avere. Boccaccio, a proposito dell'Impero romano, parla di " eletto all'altezza del principato " (Esposizioni, p. 257). Un'altra accezione, assai più peregrina, è quella di Pg X 74 Quiv'era storïata l'alta gloria / del roman principato, cioè di Traiano, effigiato nel marmo in atto di rendere giustizia immediata alla vedovella, designandosi per metonimia la persona, il concreto, col termine astratto che ne esprime la dignità. Il trapasso semantico è il medesimo attuatosi in ‛ magistrato ', ‛ potentato ', ‛ podestà ' ‛ maestà ' , ‛ dignità ' , ‛ autorità ' (" le autorità ") ecc.; il Villani (XII 43) ha " maestrati ". Ciò nondimeno, l'uso di p. a significare " persona che ha titolo di principe " dovette sembrare ostico a lettori e copisti, tanto che un ramo della tradizione, rappresentato dal cod. Canoniciano e da varie edizioni dal secolo XVI sino al Foscolo, preferì superare la difficoltà sconciando il verso in del roman principe il cui gran valore (cfr. PETROCCHI, ad l.). L'accezione fatta propria da D. sembra in realtà un hapax, perché i due esempi del secolo XVI citati dai lessici appaiono di dubbia pertinenza. Infatti Donato Giannotti (Della repubblica fiorentina II 17, in Opere, a c. di F.L. Polidori, Firenze 1850, I 145) parla di " ambasciatori che riseggono nella città per li principati esterni ", lasciando incerto se alluda alle persone dei principi oppure ai paesi che essi reggono. Quanto a Claudio Tolomei, scrivendo nel 1543 al Caro (Lettere, Venezia 1547, 62v) avverte che " parlando a principi... è necessario usar parole e titoli, li quali figurino e rappresentino la degnità di quel principato ", dove sembra assai più verosimile il riferimento al titolo e grado piuttosto che alla persona del sovrano.