primitivo
Dal lat. primitivus «primo in ordine di tempo». In questa accezione il termine è usato in varie lingue europee per indicare la forma originaria o più antica di un’istituzione (per es., la Chiesa p., nel senso di Chiesa paleocristiana), oppure per descrivere una condizione attuale che ricorda la forma antica. In un’accezione analoga, il termine può essere applicato agli abitanti indigeni di un dato luogo, o ai progenitori di una popolazione. Con l’affermarsi della teoria evoluzionistica, l’aggettivo p. cominciò a essere impiegato, assieme al già consolidato selvaggio, per descrivere le prime popolazioni umane e le loro usanze, o per designare le società e le istituzioni contemporanee che si pensava fossero ferme a uno stadio primordiale di sviluppo. Il mutamento semantico che si verificò fu sottile ma significativo. Esso implicava l’idea che tutte le popolazioni e le società umane fossero partite da una condizione originaria comune, e che alcune di esse fossero rimaste p., ossia che non fossero progredite in misura significativa rispetto a tale punto di partenza comune. Già nel 17° sec. alcuni autori avevano sostenuto che i popoli «selvaggi» contemporanei rappresentavano lo stadio p. della società moderna, ma fu con l’Illuminismo che si affermò un’interpretazione della storia universale basata sull’idea di un inevitabile progresso dallo stato originario selvaggio alla barbarie alla più alta condizione umana, la civiltà. Da questi presupposti teorici si sviluppò l’antropologia evoluzionistica ottocentesca. Successivamente, spogliato da ogni connotazione valutativa in senso negativo, il termine p. è stato usato da vari antropologi per designare alcune caratteristiche delle società semplici, o preletterate. Lévy Bruhl, per es., negli anni Venti del Novecento avanzò l’idea di una «mentalità p.» qualitativamente differente da quella dei propoli cosiddetti progrediti o civili, caratterizzata da un pensiero prelogico e dominata dalla credenza in forze sovrannaturali. Questa tesi fu fortemente criticata da Malinowski e soprattutto da F. Boas, secondo il quale tutte le popolazioni esistenti hanno una struttura psichica simile: «Non esiste alcuna differenza sostanziale tra il modo di pensare dell’uomo p. e quello dell’uomo civilizzato», si legge nella prefazione all’ed. del 1938 di The mind of primitive man (trad. it. L’uomo primitivo). Le differenze nei sistemi di credenze e nelle usanze sarebbero frutto dell’invenzione individuale, sotto la pressione di fattori locali, o, più frequentemente, a seguito di contatti con altre popolazioni sfociati in una guerra o in un’assimilazione pacifica. Il termine p. continua a essere impiegato nello studio delle società umane in riferimento a gruppi o popolazioni ‘semplici’ dal punto di vista dell’organizzazione politica, economica e sociale e delle acquisizioni tecnologiche, ma le sue inevitabili associazioni con schemi evolutivi basati sull’idea di progresso e il riferimento sempre implicito a un giudizio di valore, a una gerarchia di ‘superiore’ e ‘inferiore’, hanno indotto a metterne in discussione in misura crescente la legittimità e l’utilità.