Previdenza sociale
La previdenza sociale è un aspetto - si può dire, il più importante - della sicurezza sociale, e ha per fine la tutela dei lavoratori e delle loro famiglie dai rischi di menomazione o perdita della capacità lavorativa per eventi quali la disoccupazione, la malattia, l'invalidità e la vecchiaia (v. Sicurezza sociale). L'ordinamento giuridico di ciascun paese individua i rischi protetti, gli enti preposti, le modalità di finanziamento del sistema e di erogazione delle prestazioni. In particolare, l'impianto e l'organizzazione della tutela sanitaria sono diversissimi da paese a paese, e per essi si rinvia alla voce specifica (v. Sanitarie, istituzioni). In un'accezione meno ampia, ma forse più diffusa, si intende per previdenza sociale (e in inglese per social security) la copertura delle esigenze economiche derivanti dall'invalidità e dalla vecchiaia; a tale accezione ci si atterrà nel seguito di questa voce.
La previdenza sociale - come oggi intesa e in particolare come fenomeno che abbraccia una larga parte, o addirittura la totalità, dei lavoratori - è fenomeno relativamente recente, che data dall'ultimo quarto del XIX secolo. La sua origine è usualmente ricondotta alla legislazione prussiana ispirata dal cancelliere Bismarck, e segnatamente alla legge del 1889 istitutiva dell'assicurazione per l'invalidità e la vecchiaia.In Gran Bretagna, un National Insurance Act è del 1911; una trentina d'anni più tardi, il Rapporto Beveridge (1942) esercita un'enorme influenza non soltanto in Gran Bretagna, ma, dopo il termine del conflitto, in tutto il mondo occidentale. Negli USA, il Social Security Act, preceduto nel 1934 da un messaggio di F.D. Roosevelt, è promulgato nel 1935.
Non è possibile, se non a prezzo di una minuta e diffusa esposizione storica, dare conto degli sviluppi della previdenza sociale nei diversi paesi. In Italia, nella seconda metà dell'Ottocento, soltanto i dipendenti pubblici godevano di una tutela previdenziale. Dopo numerosi progetti discussi ma non attuati, l'inizio del nuovo secolo vede la copertura per alcune delimitate categorie (dipendenti di aziende di trasporto, operai dei cantieri navali, personale dei servizi marittimi sovvenzionati). Il passo decisivo è compiuto, all'indomani del primo conflitto mondiale, con il decreto luogotenenziale che, nell'aprile del 1919, estende l'assicurazione per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti alla generalità dei lavoratori dipendenti privati. Tra il 1957 e il 1966 si introduce l'assicurazione obbligatoria anche per i lavoratori autonomi (coltivatori diretti, artigiani e commercianti).
Là dove non esistono regimi previdenziali obbligatori, il sostentamento degli anziani, degli invalidi e dei loro familiari superstiti è affidato a due possibilità, alternative o congiunte: a) il risparmio individuale (i lavoratori attivi accantonano una parte dei propri redditi per provvedere, con le somme così accumulate e con i relativi frutti, alle future necessità proprie e degli eventuali superstiti); b) la solidarietà familiare (gli adulti mantengono gli anziani e gli invalidi oltre che i giovani, i quali ultimi, a tempo debito, li manterranno a loro volta).
Se dunque l'intervento pubblico ha motivazioni fondate, esse debbono ritrovarsi nell'insoddisfacente o incompleto funzionamento di questi due modi di provvedere al sostentamento degli anziani (categoria nella quale d'ora innanzi ricomprenderemo, salvo diversa precisazione, anche gli invalidi e i superstiti).Il meccanismo del risparmio individuale può essere ostacolato da due fattori. Il primo è la miopia di quegli individui i quali, nell'età attiva, non sappiano prevedere correttamente le proprie necessità future, e perciò non risparmino in misura sufficiente. Il secondo è costituito, pur nell'ipotesi di un adeguato risparmio, dall'eventuale incapacità di impiegarlo in forme appropriate, che ne garantiscano la conservazione nel tempo e la massima redditività concessa, per impieghi a basso rischio, dalle condizioni di mercato.Il meccanismo della solidarietà familiare può incepparsi nei casi di persone senza figli, o con figli che premuoiano ai genitori, o troppo poveri per poterli assistere, o comunque poco disposti ad assolvere tale compito (che normalmente è imposto dalla legge, ma attraverso norme la cui applicazione giudiziale su vasta scala non avrebbe molta probabilità di raggiungere i risultati voluti). L'industrializzazione, l'urbanizzazione e il conseguente venir meno dei nuclei familiari agricolo-patriarcali hanno concorso all'allentamento dei legami di solidarietà familiare.L'introduzione dell'assicurazione obbligatoria - che comporta il pagamento di contributi durante la vita attiva in vista di una tutela durante la vecchiaia - è dunque suggerita dall'opinione che i meccanismi tradizionali (risparmio individuale e solidarietà familiare) non siano di per sé sufficienti, né basti integrarli con una rete di iniziative assistenziali. L'obbligo dell'assicurazione è concettualmente distinto dalla sua gestione a opera del potere pubblico. Si può cioè pensare che - analogamente, per esempio, a quanto avviene nel nostro paese per l'assicurazione della responsabilità civile derivante dalla circolazione degli autoveicoli - l'intervento legislativo si limiti a sancire il dovere (della generalità dei cittadini o di singole categorie) di provvedere alla precostituzione di una tutela pensionistica, lasciando libertà di scelta tra quelle fornite dal sistema assicurativo privato e quelle fornite direttamente dai datori di lavoro. Una così ampia facoltà di scelta non è frequente; è diffusa invece in molti paesi la coesistenza di tre livelli di assicurazione (trois piliers). Una stessa persona può infatti essere coperta da un regime previdenziale obbligatorio di base, affidato a un ente pubblico; da un regime previdenziale integrativo, gestito da enti pubblici o privati o dagli stessi datori di lavoro; e infine da un contratto di rendita vitalizia liberamente stipulato con un'impresa di assicurazione.
L'introduzione di un regime previdenziale obbligatorio e la definizione delle sue modalità di funzionamento implicano alcune scelte fondamentali che sono parzialmente interconnesse l'una con l'altra, ma che è bene individuare separatamente.
La scelta si pone tra capitalizzazione e ripartizione. La capitalizzazione consiste nell'accantonamento a riserva dei contributi, per trarre poi da questa riserva e dai suoi frutti le somme necessarie per l'erogazione delle prestazioni a mano a mano che i lavoratori, passando dalla condizione di attivi a quella di pensionati, ne maturino il diritto. In un regime di capitalizzazione pura si accumulano quindi riserve che a ogni istante corrispondono sia al montante dei contributi versati (ove già non utilizzati per i correlativi pagamenti), sia al valore attuale della quota già maturata delle future prestazioni.La ripartizione consiste invece nell'utilizzazione dei contributi riscossi in ciascun periodo per l'erogazione delle prestazioni dovute in quello stesso periodo.Nel caso della ripartizione, l'ente gestore del sistema previdenziale svolge essenzialmente una funzione di cassa (oltre che, beninteso, di accertamento degli obblighi di contribuzione e dei diritti alle prestazioni). Nel caso della capitalizzazione, l'ente gestore ha altresì, analogamente a una compagnia privata di assicurazione, compiti di impiego delle somme riscosse e destinate a riserva; le regole e i limiti di questi impieghi sono normalmente stabiliti da leggi o disposizioni amministrative.La scelta tra capitalizzazione e ripartizione non è una mera questione di tecnica finanziaria, ma assume grande rilievo sotto numerosi altri profili, come si vedrà in seguito. Sin d'ora, peraltro, giova osservare che, mentre in regime di capitalizzazione le riserve costituiscono la garanzia dell'adempimento delle future prestazioni, in regime di ripartizione questa garanzia è unicamente fornita dalla potestà di imporre anche in futuro il pagamento di contributi. Ne segue che, mentre un sistema a capitalizzazione può anche derivare da un accordo di diritto privato ed essere gestito da un ente del pari privato, un sistema a ripartizione implica un potere impositivo che soltanto il legislatore ha facoltà di attribuire, e che viene normalmente attribuito a un ente pubblico.
Per la pensione di vecchiaia può essere richiesto soltanto un requisito di età, o anche un requisito di anzianità contributiva. La definizione di invalidità pensionabile è in generale riferita alla perdita di una data percentuale della capacità di lavoro. Hanno di norma diritto alla pensione ai superstiti la vedova e i figli minori.Quanto alla misura delle prestazioni, le due alternative estreme possono individuarsi nella equivalenza attuariale fra i benefici promessi a ogni assicurato e i contributi da lui pagati, e all'opposto nella commisurazione delle prestazioni allo stato di bisogno, o comunque ai criteri fissati dal potere politico, con scarso riguardo (e, al limite, senza alcun riguardo) alla precedente storia contributiva.Una importante variante (che può avere effetti differenziali anche sensibili) dell'equivalenza attuariale è la commisurazione della pensione ai redditi dell'ultimo periodo lavorativo anteriore al pensionamento. Un'altra variante è la correzione dell'equivalenza attuariale con una formula più favorevole per i redditi bassi e meno favorevole per i redditi alti. Una importante variante della commisurazione al bisogno è l'erogazione di pensioni capitarie uguali per tutti.Si osservi che gli interventi fondati unicamente sullo stato di bisogno dei beneficiari rischiano di generare effetti di retroazione che rendono ancora più insoddisfacente il funzionamento dei meccanismi tradizionali: gli attivi possono essere indotti a ridurre il proprio risparmio, e i figli ad attenuare la propria solidarietà verso i genitori, sapendo che le conseguenze dell'uno e dell'altro comportamento saranno compensate, o almeno attenuate, dall'intervento pubblico.In periodi di instabilità monetaria assume grande importanza l'adeguamento, o indicizzazione, delle pensioni già liquidate. Questo adeguamento può avvenire per effetto di decisioni di volta in volta assunte dal legislatore, ma quando l'inflazione è duratura e intensa diviene più probabile l'adozione di meccanismi automatici che rivalutano periodicamente i trattamenti in essere in funzione di un indice dei prezzi.Taluni paesi prevedono l'adeguamento delle pensioni non soltanto all'andamento dei prezzi, ma altresì a quello dei redditi reali da lavoro, nel qual caso anche i pensionati beneficiano degli aumenti di produttività che si traducono in un migliore livello di vita per i lavoratori attivi.
Il finanziamento della spesa può essere affidato a contributi determinati in misura capitaria fissa oppure commisurati alle retribuzioni o al reddito da lavoro autonomo. Per i lavoratori dipendenti, i contributi possono essere posti formalmente a carico del lavoratore oppure del datore di lavoro. È peraltro opinione prevalente che l'onere effettivo si trasferisca in ogni caso sui lavoratori, ossia che, nella misura in cui i contributi vengono pagati dai datori di lavoro, le retribuzioni siano corrispondentemente più basse. Nel seguito di questa voce, con l'espressione 'contributi versati da un assicurato' si intenderà quindi l'insieme dei contributi formalmente a suo carico e di quelli formalmente a carico del suo datore di lavoro.Il finanziamento può altresì fare carico, attraverso imposte, alla fiscalità generale.La scelta tra contributi e imposte è ovviamente interconnessa con quella relativa ai criteri di determinazione delle prestazioni, e più precisamente alla scelta di fondo tra un sistema ispirato all'equivalenza attuariale e uno ispirato alla commisurazione dei trattamenti al bisogno del beneficiario. Nel secondo caso, non v'è ragione di finanziare spese di natura assistenziale con contributi prelevati su una parte soltanto (sia pure maggioritaria) della popolazione, ossia sui soli lavoratori: la fiscalità generale appare quindi la fonte più appropriata di finanziamento. Nel primo caso, invece, vi sono buone ragioni perché i soli lavoratori paghino, attraverso i contributi, quello che è sostanzialmente il premio di un'assicurazione che va a loro esclusivo beneficio.Tanto basti per offrire una introduzione alle possibili varianti normative dei sistemi pensionistici; è ora tempo di passare all'analisi dei loro principali effetti.
Il funzionamento del sistema si può esaminare sotto almeno due diversi profili. Il primo guarda al momento dell'introduzione del sistema, il secondo a ciò che avviene (o avverrebbe) quand'esso esista (o esistesse) immutato da numerosi decenni. In altre parole, si può guardare alla fase introduttiva o alla situazione di regime. Gli economisti hanno inoltre analizzato con particolare attenzione gli effetti del sistema sulla formazione del risparmio.
Si immagini che sino a ieri non sia esistito alcun sistema previdenziale, e che esso venga oggi introdotto col metodo della ripartizione, stabilendosi che tutti coloro i quali hanno già abbandonato la vita lavorativa godano del trattamento pensionistico, e che del pari abbiano a goderne, a mano a mano che raggiungeranno l'età prevista, gli attuali lavoratori.In tal modo, si opera un cospicuo trasferimento a favore: a) degli anziani, in quanto si offre loro una pensione senza previo pagamento di contributi; b) degli attivi, in quanto si offre loro una pensione proporzionata a un'intera vita lavorativa chiedendo loro il pagamento dei contributi soltanto per gli anni di attività residua, e non anche per quelli già trascorsi.Questo trasferimento è il frutto del sistema a ripartizione: non essendo necessario accantonare i contributi, essi sono subito disponibili per l'erogazione di pensioni anche a favore di chi non ne aveva mai pagati.
In realtà, i sistemi pensionistici non nascono in un istante, ma vengono progressivamente riformati e modificati, nelle fasi iniziali, in direzione del miglioramento delle prestazioni. Ogni volta che, elevando il livello della copertura previdenziale, aumenta i contributi e simultaneamente riconosce anche ai pensionati il nuovo livello delle prestazioni, il legislatore ripete la liberalità iniziale, favorendo sia i già pensionati, sia - in misura tanto maggiore quanto più vicini essi sono all'età pensionabile - i lavoratori in attività.Da tutto ciò segue che, a ben vedere, debito pubblico e previdenza sociale sono fenomeni strettamente analoghi. Ambedue derivano dalla decisione delle generazioni presenti di attribuire a se stesse diritti che faranno almeno in parte carico alle generazioni successive. Ambedue rappresentano promesse a favore delle generazioni presenti, e in particolare delle classi di età matura e anziana, a fronte delle quali promesse non sussiste alcuna forma di capitale reale, ma soltanto una scommessa sul futuro: sulla fiducia, cioè, che le generazioni avvenire riconosceranno e rispetteranno regole del gioco in precedenza e non da esse stabilite.
Si consideri ora un sistema che esista immutato da gran tempo, e nel quale tutti gli effetti propri della iniziale fase transitoria si siano esauriti. Questo sistema ha due proprietà importanti, sia dal punto di vista teorico, sia ai fini delle scelte concrete.La prima proprietà guarda al sistema nel suo complesso. Si indichi con a l'aliquota contributiva, ossia la percentuale della retribuzione obbligatoriamente versata al sistema previdenziale. Affinché il sistema sia in equilibrio finanziario (e quindi il gettito dei contributi copra le prestazioni complessive), deve essere soddisfatta in ogni periodo la relazionea = (p P) / (y L) dove p indica la pensione media e P il numero dei pensionati (e quindi il prodotto p P che sta a numeratore rappresenta il flusso complessivo delle prestazioni pensionistiche), y la retribuzione media e L il numero dei lavoratori (e quindi il prodotto y L che sta a denominatore rappresenta il monte retributivo). Da questa semplice proprietà discendono, come si vedrà più avanti, le spiegazioni della crisi finanziaria che ha investito molti sistemi a ripartizione.
La seconda proprietà guarda al confronto tra i contributi pagati da un lavoratore nel corso della sua attività lavorativa e la pensione attribuitagli. Nel mercato delle assicurazioni sulla vita, i premi pagati sono investiti e messi a frutto dalla compagnia assicuratrice, e la rendita vitalizia successivamente corrisposta rappresenta l'equivalente matematico-attuariale del montante dei premi computato a un determinato tasso di rendimento. Anche nella previdenza pubblica a ripartizione, benché non esistano riserve né quindi accumulazione di redditi, l'individuo può guardare ai contributi versati come all'equivalente di premi assicurativi a fronte dei quali gli verrà corrisposta la pensione, e calcolare il rendimento implicitamente goduto. Aaron (v., 1966) ha dimostrato che un sistema previdenziale a ripartizione giunto a regime è in grado di offrire, sui contributi pagati, un tasso annuo di rendimento implicito pari alla somma del tasso di aumento della popolazione (sia esso n) e del tasso di aumento delle retribuzioni medie (sia esso g).
La dimostrazione di questa seconda proprietà è intuitiva. In un sistema a ripartizione, il gettito contributivo di ogni anno viene immediatamente distribuito ai pensionati. A parità di aliquota, il gettito contributivo annuo aumenta nel tempo parallelamente alla massa retributiva, cioè per effetto dell'aumento sia del numero degli attivi (al tasso n), sia della loro retribuzione media (al tasso g). Ogni anno si distribuisce quindi ai pensionati una somma che, rispetto ai contributi da essi a loro tempo versati, è aumentata al tasso annuo n+g.Detto r il tasso di rendimento dei capitali impiegati nel mercato finanziario, il caso generale è r > n + g (ma sul punto si ritornerà sub 7b). Investendo il proprio risparmio previdenziale al tasso r, il lavoratore (o almeno, se vi sono trattamenti differenziati, il lavoratore medio) otterrebbe dunque un rendimento più alto. L'essere invece assoggettato a un regime a ripartizione rappresenta un onere, tanto maggiore quanto più alta è l'aliquota contributiva, ossia la frazione del reddito obbligatoriamente impiegata al tasso n+g.
Si può dimostrare che il valore attuale di quest'onere, per l'insieme di tutte le coorti future a partire da quella entrata nel regime previdenziale subito dopo la sua istituzione e sino alla fine dei tempi, è pari al trasferimento iniziale a favore delle coorti che hanno beneficiato dell'introduzione del sistema. Questa introduzione ha quindi favorito alcune generazioni a danno di altre, senza creare dal nulla alcun beneficio. Ma poiché le coorti beneficiarie già occupano la scena economica e politica e godono di vantaggi cospicui, mentre quelle che subiscono l'onere debbono ancora entrare nella vita lavorativa e anzi (salvo i giovanissimi già presenti) non sono nemmeno nate, questa differenza non può non avere effetti sulle pressioni in favore dei sistemi a ripartizione.
Come si è appena visto, la creazione e lo sviluppo di un sistema a ripartizione si traducono in un aumento del potere d'acquisto delle classi di età in tali momenti anziane o attive. Questo aumento si traduce, almeno in parte (ossia nella misura in cui non sia compensato da un aumento delle eredità e dei lasciti), in maggiori consumi di queste classi. A parità di prodotto nazionale complessivo, maggiori consumi significano minori risparmi e minore accumulazione di capitale. L'istituzione dei sistemi a ripartizione viene quindi spesso individuata come una causa di riduzione del tasso nazionale di risparmio (per gli Stati Uniti, v. Feldstein, 1995; per l'Italia, v. Rossi e Visco, 1995).
Intorno al 1980, i sistemi previdenziali del mondo occidentale erano prevalentemente fondati sulla ripartizione. Là dove essi si erano inizialmente ispirati alla capitalizzazione, il mutamento era stato imposto dai processi inflazionistici che, durante e dopo la seconda guerra mondiale, avevano eroso il valore reale delle riserve. Ma più frequentemente la ripartizione era stata scelta sin dall'inizio, grazie alla possibilità, ch'essa sola permette, di offrire agli anziani il beneficio di cui si è detto sub 4a.L'età normale di pensionamento (talora uguale per i due sessi, talaltra inferiore di 3-5 anni per le donne) variava tra i 60 e i 65 anni. Le aliquote contributive prelevavano, con una elevata variabilità tra paesi, dal 10 al 35 per cento della retribuzione. Al termine di una carriera senza interruzioni, il rapporto medio tra la pensione e la retribuzione dell'ultimo anno di lavoro si collocava tra il 50 e il 70 per cento nei sistemi più 'generosi' (in paesi quali Francia, Germania, Giappone, Italia, Svezia) e fra il 30 e il 50 per cento negli altri (in paesi quali Olanda, Regno Unito, Stati Uniti, Svizzera). La frazione del reddito nazionale trasferita, attraverso il sistema previdenziale, dagli attivi agli anziani scendeva raramente, sempre con riferimento ai paesi occidentali, sotto l'8 per cento, e sfiorava in alcuni casi (tra cui l'Italia) il 16 per cento (v. OECD, 1988, pp. 30, 50, 69, 88).
A questa situazione si era giunti attraverso un continuo aumento dei livelli di copertura, col quale parlamenti e governi avevano raccolto gratitudine e consensi. Come s'è già sottolineato, infatti, la creazione e lo sviluppo di un sistema a ripartizione offrono alle classi attive e anziane vantaggi la cui contropartita non soltanto grava sulle generazioni future, ma per di più non è agevolmente percepibile.
L'Italia rappresenta un caso particolarmente significativo di questi comportamenti e di queste illusioni. Tra il 1950 e il 1970, giungevano alla pensione le classi nate tra il 1890 e il 1910, che nel corso della loro vita avevano attraversato, per tacere dei mali minori, due guerre mondiali, una grande depressione e una lunga autarchia. Negli stessi anni l'Italia beneficiava, insieme con tutto il mondo occidentale, del più brillante periodo di espansione economica che la storia ricordi, caratterizzato da un tasso annuo medio di aumento dei redditi pro capite dell'ordine del 4-5 per cento.Era questo lo scenario ideale affinché il sistema a ripartizione potesse offrire alle classi anziane l'opportunità di partecipare ai ben più elevati redditi delle classi giovani. Mentre quote crescenti di persone in età lavorativa potevano avere gli elettrodomestici, l'automobile e le ferie fuori città, i loro genitori venivano dotati di un libretto di pensione che permetteva un tenore di vita non certamente agiato, ma accettabile. Grazie alla legislazione dei decenni precedenti, l'Italia si presentava così, attorno al 1980, come un paese nel quale la previdenza sociale offriva pensioni fra le più generose ed età di pensionamento fra le più basse. Caratteristica peculiare del nostro paese era infatti la possibilità di conseguire, al raggiungimento di un requisito anagrafico, la pensione 'di vecchiaia', o in alternativa, al compimento di una data anzianità di lavoro (variabile da settore a settore), la pensione detta appunto 'di anzianità'. In molti casi, questa seconda condizione veniva soddisfatta a poco più di cinquant'anni di età nell'impiego privato e ad anche meno di quaranta nell'impiego pubblico. In questo panorama di generale predominanza dei sistemi a ripartizione, pochi paesi (e fra questi Olanda, Regno Unito, Stati Uniti, Svizzera, tutti caratterizzati da un elevato reddito medio e da evoluti sistemi finanziari) avevano conservato una significativa componente previdenziale a capitalizzazione.
Quanto si è detto finora presuppone che il sistema sia finanziariamente in equilibrio, ossia che, in ogni periodo, sia soddisfatta la relazione già ricordata. Mediante un semplice passaggio algebrico, essa può riscriversi a = P/L p/y. Si ha dunque equilibrio finanziario quando l'aliquota contributiva applicata al reddito dei lavoratori attivi è pari al prodotto di due rapporti, quello fra il numero dei pensionati e il numero dei lavoratori e quello fra la pensione media e la retribuzione media.Si vede subito come la demografia influisca su questo risultato. Se la popolazione aumenta a un tasso elevato, le classi anziane sono molto meno numerose di quelle giovani, e il rapporto pensionati/lavoratori è basso. Se la popolazione è invece stazionaria, o addirittura in diminuzione, quel rapporto è alto. Un altro importante effetto delle variabili demografiche è legato all'aumento della vita media. Questo aumento, come è ovvio, incide - a parità di età pensionabile - sul rapporto pensionati/lavoratori, in quanto aumenta il numero dei primi rispetto ai secondi.Le vicende di molti sistemi previdenziali (tra cui in particolare, come si è già detto, il nostro) possono così sintetizzarsi. L'attuale struttura è stata sostanzialmente costruita negli anni cinquanta e sessanta, quando l'economia si sviluppava a ritmi sostenuti e la popolazione lavorativa aumentava. Ciò consentiva - a parlamenti che si curavano soltanto dell'immediato, senza domandarsi quali sarebbero stati gli effetti di lungo periodo della loro produzione legislativa - di determinare l'età di pensionamento e le modalità di calcolo delle pensioni con regole generose. Dall'inizio degli anni settanta, i tassi di sviluppo della produttività (e quindi delle retribuzioni) e della popolazione lavorativa si sono sensibilmente ridotti, mentre la maturazione del sistema e l'entrata a regime delle nuove regole conducevano alla liquidazione di trattamenti pensionistici sempre più elevati. Per conseguenza, all'aumento del primo rapporto si accompagnava - questa volta non più per ragioni demografiche, ma per i meccanismi creati dal legislatore - l'aumento del secondo; le previsioni lasciavano intravvedere per il futuro ulteriori aumenti dei due rapporti.
Si tratta, come ognun vede, di fenomeni di lungo periodo, che passano attraverso fasi di transizione e di incubazione della durata di più decenni, e che proiezioni e analisi di sufficiente ampiezza e lungimiranza sarebbero in grado di prefigurare con largo anticipo. Tuttavia, forse perché le crisi sotterranee e latenti sono meno facilmente avvertibili di quelle che esplodono in pochi giorni, quando non in poche ore, molti paesi sembrano essersi lasciati cogliere di sorpresa dall'intensità degli squilibri. Si è così giunti a un punto in cui si sarebbero dovuti deliberare continui aumenti dell'aliquota oppure rivedere in peius le promesse del sistema (in termini di età di pensionamento e/o di formula di liquidazione della pensione). La crisi dei sistemi previdenziali nasce, in sostanza, dalla lacerante necessità di scegliere fra queste due alternative.
Posti di fronte a questa necessità, il parlamento e l'opinione pubblica di molti paesi sono stati indotti a esaminare più da vicino il sistema previdenziale, mettendone così a fuoco altri due aspetti negativi, in precedenza ignorati o trascurati, attinenti l'uno alla redistribuzione dei redditi, l'altro all'offerta di lavoro.
Quanto al primo aspetto, si osservi che raramente (un'importante eccezione, come si vedrà, è la riforma italiana del 1995) le prestazioni spettanti a ogni singolo individuo vengono definite come montante (al tasso n+g, o a quel maggiore tasso pro tempore consentito dalla fase transitoria) dei contributi da lui versati.
Tra le possibili regole e formule che, nella nostra come in altre legislazioni, hanno sino ad oggi determinato l'importo della pensione, si possono ricordare tra le altre quelle per effetto delle quali: a) la pensione è calcolata in funzione dell'ultima retribuzione (o di una media delle ultime retribuzioni); b) la pensione è determinata in base alla storia dei redditi passati, ma non anche in base alla vita attesa al momento del pensionamento; c) la formula che collega la pensione alla storia dei redditi è tanto meno favorevole quanto più elevati sono questi redditi.Soltanto le regole del terzo tipo rispondono a corretti criteri di equità distributiva, perché trattano i percettori di redditi bassi meglio dei percettori di redditi elevati. Il primo tipo di regole favorisce le carriere lavorative più dinamiche (si è pagato inizialmente su retribuzioni basse, ma la pensione è commisurata alle retribuzioni finali alte) offrendo loro un rendimento implicito particolarmente elevato, che di norma va a beneficio di persone collocate - grazie appunto alla loro storia retributiva - nella fascia alta della distribuzione dei redditi. Le regole del secondo tipo favoriscono, anche in questo caso con un rendimento implicito più elevato, i pensionamenti in età inferiore alla media, che sono più spesso goduti da chi appartiene a famiglie di reddito medio-alto oppure da chi intende, grazie all'esperienza precedente, passare ad altre attività (per una più diffusa analisi dei meccanismi redistributivi insiti nel sistema previdenziale italiano, v. Castellino, 1996).
Le ricadute della previdenza sociale sulla distribuzione del reddito sono quindi state spesso ben diverse da quelle inizialmente ipotizzate e previste, concorrendo, a mano a mano che se ne è diffusa la consapevolezza, alla crescente insoddisfazione verso il sistema.L'altro aspetto negativo ha a che fare con l'offerta di lavoro, e più precisamente con la scelta dell'età alla quale si termina l'attività lavorativa.
Questa scelta è innanzitutto influenzata dal limite minimo di età al quale è prevista l'erogazione della pensione, limite che, paradossalmente, molti paesi abbassavano proprio mentre la vita media aumentava. La scelta è inoltre influenzata dall'aumento che la misura della pensione subisce per ogni anno di prosecuzione dell'attività oltre il limite minimo: in molte legislazioni, questo aumento è del tutto insufficiente a compensare il maggiore onere contributivo e la perdita di un'annualità di pensione connessi con la prosecuzione. I sistemi previdenziali si sono quindi tradotti, probabilmente al di là delle intenzioni di chi li disegnava, in una potente causa di riduzione della partecipazione delle classi anziane alle forze di lavoro (v. Gruber e Wise, 1999), operando congiuntamente con l'evoluzione demografica nel causare l'aumento del rapporto tra il numero dei pensionati e quello degli attivi.
A partire dagli anni ottanta, per le ragioni testé esposte, i sistemi previdenziali di molti paesi sono stati riesaminati accuratamente sotto il triplice profilo degli equilibri finanziari, degli aspetti redistributivi e degli effetti sull'offerta di lavoro. Questo ripensamento si è talora tradotto in un processo di revisione e di riforma del sistema, talaltra è stato ostacolato e almeno temporaneamente bloccato dalla forza degli interessi che ne sarebbero stati colpiti. A loro volta, le riforme attuate o semplicemente discusse possono distinguersi secondo ch'esse si mantengano fedeli al regime della ripartizione, o implichino il passaggio, almeno parziale, alla capitalizzazione.
La crisi dei sistemi previdenziali ha costretto, nell'impossibilità di ricorrere ad aliquote contributive sempre più elevate, a disciplinare con regole meno generose l'acquisizione del diritto alla pensione o la determinazione del suo importo.Anche sotto questo profilo, l'Italia rappresenta un caso emblematico. La riforma approvata nel 1992 su proposta del governo Amato ha elevato l'età di pensionamento, innalzato i requisiti per la pensione di anzianità dei dipendenti pubblici, corretto verso il basso la formula di calcolo dell'importo iniziale della pensione, attenuato i meccanismi di indicizzazione.
È tuttavia presto apparso chiaro che, anche dopo queste revisioni, non si sarebbe giunti all'equilibrio finanziario. Con la successiva riforma (governo Dini, 1995), il sistema è stato ridisegnato ab imis fundamentis. Secondo le nuove regole, in particolare, l'importo della pensione, a parità di storia contributiva passata, è tanto più basso quanto minore è l'età al pensionamento, e quindi quanto maggiore il periodo atteso di percezione: si elimina così il trattamento privilegiato in precedenza offerto, attraverso la pensione di anzianità, a coloro che ne conseguissero il diritto prima (e spesso assai prima) di avere raggiunto i limiti previsti per la pensione di vecchiaia. Nel nuovo sistema, inoltre, il rendimento implicito è commisurato al tasso di aumento del prodotto interno lordo, e quindi, almeno in prima approssimazione, a quel valore n+g che un regime a ripartizione è intrinsecamente in grado di offrire (v. sopra, § 4b).
Ancorché efficace nel lungo termine, la riforma del 1995 passerà attraverso un periodo di transizione della durata di molti decenni, durante i quali le nuove norme convivranno con le vecchie e il gettito contributivo non coprirà il costo delle prestazioni. Sarà quindi ancora necessario un cospicuo concorso del bilancio statale.La riforma italiana può leggersi come un esempio di ciò che anche gli altri paesi caratterizzati da squilibri finanziari, pur con le specificità proprie di ogni ordinamento, vanno facendo o tentando di fare, e delle difficoltà che essi incontrano. Per sfuggire alla necessità di un aumento dell'aliquota non v'è infatti altra possibilità se non la riduzione dei flussi di ingresso nel novero dei pensionati (attraverso meno generose regole di acquisizione del diritto) o dell'importo medio delle pensioni (attraverso più severe formule di calcolo). Né l'uno né l'altro irrigidimento sono graditi a chi vede così ridursi le proprie prospettive reddituali nell'età anziana. Ogni progetto di riforma incontra dunque le maggiori difficoltà nel trattamento delle aspettative radicatesi nei lavoratori. Se queste sono severamente colpite, nel senso che nuove e più restrittive norme vengono proposte anche per chi è ormai vicino all'età della pensione, larghi strati dell'opinione pubblica vi si manifestano contrari. Se invece le aspettative sono rispettate al punto di disporre che le nuove norme entrino in vigore soltanto per le pensioni che verranno liquidate tra molti decenni, per altrettanto lunghi periodi si dilaziona l'inizio della loro efficacia in termini di riduzione della spesa.
Tesi più radicali sostengono che è tempo di progettare un deciso e integrale movimento verso la capitalizzazione, nel senso talora di affiancare una componente complementare al sistema pubblico, talaltra di sostituirlo integralmente.A ben vedere, non si tratta di un evento sino a ora sconosciuto. All'inizio degli anni ottanta il Cile, seguito sul finire degli anni novanta da qualche altro paese sudamericano (tra cui l'Argentina), ha compiuto una inversione di rotta dalla ripartizione alla capitalizzazione. La novità consiste nella discussione di un simile progetto anche negli Stati Uniti e in molti paesi europei.Le proposte di transizione completa, se pure lenta e graduale, dalla ripartizione alla capitalizzazione (propugnate da autorevoli studiosi fra i quali, per gli Stati Uniti, Martin Feldstein, e per l'Italia Franco Modigliani) riconoscono che i lavoratori dei prossimi decenni dovranno in ogni caso sostenere gli oneri del preesistente regime a ripartizione, non potendosi cancellare con un tratto di spugna le aspettative già maturate.
Tutte le proposte si ispirano quindi, anche se con numerosissime varianti, a uno schema comune (si osservi che ognuna delle fasi indicate ha la durata di qualche decennio): a) in una prima fase, le classi attive sono costrette ad accettare un aumento del carico loro imposto, dovendo per un verso rispettare le promesse del vecchio sistema, e per altro verso iniziare ad accumulare le riserve del nuovo; in altri termini, continuare a pagare un'aliquota per la ripartizione e iniziare a pagare un'aliquota per la capitalizzazione; b) in una seconda fase, una parte delle pensioni viene fornita dal nuovo sistema, ciò che permette, a parità di prestazioni complessive, di abbassare l'aliquota della ripartizione, sino a che il carico complessivo si riporta a quello iniziale; c) in una terza fase, la riduzione dell'aliquota della ripartizione prevale sul livello dell'aliquota della capitalizzazione, così che il carico complessivo è minore di quello iniziale, e continua a diminuire sino a che sussistono solo più l'aliquota e il sistema a capitalizzazione.
Perché minore? Perché a questo punto il rendimento dei contributi previdenziali è quello del mercato finanziario, assai superiore, nei calcoli dei proponenti, a quello implicito nella ripartizione. A parità di prestazioni, è quindi sufficiente un'aliquota più bassa (v. sopra, par. 4b).
Proprio in questa superiorità sta il punto di forza della tesi di chi sostiene entusiasticamente l'opportunità del ritorno alla capitalizzazione. In una delle numerose versioni delle loro proposte, Feldstein e Samwick (v., 1997) ipotizzano che le riserve possano essere investite al tasso annuo reale del 9 per cento. A regime, le stesse prestazioni che l'attuale sistema americano a ripartizione offre a fronte di un'aliquota contributiva del 12,4 per cento (destinata a salire sensibilmente nei prossimi anni) potrebbero essere fornite dalla capitalizzazione con un'aliquota del 2,02 per cento. Grazie a questo elevatissimo rendimento, il processo di transizione, nel quale si sovrappongono le due aliquote, sarebbe pressoché indolore.Anche con rendimenti meno ottimisticamente previsti, l'aliquota finale risulta assai più contenuta di quelle oggi diffuse nei sistemi a ripartizione. Ceprini e Modigliani (v., 1998) propongono per l'Italia una riforma sotto molti versi analoga a quella che Feldstein e Samwick suggeriscono per gli Stati Uniti. Nell'ipotesi di un rendimento dei capitali pari al 6 per cento, l'aliquota di equilibrio si collocherebbe, a regime, intorno al 6,2 per cento.
Appare a questo punto chiaro che tre sono i nodi cruciali del dibattito sull'opportunità di un passaggio dalla ripartizione alla capitalizzazione.In primo luogo, questo passaggio implica - per la necessità di sostenere l'onere delle pensioni promesse dal preesistente sistema e al tempo stesso di costituire le riserve del nuovo - un aumento degli oneri sopportati dalle coorti che si trovano, per dir così, ad attraversare la scena della vita lavorativa nei decenni durante i quali il processo si svolge.
Una transizione soltanto parziale implica oneri minori, ma pur sempre rilevanti. Queste coorti, gravate da un doppio onere, si trovano in una situazione simmetricamente opposta a quella delle coorti vissute durante la fase iniziale del regime a ripartizione, che ottennero il rilevante beneficio di un trattamento pensionistico senza averlo pagato. È evidente la riluttanza dell'elettorato ad accettare, con l'approvazione di un progetto siffatto, un sacrificio immediato a vantaggio di generazioni future.In secondo luogo, appare cruciale - per valutare sia i vantaggi del raggiungimento di una nuova situazione di regime, sia i costi della fase intermedia - il divario tra il tasso di rendimento della capitalizzazione e quello della ripartizione. Il primo dipende dalle attività nelle quali vengono investite le riserve degli enti gestori, e in particolare dalla loro suddivisione tra titoli obbligazionari (che fruttano tassi reali inferiori ma più costanti nel tempo) e azionari (dai quali si attendono tassi mediamente più elevati ma soggetti a rischi maggiori). Il rendimento della ripartizione, come si è visto più volte, dipende dallo sviluppo del sistema economico, e più precisamente dalla somma dei tassi di aumento della popolazione e del reddito medio.
Che il rendimento della capitalizzazione superi quello della ripartizione è il convincimento prevalente (v. Abel e altri, 1989); ma poiché questo divario dipende (oltre che dalla composizione delle riserve) da previsioni soggettive sull'andamento dei mercati finanziari e dello sviluppo, la stima del divario varia ampiamente da studioso a studioso.In terzo luogo, nel confrontare questi rendimenti, non si può non sottolineare che ambedue sono incerti e variabili nel tempo. Ne segue che un sistema previdenziale misto presenta, rispetto a un sistema fondato soltanto sulla capitalizzazione o soltanto sulla ripartizione, il vantaggio di offrire un meccanismo automatico di almeno parziale compensazione dei rischi. Questa ragione milita, insieme con il minore onere della transizione, a favore dell'obiettivo di un sistema misto, quale quello proposto, per l'Italia, da Castellino e Fornero (v., 1997).
Da Bismarck a Beveridge, ossia dalla fine del XIX secolo alla prima metà del XX, i sistemi previdenziali hanno ottenuto diffusi e lusinghieri successi, affermandosi in tutto il mondo - e in particolare nel mondo occidentale - come una istituzione politicosociale fra le più brillanti. Questi sistemi si sono dimostrati capaci di garantire coesione tra ed entro le generazioni, di eliminare situazioni di bisogno giudicate moralmente inaccettabili, di rendere partecipi dello sviluppo anche le coorti ormai uscite dalla vita lavorativa.La crisi in cui molti di questi sistemi sono entrati negli ultimi decenni del XX secolo non è dovuta a una loro connaturata e insanabile debolezza, ma alla scarsa lungimiranza dei parlamenti, che venivano legiferando diritti sempre più ampi a favore delle coorti anziane senza alcuna proiezione degli oneri che, nei decenni successivi, ne sarebbero derivati; senza attenta analisi del tipo di redistribuzione operata all'interno di ciascuna coorte; senza considerazione degli effetti sull'offerta di lavoro.
Sia pure tardivamente, questi problemi sono stati infine percepiti e compresi. Ma il ritardo ne ha reso più difficile la soluzione, per il delicato intreccio che si era nel frattempo venuto a determinare tra gli interessi degli attivi e quelli dei pensionati.In un dato istante, infatti, non si verifica una semplice sovrapposizione fra due generazioni, ciascuna omogenea al proprio interno. Mentre la generazione dei pensionati può considerarsi unita dai medesimi interessi, la generazione degli attivi si distribuisce senza soluzioni di continuità fra coloro che, collocandosi all'inizio della vita lavorativa, debbono ancora percorrere per intero le due fasi del pagamento dei contributi e della percezione della pensione, e coloro che hanno già esaurito la prima fase e si trovano all'immediata vigilia della seconda. Poiché ogni attivo è titolare, in funzione dei periodi già trascorsi, di diritti previdenziali sanciti dalla legislazione vigente, ogni proposta di riforma lo trova esitante, pur quand'egli sia convinto della superiorità del nuovo sistema, per il timore di perdere quanto già promessogli dal vecchio. Questa duplicità di forze, aggiunta all'indubbio interesse dei pensionati a non vedere discussi i diritti già acquisiti, spiega l'universale lentezza con cui procedono i progetti di riforma, e gli accesi contrasti che li accompagnano.
Ciò è vero per gli interventi che si limitano a correggere eccessi ed errori di un sistema a ripartizione, ed è vero a maggiore ragione per quelli che si propongono di creare al suo fianco (o addirittura di sostituirlo con) un sistema a capitalizzazione. Nel secondo caso, come si è visto, è infatti ancora più elevato l'onere a cui debbono sottoporsi, nello spazio di numerosi decenni, le coorti in età lavorativa.Ne segue che una radicale riforma di un sistema a ripartizione, e ancor più un progetto di transizione a un sistema misto, debbono essere visti non soltanto come scelte, sia pure impegnative, di politica economica, ma come forme di patto costituzionale che coinvolgono più generazioni. Pur se in mutati contesti, conservano la loro attualità e il loro fascino le parole con cui Lord Beveridge (v., 1942, p. 172) concludeva il piano che porta il suo nome: "La libertà dal bisogno non può essere imposta o elargita a una società democratica; deve essere conquistata. Questa conquista richiede coraggio, fiducia e senso dell'unità nazionale: coraggio per affrontare le difficoltà concrete e superarle; fiducia nel futuro e negli ideali di uguaglianza e di libertà per i quali, nel corso dei secoli, i nostri padri furono pronti a morire; e un senso dell'unità nazionale che tenga a freno gli interessi di singoli ceti o settori".
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