PREVIDENZA E SICUREZZA SOCIALE
(v. previdenza sociale, XXVIII, p. 228; App. I, p. 952; previdenza e sicurezza sociale, App. II, II, p. 608; III, II, p. 483; IV, III, p. 50)
La crisi del sistema previdenziale pubblico italiano, dopo oltre un quindicennio di ripetuti e vani tentativi di riforma, è stata affrontata, sul finire del 1992, in piena tempesta economica e monetaria, prima con interventi di emergenza diretti all'immediato contenimento della spesa per pensioni (D.L. 19 settembre 1992 n. 384, convertito con modificazioni dalla l. 14 novembre 1992 n. 438), e poi con misure organiche di ''riordino'' del sistema previdenziale dei lavoratori dipendenti privati e pubblici, con l'espresso scopo, anch'esso finanziario, "di stabilire ... il rapporto tra spesa previdenziale e prodotto lordo e di garantire ... trattamenti pensionistici obbligatori omogenei, nonché di favorire la costituzione, su base volontaria, collettiva o individuale, di forme di previdenza per l'erogazione di trattamenti pensionistici complementari" (art. 3 della l. di delega 23 ottobre 1992 n. 421; legge da cui sono derivati il decreto legisl. 30 dicembre 1992 n. 503 di riordino del sistema previdenziale, e il decreto legisl. 21 aprile 1993 n. 124 sulle forme pensionistiche complementari, poi corretto con il decreto legisl. 30 dicembre 1993 n. 585).
Una riforma, dunque, nata nell'emergenza finanziaria dello stato, ancorché gli studi per il riaggiustamento sostanziale del sistema pensionistico italiano fossero già avviati nei primi anni Ottanta; quando, peraltro, era trascorso poco più di un decennio dalla l. 30 aprile 1969 n. 153 di revisione degli ordinamenti pensionistici, che, tra l'altro, aveva istituito la ''pensione sociale'' per i cittadini oltre i 65 anni privi di fonti di reddito (nell'arco di due anni vennero corrisposte 800.000 pensioni assistenziali); e aveva formalmente abbandonato il principio della ''capitalizzazione'' per finanziare l'erogazione delle prestazioni del regime generale INPS.
La cosiddetta crisi del sistema pensionistico non è tuttavia una prerogativa esclusivamente italiana: nella maggior parte dei paesi industrializzati si accrescono, con il problema demografico dell'invecchiamento della popolazione, i problemi del finanziamento contributivo delle prestazioni (e delle conseguenze sul costo del lavoro) e tornano in discussione gli effetti e gli scopi redistributivi della p., che (anche nel caso di finanziamento fiscale) trasferisce reddito dalla popolazione attiva a quella anziana (se non da quella presente a quella futura). Più in generale, però, i regimi pensionistici pubblici partecipano dei fenomeni di maturazione e trasformazione dei sistemi di s.s.; e, più latamente, della crisi dello stato sociale (welfare state) e del ridimensionamento del ruolo dei poteri pubblici nell'economia e nella società. L'intervento statale che − nella p., nella sanità e nell'assistenza − si propone di lenire i ''bisogni sociali'' e che via via, per ragioni politiche, si assume il carico di sempre nuove ''pretese'', passando dai bisogni elementari a quelli secondari, mutevoli e diversificati, richiede infatti un crescente prelievo fiscale e parafiscale; provoca spesso insoddisfazione degli stessi utenti, delusi nelle aspettative evocate; genera ipercomplessità e inefficienza nell'organizzazione amministrativa.
Nel caso italiano è indubbio che l'adozione, a partire dal 1975 e per tutti gli anni Ottanta, di interventi pensionistici e sanitari pubblici (riforma sanitaria del 1978), tendenzialmente universalistici e ugualitari a un livello di prestazioni teoriche ottimali, ha determinato il dispiegarsi e l'intreccio di tutti i suddetti effetti negativi; e quindi, con la crisi finanziaria, ha in ultima istanza riproposto l'affidamento alla solidarietà categoriale privata (mutualistica e delle organizzazioni senza scopo di lucro) della soddisfazione dei bisogni sociali superiori ai minimi e agli standard fronteggiabili con le strutture e i finanziamenti pubblici. Il ridimensionamento del sistema pensionistico pubblico italiano, agli inizi degli anni Novanta, però, oltre a connettersi alla crisi dello stato sociale, risulta da specifiche vicende che hanno influenzato e aggravato la dinamica della spesa.
Primo fra tutti, il meccanismo d'indicizzazione delle pensioni, non più solo proporzionalmente al costo della vita, ma anche all'andamento delle retribuzioni in termini reali (l. 3 giugno 1975 n. 160). Duplice indicizzazione che, assieme alla trasformazione del ''calcolo'' della liquidazione delle pensioni del regime generale, da ''contributivo'' (sulla base del compenso dei contributi versati) in ''retributivo'' (sul parametro della retribuzione annua media percepita nei tre anni più favorevoli all'assicurato scelti fra gli ultimi dieci), ha prodotto, fra il 1974 e il 1983, il passaggio della spesa pensionistica dal 7,8% al 12,5% del prodotto nazionale lordo; e cioè a un livello superiore a quello di gran parte dei paesi occidentali.
Sempre negli anni Ottanta, all'espansione dei trattamenti d'invalidità civile, direttamente a carico del bilancio dello stato (da 370.000 nel 1980 a 1.170.000 nel 1990), si accompagna (a partire dalla l. 23 aprile 1981 n. 155) il massiccio ricorso ai prepensionamenti INPS dei lavoratori delle aziende industriali in crisi (circa 350.000 negli anni Ottanta, con considerevole onere per la finanza pubblica, trattandosi di pensioni d'importo medio molto elevato). Nel 1992 l'incidenza percentuale della spesa per pensioni sul prodotto interno lordo raggiunge il 14,9%, sospinta soprattutto dalla possibilità legale di cumulo di più pensioni e dalla crescita delle pensioni previdenziali di vecchiaia, che, a sua volta, è dovuta all'aumento del numero degli anziani sul totale della popolazione (gli anziani sono oggi, in Italia, il 21% di questa).
Il progressivo aumento, nel periodo 1990-93, del peso relativo delle pensioni sul complesso della spesa sociale italiana è determinato dalla circostanza che la politica sociale si è incentrata sulla tutela degli anziani, degli invalidi e dei superstiti, ritenuta più importante di quella a tutela dei disoccupati e dei cittadini con carichi familiari; ma che comunque le pensioni (specie quelle d'invalidità) sono state di frequente utilizzate, impropriamente, per sostenere i cittadini poveri o, attraverso i prepensionamenti, per sussidiare i lavoratori disoccupati. In altri termini, utilizzando le pensioni per sostenere poveri e disoccupati, si è applicato il requisito aggiuntivo dell'età (o quello dell'invalidità) per rendere più selettiva l'erogazione dei sussidi.
L'eccesso di crescita della spesa pensionistica in Italia, rispetto agli altri paesi occidentali, agli inizi degli anni Novanta, è dovuto al fatto che non sono state modificate le condizioni ''favorevoli'' al conseguimento (anche precoce) del diritto alla pensione e che sono stati attuati ulteriori miglioramenti delle prestazioni fornite, specie nel settore dei pubblici dipendenti. I provvedimenti di emergenza e di riforma adottati a cavallo tra il 1992 e il 1993 si propongono, a un tempo, l'obiettivo del contenimento della spesa per pensioni nel quadro del risanamento dei conti pubblici, e l'obiettivo strutturale di adeguare le politiche pensionistiche alle possibilità finanziarie sostenibili da una società in rapido invecchiamento come quella italiana e, comunque, di uniformare la normativa previdenziale italiana a quella degli altri paesi della Comunità Europea. Le norme italiane, infatti, risultavano, prima del 1993, fra le più favorevoli sotto il profilo sia dell'acquisizione del diritto a pensione (60 anni per gli uomini e 55 per le donne iscritti al regime generale dell'INPS), sia della determinazione dell'importo della medesima (coefficiente del 2% per ogni anno di contribuzione, fino a raggiungere, in 40 anni, l'80% della retribuzione, a fronte di coefficienti dell'1,50% in Germania e dell'1,86% in Francia); sia, infine, delle modalità d'indicizzazione, di cumulo dei trattamenti e di concessione delle pensioni di riversibilità.
Le principali modifiche normative introdotte, a partire dal 1993, nel comparto della p. obbligatoria si possono così raggruppare.
Graduale innalzamento dell'età di pensionamento per vecchiaia, a 65 anni per gli uomini e a 60 anni per le donne. Il numero degli anni dopo i quali matura il diritto di pensionamento per anzianità è rimasto, invece, a 35 nel regime generale; e ad esso viene gradualmente portato anche il settore, prima privilegiato, dei pubblici dipendenti. Queste misure produrranno sicuramente effetti di risparmio relativamente alle donne, che presentano in media anzianità contributive assai più basse degli uomini, e che avranno, in futuro, maggiori difficoltà di accesso ai minimi di pensione.
Prolungamento graduale del periodo contributivo utile per la determinazione della retribuzione pensionabile (base sulla quale, applicando alcune percentuali legate al numero degli anni di versamenti, viene valutata la pensione iniziale) secondo i seguenti criteri:
per coloro che al 31 dicembre 1992 hanno maturato più di 15 anni di versamenti contributivi si prevede, per tutti i regimi, che la retribuzione pensionabile si uniformi sulla base dei redditi degli ultimi dieci anni di lavoro;
per coloro che hanno versamenti contributivi per meno di 15 anni, si prevede che la retribuzione pensionabile sia costituita dalla media delle retribuzioni riferite agli archi di tempo attualmente propri di ogni regime, aumentata del numero di anni intercorrente tra il momento del pensionamento e il 1° gennaio 1993, data di entrata in vigore della riforma. Conseguenza principale di questa normativa è l'introduzione di una netta cesura tra il livello di pensione dei giovani e il livello di pensione dei lavoratori di età matura, dei quali sono stati salvaguardati i diritti acquisiti.
Elevazione graduale a 20 anni del requisito contributivo minimo per il conseguimento della pensione di vecchiaia (attualmente, nella maggioranza dei regimi, è pari a 15 anni).
Indicizzazione delle pensioni alla sola dinamica dei prezzi, sia pure con l'ipotizzazione di incrementi discrezionali da disporsi in futuro tramite legge finanziaria, in relazione alle condizioni dell'economia e dell'andamento della spesa previdenziale.
Restrizione delle condizioni per consentire il cumulo della pensione di vecchiaia con redditi di lavoro dipendente (ed estensione di questa normativa ai pensionati del settore pubblico) e generalizzazione del divieto di cumulo delle pensioni di anzianità con redditi di lavoro dipendente.
La riforma così realizzata, in tempi brevi e sotto la pressione di vincoli finanziari stringenti, non ha certamente potuto recepire tutte le soluzioni e gli spunti offerti da molteplici studi, progetti e confronti con esperienze di altri paesi; né, in particolare, ha potuto proporsi di affrontare prioritariamente tutti i problemi strutturali del sistema pensionistico e dei suoi effetti sul funzionamento del mercato del lavoro e dell'apparato produttivo e sulla regolazione della distribuzione dei redditi. Come pure è rimasto sostanzialmente irrisolto (al di là di norme meramente programmatiche) il nodo relativo al ruolo dell'intervento previdenziale pubblico rispetto alla p. volontaria fondata su basi collettive o anche organizzata in forma individuale. In prospettiva appare, pertanto, probabile un aggiustamento della riforma, quanto meno sotto quest'ultimo aspetto.
Del resto, dall'attuazione del riordino degli enti pubblici di p. e assistenza, delegato al governo dall'art. 1, commi 32 e 33, della l. 24 dicembre 1993 n. 537, tornerà a riproporsi il problema della ''privatizzazione'' (ossia della trasformazione in associazioni o fondazioni disciplinate dal codice civile) degli enti previdenziali dei professionisti e dei lavoratori autonomi (avvocati, dottori commercialisti, geometri, ingegneri e architetti, notai, ragionieri, agenti e rappresentanti di commercio, consulenti del lavoto, medici, farmacisti, veterinari, spedizionieri doganali), nonché dei dirigenti di azienda e dei giornalisti. Verrà quindi in evidenza la questione della poco razionale obbligatorietà dell'iscrizione e della contribuzione previdenziale in favore di organizzazioni non più strutturalmente pubbliche; e, di nuovo, si prospetterà la necessità di ridefinire, senza commistioni, la p. pubblica rispetto alla mutualità e alla p. privata. Una serie di proposte di modifica della p. pubblica è stata formulata dal governo Berlusconi nel settembre 1994 in occasione della presentazione al Parlamento della legge finanziaria per il 1995.
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