Prescrizione e crediti tributari
Nell’assenza di un quadro normativo compiuto, stabilire la prescrizione dei crediti tributari costringe a integrare singole leggi d’imposta con il codice civile. Norme e giurisprudenza più recenti segnalano una tendenza, in fase di riscossione, di adottare sempre più termini prescrizionali, piuttosto che termini di decadenza; la prescrizione decennale propria dell’actio iudicati è poi considerata applicabile – e lo hanno confermato le Sezioni Unite con una sentenza forse fraintesa dai commenti – quando la pretesa creditoria del fisco è stata accertata in sede giurisdizionale, mentre si applica la disciplina propria del singolo tributo nei casi di riscossione conseguente ad accertamenti definitivi in assenza del vaglio giurisdizionale.
Nell’affrontare il tema della prescrizione dei crediti tributari sarebbe a rigore necessario porre una serie di premesse metodologiche preliminari, echeggianti questioni di fondo classiche del diritto tributario: in ordine al ruolo che il concetto di obbligazione svolge nell’ambito dell’attuazione dei tributi, in ordine alla individuazione del momento nel quale un’obbligazione, con le tipiche situazioni soggettive di debito/credito possa dirsi venuta in essere, in ordine infine alla fonte genetica di tali situazioni soggettive (la legge, e/o l’atto impositivo, e/o la dichiarazione, e/o la sentenza). Ma il discorso sarebbe eccessivamente dilatato, rispetto alla funzione del volume, che è quella di analizzare l’evoluzione dell’ordinamento in un determinato periodo. Appare dunque utile partire dal dato normativo nella sua oggettività, verificando in quale modo la disciplina della prescrizione dei crediti tributari – intendendo come tali, in questa sede, quelli espressivi di pretese delle amministrazioni finanziarie1 rivolte ai soggetti coinvolti nel prelievo, o quali soggetti passivi in senso proprio del tributo, o quali soggetti corresponsabili in qualità di sostituto, di responsabile, di condebitore solidale, di terzo possessore di beni soggetti a privilegio speciale del fisco – sia stata oggetto di modifiche (apparenti, o effettive) per effetto di provvedimenti giurisprudenziali o legislativi.
Nell’ordinamento tributario, non vi è una disciplina unitaria della prescrizione dei crediti tributari, manca una disposizione di carattere generale. L’individuazione dei termini di prescrizione va dunque compiuta caso per caso, desumendola in primo luogo dalle leggi regolatrici delle singole imposte2. Peraltro, per alcuni tributi (tra essi, quelli di maggiore rilievo pratico, come le imposte sui redditi e l’IVA) la prescrizione non è affatto disciplinata, il che impone di mutuare la disciplina da quella del codice civile, anche alla luce del rinvio implicito contenuto nell’art. 8 l. 27.7.2000, n. 212 (nota come Statuto dei diritti del contribuente). La ragione di questo minore rilievo dato dalla legislazione alla prescrizione si rinviene nella scelta, risalente soprattutto alla riforma tributaria degli anni settanta del secolo scorso, di sottoporre le attività di accertamento, di liquidazione, di riscossione e sanzionatorie (ossia le attività che caratterizzano nel loro insieme la funzione impositiva) a termini decadenziali. Le decadenze, peraltro, colpiscono in genere le attività propedeutiche rispetto alla esecuzione forzata in senso stretto, il che induce prevalentemente la dottrina e la giurisprudenza ad affermare che la prescrizione opera solo là dove siano cessate le attività amministrative soggette a termine decadenziale3. Corollario di questa impostazione di fondo è che, nell’ambito di un sistema nel quale la riscossione officiosa dei tributi è generalmente effettuata da soggetti autonomi rispetto all’ente impositore titolare del potere di accertamento e di irrogazione delle sanzioni, l’attività di quest’ultimo soggetto – salve ovviamente eventuali specifiche disposizioni di legge – è regolata da termini di decadenza, mentre termini di prescrizione incidono soltanto sull’esercizio dei poteri di riscossione coattiva (quando cioè, per convenzione, si ritiene possa dirsi finalmente sorta e determinata nel suo ammontare un’obbligazione tributaria: la quale viene formalizzata nella iscrizione a ruolo, che segna anche il parametro di responsabilità del soggetto incaricato della riscossione).
Ma nemmeno può dirsi, in assoluto, che nel territorio della riscossione coattiva la prescrizione sostituisca la decadenza: infatti, non mancano previsioni decadenziali anche dopo che il credito sia stato affidato all’agente della riscossione.
In tale contesto, la giurisprudenza offre un quadro abbastanza stabile, dal quale si ricavano i seguenti principi, integrativi delle scarne previsioni normative:
a) salvo che per i tributi nei quali la prescrizione è regolata espressamente, nonché per le sanzioni amministrative tributarie, là dove l’art. 20, co. 3, d.lgs. 18.12.1997, n. 472 fissa esplicitamente la prescrizione quinquennale, deve ritenersi applicabile la regola civilistica generale (art. 2946 c.c.) della prescrizione decennale, la quale ovviamente trova applicazione nelle attività non sottoposte a termini decadenziali;
b) quando gli elementi costitutivi del tributo si ripetono tendenzialmente omogenei di anno in anno, si applica la prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2948, n. 4 c.c. «per tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi»4 (il principio è applicato però quando alla prestazione tributaria si ricollega una prestazione tendenzialmente stabile nel tempo anche da parte dell’ente, come per tasse e tributi paracommutativi; non è qui possibile entrare nel merito di tale orientamento, che presta il fianco a critiche)5;
c) quando la pretesa tributaria sia stata però oggetto di verifica giurisdizionale, per giurisprudenza consolidata si applica l’art. 2953 c.c., che prevede la trasformazione delle prescrizioni brevi in prescrizione ordinaria decennale; in tal caso si ritiene, per di più, non applicabile la normativa che preveda termini di decadenza per riscuotere somme dovute in base ad accertamenti definitivi6;
d) la prescrizione non è rilevabile d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte che vi abbia interesse; la disciplina processuale tributaria detta tempi e modi nei quali la questione della prescrizione deve essere posta dal ricorrente, così dando specificità alla regola generale civilistica dell’art. 2938 c.c.; tenendo conto della rigida delimitazione dei tempi di proposizione della domanda stabiliti dal d.lgs. 31.12.1992, n. 546, questo significa che, se il diritto di credito dell’Amministrazione viene fatto valere con un atto suscettibile di impugnazione davanti alle commissioni tributarie, o meglio in modi e tempi che presuppongono la giurisdizione delle commissioni tributarie, la prescrizione deve necessariamente essere dedotta come motivo specifico, nel termine decadenziale di proposizione
del ricorso – sessanta giorni –, impugnando l’atto che si ritiene sia stato notificato dopo la prescrizione; se invece ci si trova in un ambito attribuito alla giurisdizione ordinaria – ciò accade di regola quando è iniziata la procedura esecutiva, ossia dal pignoramento in poi – la questione andrà posta in sede di opposizione all’esecuzione (art. 615 c.p.c.) piuttosto che in sede di opposizione agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.)7.
Sullo sfondo, resta il monito della Consulta (C. cost., 15.7.2005, n. 280), sia pure reso a proposito della riscossione sulla base della liquidazione del dichiarato, con il quale si è ribadito, sulla scia della giurisprudenza costituzionale precedente e in termini tendenzialmente assoluti, che non è consentito al legislatore «lasciare il contribuente assoggettato all’azione esecutiva del fisco per un tempo indeterminato e comunque, se corrispondente a quello ordinario di prescrizione, certamente eccessivo e irragionevole».
In questo contesto, vanno segnalati tre elementi potenzialmente evolutivi sopravvenuti di recente, l’uno dovuto ad un intervento del legislatore, gli altri due frutto di importanti sentenze delle sezioni unite della Corte di cassazione.
Il primo è rappresentato dalla modifica apportata nel 2015 (d.lgs. 24.9.2015, n. 159), con effetto dal 2016, all’art. 29, co. 1, lett. e), d.l. 31.5.2010, n. 78: dalla disposizione è stato espunto il periodo conclusivo, che così statuiva, quanto alla riscossione conseguente alla notifica di atti di accertamento esecutivi in materia di imposte sui redditi, IRAP e IVA: «L’espropriazione forzata, in ogni caso, è avviata, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo». Nessuna formulazione ha sostituito il periodo soppresso.
Il secondo elemento consegue alla sent. Cass., S.U., 17.11.2016, n. 23397, resa in materia previdenziale ma rilevante anche per i crediti tributari, nella quale la suprema Corte, al massimo livello nomofilattico, nega che l’inoppugnabilità dell’atto che accerta il credito possa comportare la trasformazione in ordinaria della prescrizione breve, stabilita dalla legge regolatrice del prelievo, confermando che l’applicazione dell’art. 2953 c.c. è subordinata alla formazione di un giudicato che accerta il credito. Dunque, se per legge è previsto un termine prescrizionale per la riscossione più breve di dieci anni, questo termine breve resta applicabile, non essendo suscettibile di trasformazione in termine ordinario di prescrizione decennale, quando la pretesa dell’ente impositore si sia resa definitiva senza un passaggio giurisdizionale (in genere, per mancata impugnazione dell’atto di “accertamento” o di “imposizione del credito”). L’orientamento è stato da ultimo ribadito da Cass., 25.8.2017, n. 20425, a proposito della prescrizione del bollo auto, che resta ancorata alla durata “breve” triennale prevista dalla legge regolatrice dell’imposta, se il credito non è accertato con sentenza. Il terzo elemento è costituito dalla recentissima Cass., S.U., 13.6.2017, n. 14648, che ha affermato che la questione della prescrizione del credito tributario non può essere decisa in sede fallimentare, ma è riservata alla giurisdizione tributaria.
Per effetto della modifica normativa intervenuta sul testo della disposizione regolatrice dell’accertamento esecutivo, si rileva che dopo la formazione della definitività su tale atto impositivo, non sono più previsti termini decadenziali per avviare la riscossione coattiva, la quale quindi può essere avviata rispettando solo il termine di prescrizione; che, nel caso delle imposte alle quali si applica l’atto di accertamento esecutivo, è senza dubbio decennale, e tale resta, dunque, sia che l’accertamento sia definitivo per mancata impugnazione, sia che lo diventi a seguito di una sentenza passata in giudicato (che ne confermi, almeno in parte, il contenuto). La modifica normativa appare incoraggiata dall’orientamento giurisprudenziale consolidato, citato nel precedente paragrafo, secondo il quale l’accertamento definitivo per sopravvenuto giudicato non è sottoposto a termini di decadenza o a termini specifici di prescrizione, ma solo alla prescrizione decennale propria dell’actio iudicati. In particolare, essa trae ispirazione dalla giurisprudenza che aveva già dichiarato sostanzialmente disapplicabile l’art. 25, co. 1, lett. c), d.P.R. 29.9.1973, n. 6028, ritenendo che il termine decadenziale ivi previsto per notificare la cartella di pagamento (notoriamente assimilabile al precetto del processo civile), inserito dal legislatore dopo la citata sent. n. 280/2005 della Corte costituzionale, ceda il posto alla prescrizione decennale da actio iudicati, se l’accertamento è definitivo per effetto di una sentenza. La modifica normativa supera peraltro i limiti desumibili dalla giurisprudenza cui pure si ispira, affidando alla prescrizione ordinaria decennale la riscossione di tutte le somme dovute per accertamenti comunque divenuti definitivi, sia per inoppugnabilità, sia perché confermati almeno in parte dal giudicato.
Risulta dunque emergere anche a livello normativo un trend interpretativo, mirante a svincolare la riscossione da termini decadenziali – la cui presenza è dunque eliminata o ridotta – e a sottoporla ad un termine prescrizionale che è:
a) o quello breve previsto da singole leggi d’imposta, se non vi è giudicato;
b) o quello decennale che opera sia nel caso in cui al tributo da riscuotere sia applicabile la prescrizione decennale ex art. 2946 c.c. ovvero prevista da legge speciale, sia nel caso in cui, pur essendo previsto un termine prescrizionale più breve, vi sia stato un giudicato dal quale risulti definitivo un credito tributario.
Si pone peraltro un diverso problema, quello di stabilire se l’art. 25 citato, co. 1, lett. c), conservi oggi un effettivo ambito di operatività. Premesso infatti che l’art. 25 è considerato applicabile alle sole imposte sui redditi e all’IVA dall’orientamento prevalente (Cass. n. 1974/2015), ancorché giustamente criticata in dottrina9, la notificazione della cartella di pagamento successivamente all’atto di accertamento non trova più spazio per tali imposte: infatti nella norma regolatrice dell’atto impoesattivo (art. 29 d.l. n. 78/2010) si regola direttamente la sequenza notifica dell’accertamento-avvio dell’esecuzione forzata, posto che la prima ha assunto anche la funzione di intimazione ad adempiere a guisa del precetto.
C’è da chiedersi allora perché l’art. 25, lett. c), non sia stato abrogato, quanto meno con effetto dalla data in cui hanno iniziato ad operare gli accertamenti esecutivi. La risposta potrebbe stare nel fatto che, nonostante il tenore letterale dell’art. 23 d.lgs. 26.2.1999, n. 46 (che sembra estendere l’art. 25 dalle imposte sui redditi alla sola IVA), la notifica della cartella di pagamento, dopo la formazione dell’accertamento definitivo, in un termine decadenziale, potrebbe essere considerata necessaria per ogni altra imposta. Occorre considerare peraltro, al fine di definire il contesto complessivo ordinamentale alle luce del quale il problema va risolto, che ad es. in materia di tributi locali resta stabilita la necessità di notificare il titolo esecutivo (in quei casi, di regola si tratterà dell’ingiunzione fiscale) a pena di decadenza, dopo il verificarsi della definitività dell’accertamento (art. 1, co. 163, l. 27.12.2006, n. 296). Trasponendo le conclusioni della suprema Corte al settore dei tributi locali, anche per essi la decadenza dovrebbe applicarsi solo ad accertamenti inoppugnabili e non a quelli confermati da sentenza passata in giudicato. Dunque una situazione ambigua: in sede di riscossione la prescrizione ha emarginato la decadenza, rispetto alle imposte sui redditi e all’IVA, ma questa prevalenza non può essere ancora definita in termini di sostituzione, posto che resiste un nucleo di imposte (di ampiezza peraltro anch’essa dubbia) in cui può essere necessario rispettare prioritariamente un termine di decadenza per procedere alla riscossione coattiva.
In tale contesto, la sent. n. 23397/2016 delle Sezioni Unite, presentata dalla prima informazione mediatica quasi come un’imprevista svolta interpretativa e quasi come un’affermazione assoluta circa la durata quinquennale della prescrizione, non ha fatto altro che confermare (con particolare forza, come si evince dalla precisazione che «tale conversione (da prescrizione breve a prescrizione ordinaria decennale, NDA) non opera se la definitività dell’accertamento deriva non da una sentenza passata in giudicato, ma dalla dichiarazione di estinzione del processo tributario per inattività delle parti») che la trasformazione della prescrizione “breve” in prescrizione decennale non può avvenire in ogni caso in cui si riscuota un credito – previdenziale, nel caso all’esame delle sezioni unite; ma lo stesso sarebbe stato se il credito avesse avuto natura tributaria – ormai definitivo, ma solo quando la riscossione coattiva sia promossa sulla base della sentenza. Quando invece il credito dell’ente pubblico è definitivo per mancanza delle opposizioni previste dalla legge, la prescrizione torna ad essere quella prevista per la singola entrata che deve essere posta in riscossione: essa sarà, o meglio resterà, “breve”, se tale è prevista dalla legge o dal codice civile; sarà, o meglio resterà, decennale, se la legge speciale o il codice civile dispongano in tale senso10.
Insomma, possiamo definire la novità apparente, in quanto il principio consolidato (sul quale peraltro non è difficile esprimere considerazioni critiche, sulle quali v. infra, § 3) della giurisprudenza precedente, in ordine all’applicazione dell’art. 2953 c.c. nei casi di credito tributario accertato con sentenza passata in giudicato, non è affatto messo in discussione, essendone piuttosto negata la portata espansiva – sostenuta in quel giudizio dagli enti previdenziali – anche a proposito di vicende nelle quali non emerge la formazione di un giudicato.
L’ultimo elemento di novità è rappresentato da una sentenza recentissima, pure delle Sezioni Unite, n. 14648/2017, nella quale si afferma – con espresso richiamo a massima precedente riferibile a Cass., S.U., 19.11.2007, n. 23832 che «anche l’eccezione di prescrizione, quale fatto estintivo dell’obbligazione tributaria, rientra nella giurisdizione del giudice che abbia giurisdizione in merito alla predetta obbligazione (si trattava di un caso in cui il fatto estintivo opposto era sopravvenuto alla formazione del titolo esecutivo costituito dalla cartella esattoriale ed è stata inoltre esclusa l’appartenenza del sollecito di pagamento inviato al contribuente agli atti dell’esecuzione forzata, potendosi assimilare invece all’avviso di mora di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 50, comma 2, che è impugnabile davanti alle commissioni tributarie). Ed in senso conforme, si richiama la successiva pronuncia Sez. U. del 3/5/2016, n. 23832». In linea di principio, l’affermazione è certamente condivisibile ed appare anche in continuità con gli orientamenti precedenti. Tuttavia, nella sua assolutezza essa si scontra con un ostacolo non trascurabile: la prescrizione sopravvenuta alla notificazione dell’ultimo degli atti impugnabili davanti alle commissioni tributarie può essere rilevata solo opponendosi al pignoramento, ed in tal caso la giurisdizione tributaria viene meno, ex art. 2 d.lgs. n. 546/1992, in favore di quella del giudice ordinario11. Negare quindi la giurisdizione del giudice fallimentare può porre un problema non da poco, perché potrebbero non esservi più le condizioni per ricorrere davanti al giudice tributario e nel contempo potrebbe mancare quell’adozione di atti espropriativi individuali, che sola consentirebbe di investire della questione della prescrizione sopravvenuta il giudice ordinario in sede di opposizione all’esecuzione.
Rispetto ai punti fermi indicati precedentemente (v. supra, § 1), le innovazioni ora segnalate non comportano uno stravolgimento del quadro: la prescrizione decennale resta dunque applicabile quando prevista dalla singola legge relativa all’entrata, quando, mancando specifiche previsioni, è applicabile la prescrizione ordinaria di cui all’art. 2946 c.c., e ancora quando, pur essendo prevista una prescrizione più breve, il credito tributario venga portato ad esecuzione per effetto di una sentenza passata in giudicato (art. 2953 c.c.). Resta fermo altresì, nella giurisprudenza, che dopo la sentenza passata in giudicato nessun termine decadenziale regola la notifica della cartella di pagamento, in quanto la previsione dell’art. 25, lett. c), d.P.R. n. 602/1973 è considerata applicabile al solo accertamento definitivo per mancata impugnazione. Il carattere recessivo dei termini di decadenza successivi all’accertamento definitivo del credito è poi confermato, nel diritto positivo, ma solo a livello tendenziale, dalla circostanza che per la riscossione dell’accertamento esecutivo, anche detto impoesattivo, divenuto definitivo, non è più previsto un termine di decadenza per dare inizio all’esecuzione forzata, la quale va dunque avviata nel rispetto del solo termine prescrizionale decennale.
Ciò posto in linea generale, in particolare va ribadito che non è dato ravvisare nella sent. n. 23397/2016 delle Sezioni Unite un effettivo carattere innovativo, rispetto all’assetto tradizionale. Tuttavia, dalla diffusa motivazione appare un certo quale imbarazzo per il diffondersi della prescrizione decennale, poiché viene richiamato il monito della Consulta, che sembra ormai lontano nel tempo e dimenticato dal legislatore, circa l’inadeguatezza di termini troppo ampi e di un lasso di tempo decennale perché la prescrizione si compia. Quando la sent. n. 280/2005 lanciò tale monito, l’ordinamento era appunto basato su termini decadenziali, che regolavano gli accertamenti e le iscrizioni a ruolo; ma, formato il titolo esecutivo, tutti i successivi atti (a partire dalla cartella di pagamento) potevano essere notificati o adottati entro il termine prescrizionale in genere decennale. È indubbio che a distanza di dodici anni l’assetto attuale si ripresenta più simile a quello censurato dalla Corte costituzionale che non a quello introdotto – ad horas – dopo la sent. n. 280/2005. In effetti, ancorché sempre più solido, l’orientamento giurisprudenziale che applica agli atti impositivi il disposto dell’art. 2953 c.c. offre il fianco a plurime critiche, delle quali si dà conto nel paragrafo che segue.
I profili problematici sono essenzialmente tre. Il primo investe l’abbandono, o comunque la marginalizzazione, del termine decadenziale, a discapito della prescrizione. Esso presenta un risvolto di diritto positivo ma anche riflessi di ordine costituzionale. Il secondo investe il dogma della sostitutività della sentenza. Il terzo nasce dalla convinzione che, rispetto agli atti impositivi e alle sentenze delle commissioni tributarie, non vi siano le condizioni di base affinché si possa applicare l’art. 2953 c.c. Quanto al primo profilo, l’assetto descritto tende ad applicare la sola prescrizione decennale per l’esecuzione di crediti tributari definitivi, nonostante permangano indicazioni normative che, obiettivamente, non giustificano la emarginazione del termine decadenziale alla sola riscossione da accertamento inoppugnabile (v. supra, §§ 2.1 e 2.4). Nella persistente presenza di indicazioni non univoche da parte del diritto positivo, che determinano trattamenti differenziati tra imposte e, all’interno della stessa imposta, in base alla fonte genetica del credito dell’amministrazione finanziaria, occorre valutare quale disparità risulti tollerabile e quale invece no.
Commentando la sent. della Corte costituzionale n. 280/2005, citata, e la conseguente novellazione delle norme del d.P.R. n. 602/1973 conseguente alla sentenza, diversi autori ebbero a rilevare che per certi versi il credito tributario risultava mal tutelato, essendo assoggettato a termini più rigorosi, per natura e per durata, rispetto a quelli ordinariamente concessi al creditore di diritto comune. Una perplessità del genere è probabilmente alla base della tendenza restrittiva, di cui si è detto in precedenza, che emargina, o addirittura elimina con norme esplicite, i termini decadenziali che si frappongono tra accertamento del credito e riscossione del medesimo, tendenza che, come punto di forza, ha anche il rilievo secondo il quale la Consulta non intendeva considerare, nei suoi enunciati del 2005, la riscossione sulla base di accertamenti definitivi.
Tuttavia, anche la tendenza attuale non si sottrae a critiche, perché sembra superare il punto di equilibrio che la Consulta richiamava, con indicazione di un principio formulato in termini obiettivamente generali: principio a sua volta articolato in un’affermazione di massima (la soggezione del debitore ai poteri del fisco non può avere durata eccessiva o indeterminata) e in una specificazione puntuale (la durata non può essere quella decennale della prescrizione ordinaria, portata ad esempio di termine irragionevolmente lungo). Se quindi da un lato vi era l’esigenza di non penalizzare le amministrazioni finanziarie creditrici, dall’altra vi era anche la precisa indicazione della Corte che i termini concessi a queste ultime non avrebbero dovuto coincidere con la prescrizione ordinaria: una certa qual differenziazione, in altre parole, tra crediti comuni e crediti tributari sembra richiesta dalla Corte. Questa riflessione induce a dubitare della sterzata impressa al diritto positivo, così come delle linee interpretative che mirano o a circoscrivere l’applicazione dei termini decadenziali in favore della prescrizione da giudicato, o a delimitare l’ambito applicativo delle imposte alla cui riscossione si applicano i termini decadenziali. È forse questo il vero segnale timidamente originale desumibile dalle sezioni unite del 2016 sulla prescrizione dei crediti definitivi non coperti da giudicato, ossia il richiamo dell’attenzione degli addetti ai lavori su un’impostazione della giurisprudenza costituzionale troppo sbrigativamente accantonata.
Il secondo profilo problematico attiene ad una questione di teoria generale: la Cassazione, ispirata dal dogma del carattere necessariamente sostitutivo della sentenza stessa rispetto all’atto impositivo, assoggetta a termine prescrizionale ordinario la riscossione dei crediti tributari ogni volta che una sentenza – non meramente processuale, si è visto –, si frappone tra la riscossione stessa e l’accertamento del credito. Ma questo carattere sostitutivo della sentenza è frutto di una petizione di principio, che non ha effettivo supporto nel dato normativo12 e risulta oltretutto incongruo, rispetto all’actio iudicati, rispetto alla stessa giurisprudenza che assegna alla sentenza la possibilità di rideterminare la pretesa impositiva. Quest’ultima, infatti, fa della sentenza tributaria un atto sostitutivo di quello impugnato in casi nei quali la pretesa impositiva dell’ufficio è modificata dal giudice, mentre invece la qualificazione di ogni forma di riscossione coattiva come derivante dal giudicato viene affermata in via generale, quale che sia il contenuto della sentenza ed il suo rapporto con l’atto impugnato. Senza poter in questa sede sviluppare la critica al dogma della sostitutività della sentenza, critica maggiormente serrata là dove si postula tale carattere anche per sentenze di mero rigetto del ricorso, si osserva che anche la recente previsione di esecutività delle sentenze tributarie, di cui alla riforma del processo tributario operata con il d.lgs. n. 156/2015, pur assegnando alla sentenza un’efficacia esecutiva “propria”, ha dovuto prendere atto che vi sono casi – quando ad es. il ricorso è rigettato per ragioni estranee al “merito” – nei quali il titolo di cui va chiesta la sospensione non è la sentenza, ma resta pur sempre l’atto impositivo. Sia in appello, sia in pendenza del ricorso per cassazione, le norme di recente novellate (ad es. artt. 52 e 62 bis d.lgs. n. 546/1992) configurano la richiesta di provvedimento cautelare come suscettibile di essere indirizzata o verso la sentenza, o, nei casi in cui essa è avanzata dal contribuente, avverso l’atto impositivo impugnato; di cui evidentemente il legislatore stesso ipotizza la persistente efficacia, pur dopo un giudizio che lo abbia confermato attraverso la sentenza. E infine il terzo profilo: l’art. 2953 c.c. regola l’actio iudicati in presenza di sentenza di condanna, e, per quanto si possa essere legati alla sostitutività della sentenza tributaria, non sembra affatto possibile parlare di dispositivo di condanna né per la sentenza che confermi l’accertamento, né per quella che lo modifichi parzialmente13. Tanto è vero che dopo la sentenza è pur sempre necessario liquidare la maggiore imposta dovuta, ed è questo un compito spettante all’amministrazione finanziaria. Ma sembra ancor più interessante osservare che è proprio il meccanismo di trasformazione disegnato dall’art. 2953 c.c. che non sembra calzare a proposito della riscossione successiva ad avvisi di accertamento, soprattutto se e nella misura in cui vi siano norme che prevedono anche in tale fase termini decadenziali (v. supra, § 2). Ed invero, l’art. 2953 c.c. prevede la trasformazione di un termine omogeneo: la prescrizione resta tale, ma da breve diventa comunque decennale. Nel sistema dell’accertamento e della riscossione dei tributi, invece, spesso non vi è soltanto un termine prescrizionale, poiché prima dell’avvio della riscossione possono essere previsti termini decadenziali, e tale in particolare era, prima dell’accertamento esecutivo, il termine per notificare la cartella di pagamento; tale è ancora il termine per notificare il titolo esecutivo, in materia di tributi locali.
1 La prescrizione riguarda ovviamente anche i crediti tributari dei contribuenti, ma le questioni che si pongono sono ovviamente diverse rispetto a quelle concernenti i crediti delle amministrazioni finanziarie: basti pensare alla presenza, per questi ultimi, di poteri autoritativi che attribuiscono al creditore una possibilità generalizzata di ricorso ad atti di autotutela.
2 Ad es., per le accise l’art. 15 t.u. (d.lgs. 26.10.1995, n. 504), prevede la prescrizione quinquennale, salvo che per l’imposta sui tabacchi lavorati (sulla quale da ultimo Cass., 8.3.17, n. 5897). La prescrizione decennale è invece stabilita per l’imposta sulle successioni e donazioni dall’art. 41 d.lgs. 31.10.1990, n. 346 (cfr. Cass., 4.2.2015, n. 1974).
3 Nella manualistica, il tema della prescrizione non trova grande spazio, spesso non è affatto trattato: per considerazioni sistematiche di carattere generale, il riferimento è la monografia di Coppa, D., La prescrizione del credito tributario, Torino, 2005.
4 Per la prescrizione quinquennale in materia di TARSU, Cass., 23.11.2011, n. 24679. In senso negativo invece sull’applicabilità della prescrizione quinquennale, a proposito di un caso nel quale era riscosso il COSAP per occupazioni di durata inferiore all’anno e non ripetitive, quanto ad estensione ed oggetto, v. Cass., 20.5.2014, n. 11026.
5 Per alcuni profili di critica, vs. da ultimo Core, E., La prescrizione tributaria e la nozione di «periodicità», in Dir. prat. trib. 2015, II, 2940.
6 Da ultimo Cass., 7.4.2017, n. 9076 (che ribadisce un principio sancito già da Cass., S.U., 10.12.2009, 25790) nonché Cass., 8.2.2017, n. 3348, per l’applicazione dell’art. 2953 c.c anche alla riscossione delle sanzioni amministrative tributarie. V. però Cass., 10.6.2009, 13333, annotata adesivamente da chi scrive su Corr. trib. 2009, 2890.
7 In tal senso Cass., 7.3.2006, n. 4891 e Cass., 25.3.1999, n. 2822 a condizione ovviamente che la prescrizione sia sopravvenuta alla formazione del titolo esecutivo.
8 Riferito ai termini di notifica della cartella di pagamento.
9 Per tutti si veda Carinci, A., Termini di notifica della cartella di pagamento e funzioni del ruolo: perplessità applicative e dubbi sistematici in merito al nuovo art. 25 del D.P.R. n. 602/1973, in Rass. trib. 2005, 1669 ss.
10 Inoltre, potrà essere applicato un eventuale termine decadenziale, quale quello previsto dall’art. 25 d.P.R. n. 602/1973, nei limiti di applicabilità analizzati nel testo.
11 Da ultimo, Cass., S.U., 5.6.2017, n. 13913, ha ribadito che la commissione tributaria ha giurisdizione solo nel caso in cui la notifica degli atti impositivi propedeutici al pignoramento sia mancata.
12 Per una più diffusa critica, sia consentito rinviare a quanto scritto in Giudice tributario e atto impositivo, a commento di Cass., 20.11.2011, n. 21759, in Riv. trim dir. trib. 2012, 1070, e in La sentenza tributaria terzo atto di accertamento?, in GT-Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 2014, 1, 47, a commento di Cass., 28.8.2013, n. 19710; oltre che nell’impostazione complessiva di Funzione impositiva e forme di tutela, II ed., Torino, 2013. In dottrina, due studi recenti solidamente impostati hanno analizzato la questione del rapporto tra sentenza e atto impositivo, il primo nel senso della sostitutività, il secondo favorevole invece a qualificare la sentenza come di annullamento totale o parziale dell’atto impugnato: Terrusi, F., Assetto del processo tributario, funzione della sentenza e actio iudicati, in Dir. proc. trib., 2015, 59 ss. e a Porcaro, G., Il ruolo del giudice tributario nella dinamica della tutela giurisdizionale. Stato degli atti e prospettive, ivi, 2016, 207 e ss.
13 Il profilo emerge ad es. in C.T.R., Veneto, 29.2.2016., n. 318, in Rass. trib. 2017,275, con attenta nt. di Cané, D., Actio iudicati e termine per la riscossione dei tributi.