Preistoria
(XXVIII, p. 185; App. II, ii, p. 604)
Risale alla metà dell'Ottocento la formulazione del termine preistoria, intesa come studio del passato più antico dell'uomo, e la sua suddivisione, su base quasi esclusivamente tecnologica, in Paleolitico, Mesolitico, Neolitico, età del Bronzo. La p. si occupa quindi della storia dell'uomo, dalla sua origine (con gli specifici problemi antropologici legati al processo dell'ominazione) fino alla comparsa delle prime fonti scritte.
In una scansione temporale, la p. (per es. presso le soprintendenze o le cattedre universitarie) copre i momenti più antichi, dal Paleolitico all'età del Bronzo, terminando con la comparsa delle civiltà urbane nel Vicino Oriente, mentre la protostoria è interessata a culture che si svilupparono a contatto più o meno diretto con le civiltà storiche, culture anche illetterate ma citate, per es., da fonti scritte di altri popoli contemporanei (Bietti Sestieri 1996).
Nella sua fase iniziale, la ricerca paletnologica era rivolta soprattutto alla definizione di una cornice cronologica attraverso lo studio e la comparazione di sequenze stratigrafiche, all'interno delle quali i manufatti erano valutati alla stregua di 'fossili guida': le facies culturali identificate venivano poi agganciate, per una ricostruzione più completa e soprattutto per i periodi più antichi, a dati antropologici, geomorfologici e climatici.
In seguito, gli studi di p. hanno profondamente modificato l'impostazione metodologica della ricerca e ampliato il loro campo di indagine, ponendo l'accento su problemi più complessi, di taglio antropologico: l'organizzazione delle società preistoriche, i modi di occupazione di un territorio, le strategie di sussistenza, non sono che alcuni aspetti della ricerca moderna. Le nuove metodologie si riflettono anche in un diverso approccio allo scavo: alla individuazione di sequenze stratigrafiche più complete possibili, da indagare con limitati saggi, allo studio esclusivo della tipologia dei manufatti e del suo variare nel tempo, si è sostituito lo scavo estensivo, il décapage di ampie superfici, allo scopo di mettere in evidenza la relazione spaziale tra le varie strutture, di cogliere l'organizzazione interna di un gruppo, la sua struttura sociale ed economica, le sue relazioni interne ed esterne.
Già negli anni Cinquanta G. Childe aveva studiato l'aspetto metodologico della disciplina paletnologica, ponendosi il problema della contestualizzazione dei dati archeologici e della loro interpretazione storica. Aveva infatti posto l'accento su quelli che saranno poi, paradossalmente, alcuni punti focali della New Archaeology degli anni Settanta: la stretta correlazione tra antropologia e archeologia, l'esistenza di sfere di azione umana strettamente interdipendenti tra loro (per es. economia, sociologia, ideologia ecc.), l'interpretazione della cultura in ottica funzionalista.
In questo senso il suo pensiero superava le iniziali concezioni più dichiaratamente diffusioniste, che pure permeavano gran parte dei suoi studi, rifiutando nel contempo interpretazioni troppo rigidamente evoluzionistiche: le sue ricostruzioni della p. europea hanno ancor oggi, al di là delle puntualizzazioni cronologiche sopravvenute, il loro significato di lettura di dati archeologici in una cornice di grande respiro storico (Childe 1942, 1956, 1957).
In Inghilterra, in quegli stessi anni, J.G.D. Clark nei suoi studi prestava particolare attenzione ai dati economici, effettuando la lettura dei resti archeologici in chiave funzionalista: evidenziava, in un ben noto grafico, le interrelazioni tra bioma, habitat e cultura, in equilibrio costante tra loro. Un successivo, più elaborato diagramma, che illustrava graficamente una serie di aspetti interdipendenti (sussistenza, organizzazione sociale, tecnologia, guerra, religione, trasporto ecc.), preannunciava, nella sua impostazione, l'applicazione della teoria dei sistemi al concetto di cultura.
Riflesso significativo della sua impostazione metodologica è stato l'esemplare scavo di Starr Carr, nel corso del quale - in un momento in cui l'attenzione generale degli studiosi era rivolta soprattutto a problemi cronologici e di classificazione tipologica - una puntuale ricostruzione delle attività economiche del sito si basava su indagini di geomorfologia, di zoologia ecc., con sistematico interesse per gli ecofatti; impostazione di particolare attualità, che anticipava di qualche decennio le attuali strategie di indagine e di ricostruzione paleoambientale (Clark 1952, 1954).
Nello stesso periodo, negli Stati Uniti, sul filone di un'attiva scuola antropologica, J.H. Steward poneva le basi metodologiche della sua 'ecologia culturale', evidenziando le relazioni che spiegano il funzionamento dell'organismo culturale e gli stretti rapporti esistenti tra cultura e ambiente. Nella ricerca di 'leggi' o 'processi' introduceva il concetto di evoluzionismo multilineare, un continuo adattamento delle culture all'ambiente, inteso quest'ultimo sia come contesto naturale, sia come contesto sociale (Steward 1955).
Un'applicazione di questi concetti alla ricerca sul campo può essere letta nell'indagine di G.R. Willey condotta nella valle peruviana del Virú (1953), nella quale egli si avvalse di una serie di strategie per la ricostruzione di un sistema insediamentale, interpretato in chiave diacronica. In un lavoro del 1958, scritto con P. Phillips, lo studioso poneva l'accento sulla necessità di rintracciare regolarità o leggi nello studio dei processi culturali, nell'ambito di una 'interpretazione processuale' (Willey, Phillips 1958).
Altrettanto innovativa nei metodi e nei contenuti era la ricerca di R.J. Braidwood, svoltasi in Iraq negli anni Cinquanta: la sua attenzione al contesto ecologico, strettamente correlato ai gruppi umani, lo portò all'organizzazione di una ricerca multidisciplinare nella quale il tema della progressiva domesticazione veniva affrontato sotto diverse angolazioni: nella sua équipe i numerosi specialisti, quali geomorfologi, palinologi, paleoclimatologi, paleobotanici e archeozoologi integrarono i dati archeologici, ricostruendo il sistema ambientale (e sociale) di un'intera regione, in una prospettiva diacronica (Braidwood, Willey 1962). È di quegli stessi anni la 'rivoluzione del radiocarbonio'. Uno studioso americano, W.F. Libby, aveva messo a punto il metodo di datazione assoluta, applicabile a resti organici, basato sul tempo di decadimento dell'isotopo radioattivo del ¹⁴C, utilizzabile per un arco temporale compreso tra i 50.000 e i 1000 anni da oggi. Parallelamente, in tempi diversi, nuovi metodi di datazione assoluta venivano utilizzati, quali quello del potassio-argon, dell'archeomagnetismo, della racemizzazione degli aminoacidi, che integravano le possibilità del radiocarbonio, permettendo la collocazione cronologica di momenti diversi della preistoria. Le nuove puntualizzazioni temporali ottenute, che divenivano sempre più numerose con l'aumento costante dei laboratori specialistici, rimodellavano in modo decisivo la cornice cronologica costruita sulla base dei confronti tipologici, portando a rivedere anche le basi di un approccio metodologico di stampo prevalentemente diffusionista.
Negli anni Sessanta si giungeva poi a una correzione delle date già esistenti ('seconda rivoluzione del radiocarbonio') grazie a una più precisa seriazione, effettuata con la dendrocronologia: questa correzione, o curva di calibrazione, si riferiva a un periodo compreso tra i 4000 e i 1500 anni a.C. (fig. 1).
A questo proposito, C. Renfrew (1979) parlava di una 'faglia' cronologica nel Mediterraneo che, attraversando Grecia e Balcani meridionali, interrompeva un ipotetico processo di trasmissione culturale in direzione Est-Ovest (fig. 2). Contro i principi diffusionisti, per i quali l'unicità delle invenzioni trovava la sua ideale collocazione in Oriente, trasmettendosi poi nel resto dell'Europa e nel bacino del Mediterraneo, Renfrew, in base alle nuove datazioni, evidenziava fenomeni opposti: il manifestarsi del megalitismo occidentale, per es., visto fino ad allora come derivante da influenze egee, si collocava invece, in termini di cronologia assoluta, in un momento coevo se non, in alcuni casi, antecedente ai supposti prototipi orientali. In quegli anni, lo sviluppo delle tecniche di indagine scientifica portò a una loro applicazione sempre più intensiva in campo archeologico. Se ne avvantaggiava la ricerca sul terreno, potenziata dall'uso di ricognizioni aeree mirate, da telerilevamenti ad alta quota, da prospezioni elettromagnetiche per l'individuazione di anomalie nel sottosuolo. Nuove prospettive si aprivano inoltre, grazie all'uso di sofisticate apparecchiature di laboratorio, nell'analisi tecnologica dei manufatti e dei loro componenti, nello studio delle materie prime e delle aree di approvvigionamento e di distribuzione. Risale allo stesso periodo l'insoddisfazione sui modi di approccio ai problemi archeologici, sui procedimenti logici utilizzati nell'interpretazione culturale, sulla scarsa attenzione allo studio dei processi e alla comprensione dei cambiamenti culturali: non sembravano più sufficienti, in una consapevole crescita della disciplina, la catalogazione dei manufatti e l'accumulo di dati in nome di una futura, mai realizzabile, sintesi.
Da varie premesse metodologiche, da una sintesi di filoni di ricerca in parte preesistenti è nata, a partire dagli anni Sessanta negli Stati Uniti d'America, la New Archaeology, espressione di una fase di ripensamento e di meditazione di una parte della comunità scientifica, alla ricerca di un nuovo, comune paradigma, in un momento in cui le altre discipline, soprattutto quelle naturalistiche e matematiche, rivoluzionavano le loro impostazioni metodologiche.
Questa scuola di pensiero ha avuto, nella sua formazione e nei suoi esiti, numerose varianti. Alcune premesse di principio e alcune applicazioni pratiche la caratterizzano però in modo inequivocabile: l'attenzione ai processi di evoluzione culturale, l'adozione del procedimento ipotetico-deduttivo (con conseguente e indispensabile esplicitazione degli intenti, delle strategie applicate per raggiungerli, delle verifiche effettuate), una concezione della società vista come sistema, composta da elementi - individuabili e quantificabili - che interagiscono tra loro secondo 'leggi' prevedibili (e quindi la diffusa utilizzazione della teoria dei sistemi di L. von Bertalanffy, con i suoi concetti di homeostasys, feedback, input, output); la costruzione di modelli, visti come rappresentazione semplificata del sistema, mutuati dall'etnografia, dalla geografia, dall'informatica, dalla fisica ecc. (Models in archaeology, 1972). La fiducia nelle possibilità di quantificare le variabili considerate e l'elaborazione computerizzata di una grande quantità di dati, con l'utilizzazione, per es., dei test di significatività o di predittività, porta alla formulazione di ipotesi verificabili, con il superamento della fase semplicemente descrittiva. La ricerca sul campo si trasforma, rivolgendo un'attenzione sempre maggiore ai problemi di interpretazione antropologica, con indagini che mirano alla verifica del modello proposto: si moltiplicano così gli studi sulla distribuzione spaziale dei manufatti per individuare, tra l'altro, zone legate a specifiche attività (aree di abitazione, di cottura, di lavoro, di scarico; fig. 3). Ne deriva, nella prassi, l'abitudine allo scavo di grandi aree, che permettano di cogliere situazioni di rapporti spaziali sincronici. Sempre più frequenti diventano le ricerche organizzate a livello regionale, sia per comprendere le scelte insediamentali dei gruppi preistorici mediante lo studio della dislocazione dei siti, sia per coglierne i rapporti di carattere sociale ed eventualmente gerarchico (con l'applicazione di modelli quali quello del 'vicino più prossimo', o del 'central place' o dei 'poligoni di Thiessen'): si elaborano di conseguenza tecniche programmate di indagine superficiale (survey), con strategie di campionamento variamente formalizzate.
Il rappresentante più significativo di questa corrente è L.R. Binford che, negli anni Sessanta e Settanta, pubblicava una serie di lavori considerati il manifesto della nuova corrente di pensiero, da Archaeology as anthropology (1962) a New perspectives in archaeology (1968); ma studiosi, tra i quali F.T. Plog, K.V. Flannery, P.J. Watson, W.A. Longacre, C.L. Redman, K.Ch. Chang e molti altri, sviluppavano e applicavano, in vari modi, i nuovi sistemi di indagine.
In Inghilterra, agli inizi degli anni Settanta, sulla scia degli studi di Clark, si veniva formando la scuola di Palaeoeconomy, rappresentata da studiosi quali E. Higgs, C. Vita Finzi e dai loro allievi, fortemente polemici nei confronti della New Archaeology. I volumi Papers in economic prehistory (1972) e Palaeoeconomy (1975), entrambi a cura di Higgs, si ponevano come una precisa dichiarazione di intenti, sostenuta da un ben definito programma di indagine: in questi studi le variabili considerate erano sussistenza e tecnologia, interrelate con l'ambiente, inteso come area limitata, sfruttata da un determinato gruppo. La dimensione del territorio utilizzato dai gruppi preistorici obbedirà al principio della massima resa con il minimo dispendio energetico: la sua ampiezza, quindi, potrà essere predeterminata sulla base di un modello geografico consistente nella rappresentazione di cerchi di diametro diverso intorno al sito (raggio corrispondente a un'ora di cammino per gruppi agricoli, stabili, e a due ore di cammino per gruppi di cacciatori-raccoglitori, mobili). Molto criticata per la rigidità delle sue impostazioni, questa scuola ha avuto nondimeno il merito indiscusso di focalizzare l'attenzione del ricercatore sull'area economica del sito, sulle sue caratteristiche geopedologiche, su dati quindi non esclusivamente archeologici. In conseguenza di ciò, sono state messe in atto e formalizzate strategie di ricerca volte alla comprensione sistematica dei dati fisiogeografici e naturalistici (basti ricordare l'uso della macchina per flottazione, utilizzata per il recupero di tutti i resti botanici carbonizzati presenti sullo scavo).
Assai significativi nell'ambito della p. europea e mediterranea sono gli studi di Renfrew, felice applicazione dei principi dell'archeologia processuale con particolare attenzione agli aspetti cognitivi dell'attività umana. Il suo interesse per l'analisi e la spiegazione del cambiamento culturale poggia sullo studio dell'interazione tra sottosistemi e dei meccanismi che mantengono (o meno) l'equilibrio interno. Applicazioni a concreti problemi archeologici sono rappresentate, per es., dall'analisi dello sviluppo delle società egee e della loro trasformazione nelle 'civiltà' del 3° millennio (Renfrew 1972), o dall'interpretazione funzionale-processuale dei megaliti europei, visti come marcatori territoriali di società segmentarie, che rafforzano cioè la coesione interna con la costruzione di imponenti lavori collettivi (Renfrew 1973).
Al di là dello sviluppo di numerose 'archeologie', che hanno come oggetto campi specifici della ricerca, sui quali focalizzare problemi e strategie di indagine, quali l'archeologia sociale, demografica, spaziale ecc. - divisioni di comodo di un'unica, complessa disciplina - un approccio scientifico specialistico e ricco di potenziali sviluppi è quello rappresentato dall'etnoarcheologia (v. in questa Appendice), intesa come metodologia articolata da applicare alla ricostruzione di società scomparse, tramite lo studio di modelli viventi.
Sul filone dell'approccio materialistico già presente in Childe, la scuola marxista, attiva soprattutto in Francia (M. Godelier, C. Meillassoux) e in Inghilterra (M. Rowlands, M. Spriggs, B. Bender), pone l'attenzione sui rapporti di produzione, sui fattori di evoluzione sociale, attraverso lo studio degli indicatori materiali rappresentati dai dati archeologici, e sugli aspetti ideologici, considerati parte integrante della struttura sociale (Marxist perspectives, 1984). Questi studi sottolineano il carattere dinamico delle strutture socioeconomiche, secondo un processo di trasformazione che ha, alla base, le modificazioni dei rapporti sociali di produzione.
Come reazione al 'funzionalismo ecologico' e all'applicazione in archeologia della teoria dei sistemi, a favore di un'archeologia 'contestuale', che dedichi maggiore spazio agli aspetti ideologici del comportamento umano, si pone l'archeologia simbolica o post-processuale: dichiarando che la cultura materiale ha un ruolo attivo nella storia dell'uomo, studiosi quali I. Hodder, C. Tilley e M. Shanks sostengono la possibilità di risalire dal manufatto agli individui che l'hanno prodotto, reintroducendo la dimensione simbolica nello studio del materiale archeologico. Strumento di indagine privilegiato è lo studio etnografico, attraverso cui far emergere la struttura dei significati che sottendono i rapporti tra cultura materiale e società: in contrasto con il pensiero della scuola processuale, la cultura viene considerata nel suo contesto, individuando i simboli che permeano di sé le scelte sociali (The present past, 1982; Hodder 1982 e 1985); come per lo strutturalismo, l'individuo è al centro del proprio mondo, è esso stesso struttura; ogni cultura viene a essere caratterizzata come prodotto storico, al di là di ogni generalizzazione.
La ricerca sul campo
La maggiore consapevolezza delle premesse teoriche ha profondamente influenzato i modi di effettuare la ricerca: l'attenzione alla ricostruzione ambientale, ai rapporti di un sito con il suo ambiente, o di un sito con quelli vicini, ha orientato l'indagine in ambiti regionali, nei quali l'oggetto di studio diventa un'unità omogenea dal punto di vista fisiogeografico.
L'indagine di superficie, vista come premessa o addirittura come alternativa allo scavo, caratterizza anche progetti finalizzati di censimento e tutela, in previsione, per es., di sistematiche espansioni urbanistiche: si pensi all'intervento della Soprintendenza archeologica sul territorio di Roma (Preistoria e protostoria, 1984) o alle ricognizioni sistematiche effettuate nel Lazio e in Campania in occasione della costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità.
Gli strumenti di indagine preliminare sono oggi molto complessi, a partire dalla lettura della cartografia, delle foto aeree o da satellite, fino ai sistemi magnetici, all'applicazione del georadar, alla prospezione elettrica basata sulla differenza di resistività del terreno, ai sistemi informatici di gestione di dati geografici e territoriali di diversa tipologia (v. GIS, in questa Appendice). Indispensabile è, quindi, anche ai fini dell'elaborazione di un modello di previsione, l'uso di un apparato cartografico appropriato, comprendente carte topografiche, pedologiche, geologiche, ma anche la raccolta di una cartografia 'storica' che evidenzi, per es., l'uso particolare del territorio nel tempo o il carattere delle modifiche ambientali, drastiche solo negli ultimi decenni.
Poiché l'indagine di superficie deve fornire anche dati naturalistici e non solo archeologici, l'interdisciplinarità della ricerca vede in questa fase il coinvolgimento di vari specialisti, in particolare geologi, geomorfologi, sedimentologi, la cui collaborazione renderà possibile l'elaborazione di carte di previsione sulla visibilità dei resti archeologici (perduti, per es., in caso di forte erosione o di imponenti depositi alluvionali), la ricostruzione dell'antico paesaggio, spesso assai differente dall'attuale (modificazione della linea di riva, con l'ingressione o la regressione marina anche di decine di chilometri, differenti percorsi, nel tempo, di un fiume, meandri tagliati, alvei abbandonati, foci dislocate diversamente ecc.), nonché una migliore comprensione delle strategie e delle scelte insediamentali dei gruppi preistorici.
A partire soprattutto dagli anni Settanta, le strategie di ricognizione sono state alla base di approfonditi studi e dibattiti (valgano per tutti Field techniques and research design, 1978, e Archaeological survey in the Mediterranean area, 1982, entrambi con ricca bibliografia sull'argomento): sono stati oggetto di discussione l'estensione del territorio ricognito, le sue caratteristiche, i modi e le unità del campionamento, sistematico o no. La stessa definizione di 'sito', visto come parte di un complesso sistema ambientale e territoriale, è stata alla base di accesi dibattiti volti soprattutto a definirne la consistenza (in base a parametri numerici), nell'ambito di una survey; oggetto di attenzione sono stati anche i problemi concernenti la visibilità dei reperti affioranti e la loro 'mobilità' nel terreno a seconda delle condizioni agricole o atmosferiche (per es. visibilità ottimale in terreni arati, dopo la pioggia).
Lo scavo programmato, condotto in estensione, momento significativo della ricerca, si avvale di una serie di strategie finalizzate sia al recupero ottimale dei manufatti, sia alla comprensione, più ampia e articolata possibile, degli ecofatti. Così, accanto a tecniche di indagine e di rilevamento che tengano conto della distribuzione spaziale di tutti gli oggetti rinvenuti (ceramica, selce, bronzi, ossa umane e resti faunistici) si considereranno, con altrettanta attenzione, le sequenze stratigrafiche e i problemi di formazione dello strato antropico, con l'aiuto di geomorfologi e sedimentologi. Risultati di notevole importanza sono ottenibili grazie al prelievo sistematico e allo studio dei resti umani, faunistici e vegetali (v. archeologia: Bioarcheologia, in questa Appendice); inoltre, numerose analisi possono essere effettuate sui manufatti e sulle materie prime utilizzate dall'uomo, ampliando le nostre conoscenze sulle capacità tecnologiche e sulle 'catene operative' dei gruppi più antichi.
Lo studio della composizione dei manufatti può avvenire secondo analisi principalmente di tipo chimico, che variano a seconda del tipo di materiale da esaminare e che permettono, con modalità e costi diversi, di individuare le componenti di numerosi oggetti (selce, metalli, ceramica ecc.). In stretto rapporto con l'indagine sulla provenienza delle materie prime e sulla loro distribuzione geografica sono le considerazioni sulla conoscenza e sull'utilizzazione delle risorse locali, sui percorsi e meccanismi di reperimento e scambio.
Nello studio della ceramica, le sezioni sottili dei manufatti si possono analizzare con microscopia a luce polarizzata, per individuare i componenti naturali dell'argilla e gli sgrassanti usati (tritumi di conchiglie, sabbia, quarzo ecc.): i risultati, unitamente ad analisi mineralogiche e chimiche, permettono di individuare fonti di approvvigionamento dell'argilla, di distinguere fabbriche locali da quelle d'importazione, di formulare ipotesi sulla funzione e sulla destinazione dei recipienti, di comprendere i modi di fabbricazione e di cottura. Indagini altrettanto interessanti possono essere condotte sulle tracce d'uso individuabili sugli strumenti litici: basate sull'osservazione al microscopio e sulla sperimentazione (con l'allestimento di collezioni di confronto), queste analisi individuano microvariazioni morfologiche prodotte sul margine a seguito di azioni diverse (tagliare, incidere, scuoiare ecc.) su materiali di vario genere (legno, ossa, pelle, carne ecc.), indicando l'utilizzazione effettiva dello strumento e la sua reale funzione. Le analisi sui materiali di metallo (metallografiche, fluorescenti a raggi X, spettrografiche, ad attivazione neutronica ecc.) permettono di cogliere i processi di fabbricazione e sfruttamento delle materie prime: l'estrazione del rame da ossidi e carbonati, la sua lavorazione a freddo o a caldo, i componenti in percentuale nelle leghe di bronzo, le temperature di fusione, l'uso di matrici e così via. Da qui la possibilità di individuare particolari officine e aree di diffusione degli strumenti metallici.
Anche questi studi, sempre più ampi e articolati, costituiscono un percorso ulteriore per la conoscenza approfondita dei manufatti e per una loro lettura non esclusivamente tipologica, contribuendo così alla comprensione di tecnologie differenziate e quindi ricostruendo, ancora una volta, azioni e comportamenti umani.
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