preghiera (preghera; pregheria; preghero, in rima)
Sostantivo non molto frequente, quasi sempre costruito con ‛ fare '. Nel Fiore ricorre per lo più la forma ‛ preghera ' (anche ‛ pregher '), e ‛ pregheria '.
Il termine è usato solitamente nel senso di " richiesta ", fatta con cortesia e calore.
Cfr. Vn XII 13 31 falle umil preghero / ... che mi comandi... ch'eo moia; Rime dubbie II 14 ti fo dolce preghiera (e cfr. Fiore CXXXIX 3); Cv II VI 6 la preghiera fatta de l'audienza, dagli ascoltatori, o meglio i lettori; If XXVI 70 La tua preghiera è degna / di molta loda; Fiore XIV 5 Pregher ti fo che ti sia piacimento ...; LXXVII 1 non mi valse nessuna preghera / ched i' verso Ricchezza far potesse (e cfr. XIV 14 e XV 8).
La " richiesta " è indirizzata alla divinità in Pg XI 22 Quest'ultima preghiera, segnor caro, / già non si fa per noi... / ma...; analogamente in Fiore CXXIX 4 con un saltero in man facea preghera, " orazione ".
Anche la forma ‛ pregheria ' è spesso costruita con ‛ fare ': i' stava in far mia pregheria / a quel fello, XIII 1; faccia a Bellaccoglienza pregheria / di lui, XV 13; CLXXII 9 (ancora in rima); LXXXIII 8 al castel non darebbe, già danno / per pregheria, né per comandamento. V. anche PREGO.
La preghiera religiosa in Dante. - Le p. in D. si limitano alla sola Commedia. Sulla via dell'anima che si libera dal peccato e tende, attraverso la purificazione, alla visione di Dio, la p. è uno dei mezzi più efficaci. Mentre nel regno senza speranza la p. affiora appena qua e là, le due altre cantiche sono tutte pervase dallo spirito della p., soprattutto il Purgatorio, dove le anime, nell'ansia di diventare più degne dell'ascesa verso Dio, pregano quasi senza tregua. Creano un'intensa atmosfera di p. gl'incipit dei salmi e inni sparsi per la cantica come un ricamo latino sulla veste. italiana del poema (elencati in A. Vallone, Studi su D. medievale, pp. 90 ss.).
Se guardiamo alle p. che appaiono in forma compiuta nella Commedia, si presenta subito il problema della delimitazione. Definiamo la p. come invocazione indirizzata a un essere superiore riverito religiosamente. Il criterio di distinzione per noi decisivo è quello dell'unità del linguaggio della preghiera. Intendiamo per questo non tanto le formule liturgiche tradizionali che si trovano in una parte delle p. soltanto, quanto la struttura compositiva sempre analoga nei brani che consideriamo preghiere.
Importa sottolineare quanto questa struttura si rifaccia ai modelli di p. della tradizione greco-latina. Si dovrebbe esaminare la storia della struttura della p. in poesia, dalla latinità classica attraverso il Medioevo latino fino a quello romanzo, per vedere fino a che punto questa somiglianza sia dovuta all'influsso diretto dei classici su D., quanta parte invece gliene sia pervenuta attraverso la tradizione medievale. Ma nel campo della poesia religiosa dello stesso Medioevo, occorre distinguere tra componimenti in metri classici e stile classicheggiante da una parte e poesia ritmica di carattere puramente medievale dall'altra. D., se assume spesso formule e immagini care alla poesia ritmica, si rivela però, per quanto riguarda struttura e sintassi della p., più vicino all'altra corrente. Ma il suo classicismo, se così si vuol chiamare, non consiste in un'imitazione estrinseca di forma, bensì in un alto senso di armonia e di equilibrio.
I. Preghiere in senso proprio, rivolte a entità sacrali cristiane.
Il Paternoster (Pg XI 1-24). - Nel Paternoster recitato dai superbi, i versetti della p. evangelica vengono ampliati e collegati tra di loro, secondo una tecnica diffusa nel Medioevo latino e romanzo, da brevi perifrasi e aggiunte (cfr. l'inno Deus qui caeli lumen es, str. 7-10, Analecta hymnica 51, p. 8). Il Paternoster è uno degli esempi più illustrativi per la forza sintetica con cui D. fonde gli elementi tradizionali della lingua liturgica, immagini scritturali e concetti assunti dalla Summa theol. di Tommaso in un linguaggio caratterizzato da forte concentrazione fantastica e originale veste formale.
La preghiera di s. Bernardo (Pd XXXIII 1-39). - Vi si nota la stessa assimilazione creativa. La prima terzina con le sue antitesi, secondo moduli tipici della letteratura mistica, sta tutta nella tradizione: il paradosso di Maria vergine e madre veniva variato, soprattutto nel simbolismo mariano fiorente nel sec. XII, in un'infinità di espressioni poetiche desunte spesso dalla Bibbia. Per figlia del tuo figlio cfr. " mater patris et nati filia " (John of Howdon, Philomela, v. 4), per umile e alta più che creatura, " o mira creatura, tam magna, tam pusilla " (id., Lira, vv. 1-2). Molte delle immagini della p. dantesca sono prefigurate in un inno di Pier Damiano: cfr. " Parentem peperisti, / fit factor ex factura, / creans ex creatura " (Analecta hymnica 48, p. 52, str. 3), " Tu fontis fons viventis " (str. 17); frequenti e particolarmente significativi sono gli echi di passi di s. Bernardo, soprattutto del sermone sulla natività di Maria Vergine (cfr. il commento del Fallani).
All'assimilazione di formule e immagini medievali si aggiunge, non meno importante, quella di forme stilistiche provenienti dall'antichità classica. La p. è divisa nettamente in due parti.
La prima (vv. 1-21) è innica, composta dall'apostrofe e da una serie di formule predicative armoniosamente strutturate. Il susseguirsi di predicati evocanti i caratteri essenziali della divinità (vv. 1-3), di predicati riferentisi alla sua vita e ai suoi fatti (vv. 4-9), poi di una terzina che riassume il particolare significato che la divinità ha per il credente (vv. 10-12), infine di una serie di predicati celebranti la potenza e la bontà divina (vv. 13-18), dove, accanto alla consueta fonte bernardina, sono da ricordare reminiscenze tomistiche. Tutto ciò riproduce uno schema ben noto nella poesia innica greco-latina (cfr. E. Norden, Agnostos Theos, Darmstadt 1956, [4] 143 ss.), e infatti, se si guarda alla struttura sintattica, la p. alla Vergine, pur così ricca di echi scritturali, patristici e devozionali cristiani, è più vicina a un brano di poesia sacrale classica che non agl'inni medievali o alla p. della tradizione romanza, dove le formule predicative per lo più vengono elencate in modo schematico e monotono.
Il ringraziamento di D. a Beatrice (Pd XXXI 79-90). - Risaltano chiare le forme sintattiche proprie del linguaggio della p.: l'apostrofe è ampliata da due frasi predicative in forma relativa; la prima esprime quello che Beatrice significa per D., la seconda quello che ha operato per lui (per questo procedimento sintattico nell'antichità cfr. Norden, op. cit., pp. 168 ss.; nel Medioevo H. Rheinfelder, Zum Stil der lateinische Orationen, in " Jahrbuch für Liturgiewissenschaft " XI [1933] 20 ss.). Seguono due terzine di eulogia (vv. 82-87). La supplica si concentra in un solo verso: La tua magnificenza in me custodi (v. 68); viene completata da una subordinata oscillante tra valore finale e consecutivo, esprimente l'effetto che il credente spera di ottenere con la sua supplica. S'intreccia in tutta la p. un'anafora del tu, ora in forma di aggettivo possessivo (vv. 83 e 88), ora, con maggiore rilievo, in quella del pronome personale (vv. 85 e 90; cfr. Auerbach, citato in bibl., pp. 5 ss.; Norden, op. cit., pp. 149 ss.).
Altre p. di questo tipo, contenenti anch'esse apostrofe, frase predicativa e supplica (più eventuali aggiunte), sono: Pg VI 118-123; Pd XVIII 115-126; XIX 22-33; XXXIII 67-75. Interessante per la sintesi classico-cristiana è l'invocazione di Dio alla fine dell'invettiva Ahi serva Italia (Pg VI 118 ss.), dove D. apostrofa Dio con la formula pagana sommo Giove, trasponendola però subito nell'ambito cristiano per mezzo della frase predicativa che fosti in terra per noi crucifisso. Segue, al posto della supplica, una domanda in tono quasi di rimprovero, elemento frequente nelle p. pagane (cfr. Virg. Georg. IV 322-325; Aen. I 231 e 253). Di nuovo D. si affretta ad aggiungere un correttivo in forma di seconda domanda, ispirata da umiltà cristiana e fiducia nella giustizia di Dio. In un'atmosfera simile, sempre di giusto sdegno che tende a sfogarsi nell'invettiva, si colloca la p. di D. nel cielo di Giove (Pd XVIII 115-126).
II. Suppliche in forma di preghiera, rivolte a un essere superiore non necessariamente partecipe di divinità.
Definire p. queste suppliche potrebbe sembrare improprio in alcuni casi, come If XIII 139-142, XXVI 79-84, 112-120, XXXI 115-129, Pg XXVI 145-147, Pd XV 85-87. Appaiono invece legate strettamente alla p. in senso proprio sia per la presenza di molteplici elementi formali, tipici del linguaggio della p., sia (almeno là dove l'apostrofato è un santo o un personaggio di grande autorità) per lo spirito di riverenza che anima la supplica. Un caso limite di p.-supplica rivolta da uomo a uomo è Pd XXIV 1-9, dove Beatrice prega i beati di accontentare il desiderio di conoscenza di Dante. L'immediata presenza delle persone invocate avvicina il discorso a un colloquio umano. Ma la situazione è particolare: in queste sfere sparisce e cede il posto all'incontro immediato e reale degl'interlocutori quella distanza che ‛ giù nel mondo ' separerebbe chi prega dalla potenza invocata, e che costituisce un tipico elemento del rapporto tra essere terreno ed entità superiore, che caratterizza la preghiera. Ma oltre la tipicità della situazione, la struttura del brano è innegabilmente quella della preghiera.
Gli esempi citati sopra invece appartengono al genere della p. più per la struttura che non per la situazione. Tuttavia, vi si può stabilire una graduazione di riverenza nel parlante e di autorità nel supplicato, dalla supplica rivolta da Virgilio ad Anteo (If XXXI 115-129) a quella di Virgilio a Ulisse e Diomede (If XXVI 79-84), di Arnaldo Daniello a D. (Pg XXVI 145-147), di D. a Virgilio (If I 82-90, VIII 97-100, XI 91-93), di D. ad Adamo (Pd XXVI 91-96), a Pier Damiano (XXI 52-60). Se si ammette la stretta somiglianza di questi brani con la p., bisogna concedere pure che lo spirito della p. pervade tutte le cantiche, anche l'Inferno. Anzi è proprio nell'Inferno che la forma in esame ricorre più spesso, quasi un preannuncio della futura libertà della p. nel Purgatorio e nel Paradiso, negata al regno dei dannati.
III. Invocazioni rivolte a entità sacrali cristiane.
Preghiere in nuce. - Due di queste invocazioni sono quasi p. in nuce: esse contengono, dopo un'apostrofe amplificata da una frase predicativa, una supplica: O isplendor di Dio, per cu' io vidi / l'alto trïunfo del regno verace, / dammi virtù a dir com'ïo il vidi (Pd XXX 97-99; cfr. XXIV 58-60, molto simile, ma in forma indiretta).
Invocazione seguita da un'interrogazione. Nel caso di Ugo Capeto, l'interrogazione è piena d'inquietudine (che rammenta quella di Pg VI 120): 0 Segnor mio, quando sarò io lieto / a veder la vendetta che, nascosa, / fa dolce l'ira tua nel tuo secreto? (XX 94-96). È animata da un religioso stupore l'esclamazione del pellegrino in Pd XXXI 107-108 Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, / or fu sì fatta la sembianza vostra?
Esclamazione ammirativa. - Caratteristico di questo tipo è l'esclamativo ‛ quanto ' che introduce una frase predicativa di tipo ammirativo. L'esempio che più sa di stile innico (altri esempi sono If XIV 16-18, Pd XX 13-15) è in If XIX 10-12 0 somma sapïenza, quanta è l'arte / che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, / e quanto giusto tua virtù comparte! Piuttosto un espediente per rendere più viva la narrazione è l'invocazione intercalata di Pd I 74 amor che 'l ciel governi; sono invece degl'inni in nuce due p. senza supplica, composta soltanto dall'apostrofe e da una frase predicativa: " Benedetto sia tu ", fu, " trino e uno, / che nel mio seme se' tanto cortese! " (Pd XV 47-48); così anche Pg XX 19-24 " Dolce Maria! " / ... " Povera fosti tanto, / quanto veder si può per quello ospizio / dove sponesti il tuo portato santo ".
IV. Preghiere o invocazioni indirizzate a divinità pagane o astrali.
D. invoca le Muse in If II 7-9, XXXII 10-12, Pg I 7-12, XXIX 37-42, Pd XVIII 82-87. La maggiore frequenza di reminiscenze classiche in questi casi non deve meravigliare. Il procedimento sintattico di Pg XXIX 37-39 0 sacrosante Vergini, se fami, / freddi o vigilie mai per voi soffersi, / cagion mi sprona ch'io mercé vi chiami, una condizionale che rammenta alla divinità i meriti che il supplice crede poter far valere in proprio favore, è ben diffuso nella p. latina classica (cfr. anche If XXVI 81-82 con Virg. Aen. II 690, V 692 e XII 779). Ricordiamo qui anche la p. che Virgilio, nel XIII del Purgatorio (vv. 16-21), rivolge al sole, dato che molto probabilmente il sole simboleggia qui la ragione naturale; vi si può paragonare, per lo spirito e per i mezzi espressivi, l'invocazione ai Gemelli (Pd XXII 112-123). Nell'invocazione di Apollo nel c. I del Paradiso sono numerosi i richiami a luoghi di opere classiche: cfr. v. 13 con Virg. Buc. X 1; vv. 20-21 con Ovid. Met. VI 387-388; v. 29 con Stazio Ach. I 15-16. Ricordano il linguaggio sacrale latino buono (v. 13) come epiteto di un dio, la supplica che richiede l'epifania della divinità (v. 19), il parentetico padre (v. 28). Infine, il procedimento compositivo che intreccia considerazioni del poeta nell'andamento libero della p. fa pensare allo stile dei proemi virgiliani di colorito sacrale e a certi carmi oraziani.
Bibl. - E. Auerbach, D.'s Prayer to the Virgin and Earlier Eulogies, in " Romance Philology " III (1949-50) 3-26; G. Fallani, Poesia e teologia nella D.C., Milano 1961; A. Vallone, La critica dantesca nel '700 ed altri saggi danteschi, Firenze 1961, 83 ss.; ID., Studi su D. medievale, ibid. 1965 (spec. La p., pp. 83-109); H. Rheinfelder, D. als Beter, in Serta Romanica. Festschrift... Rohlfs, Tubinga 1968, 219 ss.