PREFETTI
(Prefetti di Vico; Petrus Bonifatii de Vico prefectus). – Figlio di Bonifacio, discendente di Tebaldo, fu il primo esponente del suo casato a essere riconosciuto specificatamente e congiuntamente come prefetto di Roma e signore del castello di Vico (a differenza di un omonimo parente, che si era fregiato del solo titolo di prefetto prima di lui, e che agisce frequentemente insieme con il nostro).
È ricordato per la prima volta in due lettere di Innocenzo IV: nella prima, del 31 marzo 1248, il papa assicurava al prefetto Pietro, a Pietro di Bonifacio, signore di Vico, e agli altri Prefectani il riconoscimento per i danni subiti ai castelli di Blera e Vico, provocati dalle milizie di Federico II (Les registres d’Innocent IV, 1884-1921, n. 3852, p. 583); nella seconda, del 30 aprile, invitava gli stessi personaggi a ricondurre sotto l’autorità della Chiesa di Roma gli abitanti dei due castelli citati, perché ribellatisi dietro istigazione dei capitani di Federico II (ibid., n. 3849, p. 583).
Sul finire degli anni Quaranta, i due parenti, Prefetti e l’omonimo Pietro prefetto, svilupparono un’incisiva politica di affermazione signorile. Il tentativo di acquisire il castello di Marta (presso il lago di Bolsena) incontrò l’opposizione dei signori di Bisenzio e fallì: il papa (che inizialmente aveva favorito i Prefetti per risarcirli dei danni subiti da parte dell’esercito imperiale) ne acquisì il controllo. Ebbe successo invece l’acquisizione del castello di San Giovenale, riconosciuto ai Prefetti dal Comune di Viterbo il 5 luglio 1262, ma soltanto per vitalizio. Ulteriori obiettivi furono i castelli di Martignano, Stracciacappe e Trevignano con i rispettivi territori, usurpati agli eredi del romano Zaro Curtabraca.
Negli anni successivi la figura di Prefetti restò in subordine rispetto a quella del parente omonimo, esponente di primo piano del partito ghibellino nel Patrimonio, che aveva appoggiato il senatore di Roma Brancaleone degli Andalò e il cardinale Ottaviano Ubaldini contro Firenze, e sarebbe stato podestà di Narni dal dicembre 1258. Alla morte senza eredi di costui (fine 1262 - inizi 1263), Prefetti si oppose all’intenzione di rimettere a papa Urbano IV il titolo di prefetto e i castelli di Blera e Civitavecchia, mantenendo l’uno e gli altri; di lì a poco ruppe definitivamente con il papa schierandosi con Manfredi (che gli inviò prontamente, nel marzo del 1264, seicento cavalieri). Il papa reagì duramente ordinando al suo vicario a Roma, il vescovo di Betlemme, di bandire una crociata contro il prefetto ribelle, che fu scomunicato, con il divieto ovviamente di fregiarsi del titolo e della dignità prefettizia.
Prefetti abbandonò pertanto Roma, con altri nobili romani: fu guerra aperta, iniziata con il tentativo di conquistare Sutri (maggio 1264). Incontrò, tuttavia, la reazione degli abitanti di Sutri e del conte Pandolfo dell’Anguillara, suo acerrimo nemico, e fu a sua volta assediato per un paio di mesi nel castello di Vico. Maggiori successi conseguì nei mesi successivi, conquistando Tuscania (sguarnita di cavalieri) e poi ritirandosi a Blera. In data imprecisata, inoltre, riuscì a sconfiggere l’esercito che Pandolfo dell’Anguillara, assieme al rettore del Patrimonio, Pippione di Pietrasanta, aveva radunato a Vetralla, nonché a catturare l’Anguillara e a conquistare anche Bisenzio, inducendo Urbano IV a spostarsi da Orvieto a Perugia (ma il 2 ottobre a Deruta, durante il trasferimento, il papa morì).
Dopo l’elezione di Clemente IV, Prefetti (o il suo quasi omonimo Pietro Romani) forse comandò l’esercito di re Manfredi, costituito da 1000 cavalieri e 500 balestrieri, nell’attacco contro Roma (30 marzo 1265), ma fu sconfitto durante la battaglia svoltasi alle pendici del Gianicolo e perse un figlio, affogato nel Tevere durante i combattimenti. Le fasi successive della guerra portarono Prefetti dapprima in Sabina per tagliare le comunicazioni tra Roma e Perugia (dove allora risiedeva il papa e la Curia), poi a Civitavecchia nel tentativo di arrestare Carlo d’Angiò. Il 23 maggio 1265 Carlo entrò in Roma, e Prefetti fu tra coloro che opportunisticamente si riposizionarono, abbandonando l’esercito di Manfredi. L’ovvia diffidenza di Clemente IV obbligò Prefetti a prestare giuramento di fedeltà, a consegnare uno dei suoi castelli più importanti (Blera o Vico) nonché a liberare Pandolfo dell’Anguillara. La riconciliazione fu duratura: il papa concesse al prefetto Civitavecchia e Blera (confermati due anni dopo, il 29 marzo 1267), e a Benevento Prefetti combatté nelle fila angioine.
Risale a questi anni, probabilmente, la coniazione di monete da parte di Prefetti, resa ancora più eccezionale dal fatto che la sua effigie – a prova di una chiara ostentazione di autonomia politica – figura sui denari (1265-67).
Le speranze dei ghibellini italiani per una rivincita erano riposte nell’intervento dell’ultimo Hohenstaufen, il giovane Corradino. La disponibilità di quest’ultimo rianimò il depresso schieramento imperiale e Pietro (mutando ancora una volta schieramento) non restò sordo al suo richiamo: tornò dunque sotto le bandiere sveve, riaccendendo lo scontro con il suo eterno rivale, il conte d’Anguillara. I due schieramenti contrapposti si affrontarono per l’ennesima volta la notte del 23 aprile 1268, l’uno in difesa di Roma, l’altro nel vano tentativo di conquistarla. Pietro seguì poi Corradino anche nella disastrosa spedizione nel Regno del Mezzogiorno. Nella battaglia di Tagliacozzo fu ferito gravemente e a stento riuscì a tornare a Roma, ma la città era troppo insicura e preferì rifugiarsi nel suo castello eponimo. Nel dicembre del 1268, a causa delle ferite riportate, morì, dopo aver fatto testamento e con i conforti spirituali del vescovo di Bari.
Pietro de Vico a Roma aveva acquartieramenti presso Trastevere; re Manfredi e il cronista Saba Malaspina lo ricordano con il titolo di proconsul romanorum; Saba aggiunge inoltre che egli era vicario e rettore della Tuscia per conto del Comune di Roma e signore di molti castelli.
Fu sepolto, come da lui espressamente richiesto, a Viterbo nella chiesa di Santa Maria in Gradi, che diverrà il mausoleo di famiglia. Ironia della sorte, per qualche tempo il prefetto Pietro de Vico e papa Clemente IV riposarono l’uno accanto all’altro nella stessa chiesa, nonostante che tra i due in vita non fosse mai corso buon sangue.
A Roma, le case di Pietro de Vico nel rione di Trastevere furono demolite, come quelle di altri nobili romani schieratisi al fianco di Corradino. Il prefetto era sposato con una Costanza, della quale non si conosce il casato di appartenenza. Si ignora anche il numero esatto dei figli nato dal loro matrimonio: oltre a quello citato, morto a Roma durante l’attacco del 1265, altri due furono Pietro e Manfredi, entrambi minorenni al momento della morte del padre. Il primo dei due, raggiunta la maggiore età, acquisì il titolo prefettizio, poi lasciato al fratello nel 1304 a seguito della sua morte.
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