PRASSITELE (Πραξιτέλης, Praxitĕles)
Si contano sei scultori greci di questo nome.
1. Ateniese, del demo di Eiresidai, come i suoi discendenti, padre di Cefisodoto seniore, avo dell'omonimo più famoso: doveva lavorare nella seconda metà del sec. V a. C. La sua esistenza fu intravveduta nella notizia di Plinio (Nat. hist., XXXIV, 71), che gli attribuiva pure, scambiandolo col nipote, la statua del guidatore, posta sopra una quadriga di bronzo eseguita da Calamide, il quale fiorì verso il 470. Trattandosi certamente di monumento dedicato in qualche santuario per una vittoria ippica, tutte le figure dovettero essere poste in opera insieme, e perciò si ritiene che P., da giovane, verso il 450, abbia completato l'opera che il maestro più celebre e anziano aveva dovuto lasciare imperfetta per motivi a noi ignoti. La tradizione dell'arte e il ripetersi dei nomi nella famiglia del secondo P. ha suggerito il rapporto genealogico, assai verisimile. A. Furtwängler ritenne attendibili le iscrizioni d'età costantiniana, sulle basi dei Dioscuri al Quirinale, secondo le quali una delle statue sarebbe di P. e l'altra di Fidia, e pensò che il nostro artista fosse collaboratore di quest'ultimo: ipotesi non sostenibile. Altri credono che al nonno siano da riferire le opere ricordate dagli scrittori, quando per qualche indizio possono ritenersi meno rispondenti all'arte o all'epoca del nipote: così le tre figure di numi eleusini, Persefone, Iacco e Demetra, nel tempio di questa dea ad Atene (Pausania, I, 2, 3), perché, come dice lo scrittore, la firma dell'artista era in lettere attiche, e, cioè, anteriore all'introduzione dell'alfabeto ionico, fatta per legge nel 403-2. Dieci fatiche di Eracle, più la lotta con Anteo, nei frontoni del tempio dell'eroe a Tebe (Paus., IX, 11, 6), sembrano soggetti fuori di moda nel sec. IV. La statua colossale di Era nel suo tempio a Platea, insieme con quella di Rea, in marmo pentelico (Paus., IX, 2, 7), si attribuiscono a questo P., perché non si vuol credere che l'edificio, costruito nel 426 dai Tebani che avevano distrutto la città, fosse rimasto privo di simulacri fin verso il 360. Con criterio analogo si fanno congetture per il terzo P. (v.).
2. Figlio del primo Cefisodoto, padre del secondo e di Timarco. Altri credettero che il vecchio Cefisodoto fosse fratello di P., perché Plutarco lo dice cognato di Focione (Phoc., 19), il quale nacque nel 402: probabilmente Focione fu il genero. La nascita di P. si può datare nei primi anni del sec. IV: Plinio indica l'olimpiade 104ª (364-361) come il periodo culminante della sua attività; Pausania (VIII, 9,1) dice che visse nella terza generazione dopo Alcamene, il che si può intendere verso il 340. Scarsissimi i dati biografici: in patria lavorò per qualche santuario e per committenti privati, fuori ebbe soprattutto clientela di città, specialmente nel Peloponneso e in Asia Minore. Sembra che abbia dimorato quasi sempre in Atene, inviando spesso di lì le sue opere, come sappiamo per i simulacri di Coo e di Cnido. Non privo di patrimonio e arricchito certamente dall'arte sua, poté donar molto ad una delle donne più famose del mondo galante ateniese, Frine figlia di Epicle, da Tespie. I rapporti con costei pare che abbiano avuto un'importanza non indifferente per la carriera artistica del maestro: essa gli avrebbe ispirato l'Afrodite più celebrata, e fors'anche le altre, posando per lui come modella. Quattro lavori egli le donò, per quanto sappiamo, e l'etera li dedicò ai numi: a Tespie, nel tempio d'Afrodite, una statua della dea, l'Eros famoso e il proprio ritratto statuario, in marmo, e a Delfi un'altra effigie sua, in bronzo dorato, nota per il motto d'un filosofo di scuola cinica, Cratete (Diogene, secondo Diogene Laerzio, VI, 60) che la chiamò "monumento dell'incontinenza dei Greci". Plinio (XXXIV, 70) menziona ancora la figura dell'etera gioiosa, che si credeva fosse Frine, rallegrata dall'amore dell'artista e dal premio ricevuto, contrapposta ad una matrona dolente: una sorta d'irrisione della virtù, plasticamente rappresentata in due studî d'espressione. La cronologia può aver qualche aiuto da queste notizie: Frine doveva esser venuta in Atene con i profughi di Tespie, distrutta nel 373 circa, e benché non si sappia quanti anni avesse allora, è certo che doveva esser già fiorente verso il 360. Poi ebbe il noto processo per il delitto d'empietà, in cui fu difesa dall'oratore Iperide: qualcuno vuole che ciò sia avvenuto nel 340, ma la data è opinabile. È dunque intorno alla metà del secolo che Frine fu in relazione con lo statuario ateniese. Strabone (IX, p. 410) nomina Glicera come dedicatrice dell'Eros, Clemente Alessandrino (Protrepticon, 53) vuole che la modella per l'Afrodite si chiamasse Cratine: forse si tratta d'altre amanti, confuse da questi autori con la più nota, sulla quale v'è tradizione copiosa e concorde. Non sappiamo in qual anno sia venuta meno l'attività dell'artista: per il fatto che non si parla di commissioni avute dai re di Macedonia, per i quali lavorò, ad es., Leocare, concittadino del nostro, ma di fama ben minore, si vorrebbe credere che più non vivesse verso il 330, ma l'indizio non dà la certezza. Secondo Strabone (p. 641) P. avrebbe decorato l'altare del nuovo Artemisio di Efeso, ma questo poteva già essere in opera quando l'edifizio non era ancora finito.
P. fu il più grande scultore ateniese del sec. IV, e con lui terminò il primato d'Atene nella statuaria. Egli, se non il primo, ché troppi documenti ci mancano per dirlo, fu certo tra i più originali nel rinnovare il tipo dei simulacri divini, già idealizzati in forme solenni con l'impassibilità sovrumana dominante nel sec. V: negli dei di P., che sembrano spesso abbassare lo sguardo verso l'umanità in atto benigno, la maestà ieratica è mutata in bellezza graziosa, talora un po' sensuale, cui dà risalto l'eleganza delle pose e dei gesti. In massima sono figure adolescenti e giovanili: Eros e Apollo par che abbiano quindici anni, Ermete e Dioniso poco più di venti, Afrodite può averne venticinque, ed è soprattutto una bellissima donna che nulla vuol celare delle sue grazie, Artemide è una fanciulla piena d'ingenuità e di candore. Non meno originale è il modo di stilizzare le forme, con raffinamenti di esecuzione che soltanto nell'Ermete di Olimpia possiamo apprezzare, mentre sono travisati o scomparsi nelle copie dell'epoca romana.
I giudizî degli antichi pervenuti a noi non hanno una portata critica bastevole per farci intendere in qual modo i conoscitori si rendessero conto delle caratteristiche personali nell'opera del maestro. Varrone (presso Gellio, Noct. Att., XIII, 16) scrisse che chi aveva qualche cultura non poteva ignorarlo, per l'eccellenza dell'arte. Cicerone (De divinatione, II, 21, 18) nomina le "teste prassiteliche" come tipi proverbiali di sculture perfette. Diodoro Siculo (XXVI, fr. 1) dice che P. sapeva "infondere al massimo nelle opere marmoree le passioni dell'animo", espressione retorica, poco adeguata all'ethos che predomina nelle statue note a noi. Fedro (prologo del V libro) accenna a scultori del suo tempo che falsavano la firma di P. per vender caro quello che facevano. Luciano (Gall. 8) dice soltanto che P. era ammirato. Un po' meno generica è la frase di Plinio (XXXVI, 20): "nella gloria del marmo superò persino sé stesso", perché significa che lo scrittore ha capito in che consistesse il progresso tecnico recato dall'artista (cfr. Quintiliano, Instit. orat., II, 19, 3).
Tra le molte opere, una quarantina, ricordate dalla tradizione scritta, alcune sono state riconosciute in modo sicuro: una nell'originale, le altre in copie posteriori. Sulla scorta di questi esemplari, seguendo le affinità dello stile, s'è cercato di attribuire a P. qualche altro lavoro originale e alcune riproduzioni antiche. Due rilievi si possono credere eseguiti da scolari o aiutanti sotto la sua direzione personale. E, dallo studio di quanto rimane, s'è pure determinata una cognizione delle fasi stilistiche, la quale, benché con qualche incertezza in singoli casi, ci permette di vederne la successione cronologica.
Alla "prima maniera" si ascrive l'originale, ch'era in bronzo, come si può argomentare dal variare dei puntelli e dalle loro fogge, del satiro coppiere, conosciuto in numerose copie marmoree provenienti per lo più da ville romane del Lazio (quattro da Castel Gandolfo, una da Anzio) e della Campania (Torre del Greco). La copia d'Anzio è quella che conserva la testa in migliori condizioni, e stilizzata in modo da potersi ritenere più fedele rispetto alla fusione originale. Lo schema della figura e la modellazione delle membra s'accostano alquanto allo stile della scuola di Policleto, e questa è la ragione che dà alla statua una precedenza nel tempo.
L'esemplare riprodotto a tav. XLV fu completato, con giusta interpretazione nel restauro della destra, con la piccola brocca, copiata da un vaso attico dell'epoca: lo zampillo cadeva nella tazza, sostenuta dall'altra mano. Soltanto le orecchie ferine dànno carattere di demone dionisiaco a questo giovanetto di fattezze gentili, perché i copisti hanno, di solito, tralasciato di aggiungere la coda, e il tipo può dirsi nuovo nell'arte greca. Il motivo fu copiato spesso in rilievi ateniesi. Si crede che l'originale fosse quello ricordato da Pausania (I, 20, 1) come esistente ad Atene nella "via dei Tripodi". Doveva far parte d'uno dei monumenti da cui prendeva nome la località: il testo è un po' sconnesso, e non è chiaro se la figura nominata prima dallo scrittore sia da identificare con il "satiro fanciullo che porge da bere" ch'egli ricorda più in là, posto in un tempio accanto a un Bacco e un Eros, opere di un Timilo di cui nulla sappiamo. Pausania racconta che Frine poté scegliere tra il satiro della via dei Tripodi e un Eros marmoreo, dopo aver fatto confessare all'amante, con uno stratagemma, quali delle opere sue considerasse migliori: Ateneo (Deipnosoph., XIII, p. 591 B) conferma l'episodio della scelta, tacendo il resto.
L'Eros, ch'era in marmo pentelico, fu dedicato a Tespie: Caligola lo fece portare a Roma (Paus., IX, 27, 3); restituito da Claudio, fu ripreso da Nerone, ed era nel portico d'Ottavia quando Plinio scriveva (Nat. hist., XXXVI, 22), poi andò distrutto in un incendio.
A Tespie Pausania vide una copia eseguita da un Menodoro ateniese. La città era divenuta famosa per il capolavoro, già celebrato nel sec. III a. C. da un epigramma di Leonida Tarentino (Anthol. Gr., I, 164), ch'è il migliore tra i parecchi, d'intonazione retorica, dove prevale il concettuzzo dell'amore scolpito che premia l'amore professionale. Cicerone (In Verrem, IV, 2, 4) dice che soltanto per vederlo si andava a Tespie: Heius di Messina aveva posseduto un secondo esemplare della figura, carpito da Verre: l'oratore afferma ch'era lavoro della stessa mano, e tale almeno bisogna dire che fosse reputato in quei tempi. La copia marmorea frammentaria di un Eros trovata al Palatino, ora al Louvre, ripete il motivo del satiro coppiere, ed è prassitelico come quello: può riprodurre il dono di Frine, e sembra confermare, come dicono gli scrittori ricordati, che le due statue fossero contemporanee e si trovassero insieme nell'officina del maestro. Una buona copia, il solo torso, si trova nel museo di Parma, tra i pochi residui della raccolta Farnese. Meno probabile che si possa attribuire a P. è un'altra statua, più probabilmente in bronzo, conosciuta specialmente dalla copia mutila da Centocelle al Vaticano, che già Ennio Quirino Visconti voleva identificare con il dono di Frine.
L'Afrodite di Cnido fu, tra le opere, quella che suscitò maggiori entusiasmi nel mondo antico, e certamente dovette apparire come una nuova e insuperata interpretazione plastica del corpo muliebre. L'artista, se pure non fu preceduto da Scopa (v.), fu ben audace nel presentare così un simulacro divino: nei templi greci la dea si vedeva fino allora vestita, perché così esigeva il costume per le figure femminili. Plinio (XXXVI, 20) racconta che P. aveva finito due statue, una delle quali vestita, e non faceva differenza di prezzo: i cittadini di Coo, che dovevano acquistarne una per il santuario della loro patria, preferirono quella che parve a loro "più seria e pudica". Quelli di Cnido dovettero accontentarsi dell'altra, la quale fu per secoli la gloria maggiore di quella minuscola penisola. Un Nicomede re di Bitinia, difficile dir quale, si profferse di pagare tutti i debiti dello stato di Cnido per avere quel marmo, e la proposta non fu accettata. Luciano (Imagines, 4) dice ch'era "il più bello tra i lavori di P.", e che rappresentava la dea come "celeste" (ibid. 23). Un imitatore di Luciano (Amores, 11) si sofferma lungamente a descriverne i vezzi. Gli epigrammisti retorici lasciarono parecchi sforzi d'ingegno su quosto tema. Sappiamo da Giorgio Cedreno che la statua finì a Costantinopoli, nel palazzo del patrizio Lausos distrutto da un incendio nel 475.
A noi rimane in una serie di copie approssimative, d'età romana, eseguite in massima di seconda o terza mano, alle quali manca soprattutto la delicatezza di modellazione che costituiva il pregio inarrivabile dell'opera. La mediocrità dell'esecuzione è troppo spesso aggravata dalle aggiunte, e anche dai ritocchi di restauratori moderni. L'identificazione è sicura, perché documentata da monete di bronzo emesse nella città sotto Caracalla: la riconobbe per il primo E. Falconet verso il 1780. La dea sembra immaginata nell'atto di terminare un lavacro, e tiene con una mano il chitone che sta per indossare: perché abbia dovuto spogliarsene, lo mostra il vaso, posto lì accanto, che serve a versar l'acqua sul corpo o nella vasca. Le copie variano assai nei particolari del drappeggio e dell'idria, specialmente maltrattati dai copisti. Quella che più s'accorda con le monete per le proporzioni e lo schema di questa parte, è la "Venere di Belvedere", così denominata dal celebre cortile ov'era collocata nel Rinascimento, ora nei magazzini del Museo Vaticano: è tozza alquanto e di lavoro stentato. Una statuetta dello stesso museo, goffa di forme e falsata nel motivo, mostra fin dove potessero giungere le storpiature dei mestieranti. L'esemplare migliore della testa è al Louvre, proveniente dalla casa Borghese. Una questione interessante presenta la Venere Colonna, esposta al Vaticano con una testa non sua (v. afrodite, tav. CXLIV), riprodotta in tutti i manuali come la copia tipica della statua di Cnido, benché appaia piuttosto una variazione di quella: l'idria, di forma elegantissima, che riproduce esattamente un esemplare greco del sec. IV, è molto più grande e sta sopra una base modinata, il panneggio è assai ridotto, ma la disposizione delle pieghe e il loro modellato ben difficilmente si possono attribuire a un copista. Qualche diversità, per l'aspetto più giovanile e la disposizione dell'acconciatura, presenta pure la testa, di cui abbiamo un bellissimo esemplare trovato a Tralle e conservato a Berlino. La maggiore attendibilità dei particolari notati poc'anzi fa pensare che l'esecutore abbia avuto cognizione diretta dell'originale, il che non si può dire per l'altro tipo, e sorge il dubbio che si tratti di quell'Afrodite di bronzo detta da Plinio (XXXIV, 60) "eguale alla Cnidia", portata a Roma non si sa quando, e distrutta ai tempi di Claudio nell'incendio del tempio della Felicità.
Specialmente per le forme del viso; si vuole che l'Afrodite di Cnido sia ancora vicina, nel tempo, relativamente, all'unico lavoro che conosciamo di Cefisodoto, ma l'arte di P. si manifesta matura nella composizione, congegnata mirabilmente tra il nudo e il drappeggio, che funziona pur da sostegno, con il medesimo contrasto di effetti lineari e plastici che resterà definitivo in altre statue ritenute dell'ultima maniera. Perciò non è facile datare la figura piuttosto nel 360 che dieci anni più tardi.
Due altri simulacri della dea, contemporanei del più famoso secondo la tradizione, quello di Coo e quello donato a Frine, ci sono completamente ignoti. La Caria possedeva una terza statua, nel santuario di Adone in Alessandria al Latmo: la menziona Stefano Bizantino (De urbibus, ad v.), compilatore del sec. VII.
Di carattere certamente prassitelico, e reputata da qualche dotto anteriore alla Cnidia, è l'Afrodite trovata ad Arles nel 1651, rilavorata nel 1685 dallo scultore F. Girardon che volle renderla un po' più snella, ma nota nella sua genuinità in un calco anteriore ai ritocchi. Un manto vela il corpo fino alle anche, il braccio destro alzato, quale si vede in una copia acefala di Roma, come se la mano tenesse uno specchio. Un frammento d'altra copia, quasi tutto il nudo, di magnifico lavoro, fu trovato ad Atene. S'è pensato che l'originale fosse uno dei ritratti di Frine, ma nulla si può dire di certo. Pure ad Arles, nel teatro romano, si rinvenne un busto, porzione di statua, da inserire nel corpo drappeggiato, con il chitone che scendeva di sghembo dalla spalla destra, lasciando scoperto il sommo del petto fino all'ascella opposta. La "donna che porta un monile" (pselioumene), ricordata da Plinio (XXXIV, 69, cfr. Taziano, Contra Graecos, 55) tra le opere in bronzo, s'è voluto che fosse pure un'Afrodite, e poiché il verbo greco serve anche per indicare l'atto di cingere ornamenti del collo (Anthol. Gr., VII, 234), W. Klein ha proposto di riconoscerla in alcune figurine come quella del Museo Britannico, ch'è la migliore di fattura. Le proporzioni sembrano un po' esili in confronto dei tipi prassitelici, ma è difficile dire quanto il modellatore le abbia attenuate.
Nel 345, come sappiamo da un'iscrizione amministrativa del tempio, era già in posto una statua "marmorea" d'Artemide Brauronia, sull'Acropoli di Atene, e deve trattarsi di quella che Pausania (I, 23, 7), più di cinque secoli dopo, afferma esser lavoro di P.: soggetto e stile concordano nella "Diana di Gabi", ottima copia romana al Louvre. L'indizio migliore per l'identificazione sembra essere l'atto della figura d'indossare il breve mantello, perché le offerte di vesti costituivano l'uso più importante del santuario in parola, dove si soleva addobbare con tali doni il simulacro arcaico di legno.
L'espressione più matura dell'arte di P. è per i critici moderni lo schema statuario della figura in riposo, poggiata a un sostegno, che viene introdotto come elemento essenziale nella composizione: la sagoma dei corpi prende così una nuova vivacità di curve, variata specialmente con lo spostare il centro di gravità. Questa nuova ponderazione che suole, come originalità ed efficacia, paragonarsi a quella introdotta da Policleto, non è avvertita negli scritti degli antichi. Dovremmo dire che P. l'avesse ereditata dal padre, se potessimo riconoscere l'Ermete di questo in una copia del museo di Madrid, opera probabilmente assai più tardiva.
Due statue di questo tipo furono riconosciute da Ennio Quirino Visconti: l'Apollo adolescente che uccide la lucertola (sauroktonos), e il satirello.
Il primo era in bronzo, secondo la testimonianza di Plinio (XXXIV, 70), confermata dall'appellativo di Corinthius, nel titolo d'un epigramma di Marziale (XIV, 172), dove l'artista non è nominato: una copia in metallo, di fattura mediocre, è a Villa Albani; migliori sono quelle marmoree del Louvre e del Vaticano, che sono più grandi dell'altra. La testa ha qualche somiglianza con la Cnidia, e perciò si vuole che l'opera debba esser contemporanea, il che non è certo. Il tema religioso sembra determinato da un rapporto mitico tra il nume e l'animaletto, analogo a quello dello Sminteo di Scopa, ma è rappresentato come un soggetto di genere: il ragazzo divino sta per colpire con una freccia la lucertola. Il motivo si ripete quasi testualmente in un Eros, come si vede in due torsi, uno nel museo di Napoli, l'altro a New York. Il satirello, che non si può identificare con certezza nella tradizione scritta, fu tanto divulgato dai copisti che ne conosciamo, comprese le riduzioni, più di settanta esemplari di varia conservazione: parecchi archeologi hanno creduto che fosse quello della "via dei Tripodi". La notevole differenza del tipo, rispetto all'altro, ha fatto sorgere un dubbio, non giustificabile, circa l'autore. I lineamenti e la chioma hanno qualcosa di selvaggio, che meglio s'addice al demone silvestre, seguace di Bacco, ma il corpo, dove l'effetto plastico è variato con tanta sapienza dalla pelle felina posta a bandoliera, ha tutta l'eleganza di forme che il maestro prediligeva. L'originale poteva essere in marmo.
Allo stesso periodo, restando opinabile la precedenza rispetto al satiro, è da riferire l'opera in marmo pario che dai più si ritiene originale: l'Ermete che reca in braccio il piccolo Dioniso, e lo trastulla con un grappolo. Fu scoperto nel tempio di Era ad Olimpia, dove Pausania (V, 17, 3) l'aveva segnalato. Il dorso, che doveva stare contro una parete, non è rifinito, e la superficie è rimasta in parte con la sbozzatura dello scalpello dentato. Questo fece pensare da uno studioso, pochi anni fa, che si trattasse d'una copia collocata per sostituire l'originale, asportato forse da Nerone, come sappiamo per altre statue, durante il viaggio del 66. Ma la qualità intrinseca dello stile non sembra attribuibile ad una riproduzione, e, d'altra parte, come ha obiettato G. E. Rizzo, è ben difficile immaginare che Plinio, scrivendo verso il 74, abbia trascurato di menzionare un tal capolavoro, se fosse esistito in Roma, e che Pausania, circa un secolo dopo, abbia ignorato la sostituzione. Che il carattere del drappeggio sia incompatibile con l'epoca di P., come affermò uno studioso americano, è impossibile dimostrarlo. Per analogia di soggetto si suol confrontare l'Eirene modellata dal padre: il tema della figura con uno o due bimbi ha precedenti fin dal sec. VI. L'artista ha messo in valore soprattutto il nume adulto, con una bellezza tanto idealizzata da risultare un po' troppo al disopra della comune umanità, nella funzione di bambinaio richiesta dall'episodio mitologico: si sente qui una sorta d'etichetta olimpica che sembra dare indifferenza all'aio e precoce compostezza all'alunno, neonato secondo la favola.
Tutta la nostra cognizione di P. "maestro del marmo" è tratta di qui. Nel viso appare mirabilmente quella morbidezza di passaggi che suol chiamarsi "lo sfumato prassitelico", praticato e poi accentuato dai seguaci posteriori. La chioma, con particolari abbozzati da valere nella massa dipinta, è ravvivata dagli scuri a trapano: qualcuno afferma che l'arnese costituisce un anacronismo rispetto alla genuinità del lavoro, ma neppur questo si può provare. Le carni sono scolpite con rigore stilistico che accentua taluni particolari anatomici in rapporto all'effetto: l'intensità del lavoro si avverte meglio esaminando un calco, perché la trasparenza del marmo ne attenua il rilievo. Il contrasto tra figura e drappeggio è calcolato come si vide nella Cnidia. Oltre i pochi colori delle teste e la doratura dei sandali, la porpora delle stoffe dava maggior candore ai corpi, spalmati d'una sorta di patina (ganosis) che smorzava il bianco troppo crudo del marmo levigato. Nelle tinte doveva avere una parte la cera, e l'applicazione doveva essere fatta a caldo, perché Plinio (XXXV, 122), attingendo da autori greci, dice che si attribuiva a P. un progresso tecnico nella pittura ad encausto. Lo stesso scrittore (ivi, 133) ci fa sapere che la policromia era eseguita da pittori, ricordando che Nicia era il collaboratore più stimato da P. Per evidenti somiglianze stilistiche con l'Ermete, fu attribuita alla stessa mano una testa marmorea d'Afrodite, che non si può ritenere una copia. Al tipo di Olimpia si ricollega un'altra statua dello stesso nume, nota specialmente per la copia di Andros al museo d'Atene, ma l'attribuzione al maestro non è sicura.
Per la ponderazione devono riferirsi al medesimo periodo dell'Ermete l'Eros di Parion (Plinio, XXXVI, 23) e il Bacco di Elide (Pausania, VI, 26, 1): li conosciamo soltanto da monete d'età romana, e il secondo, un po' troppo addobbato d'attributi e di panneggio, non si direbbe che convenga al gusto sobrio dell'artista, cui è attribuito dal testo antico. Un altro Bacco prassitelico, di ponderazione simile, fu abbastanza in voga tra i copisti romani: quattro esemplari sono documentati dal sostegno, oltre una testa e due figure. La migliore, acefala, è in una villa presso Varese. Discussa l'attribuzione dell'Apollo Liceo, descritto da Luciano (Anacharsis, 7): ne possediamo parecchie copie e molte variazioni. Lo stesso può dirsi per un Eros, riprodotto su monete romane di Pergamo, che ne ripete il motivo.
Celebrità tra gli antichi ebbe il simulacro di Eubuleo, nume d'Eleusi, come vediamo dall'iscrizione d'epoca romana, al Vaticano, sopra un'erma che ne recava la testa e indica l'autore: la porzione lavorata a parte d'una statua, trovata nel santuario eleusino, può appartenere all'originale. È invece assai meno probabile che sia di P. una testa giovanile di tipo atletico, probabilmente Eracle, già nella raccolta Aberdeen e ora al British Museum, benché sia certamente un lavoro greco del sec. IV.
Statue muliebri, drappeggiate nel lungo chitone che toccava il suolo, si riscontrano con frequenza tra i soggetti ricordati presso scrittori, ma di nessuna s'è potuto riconoscere con certezza un esemplare, e in questo lato della produzione è assai più difficile intendere l'originalità di P. e il progredire dello stile. Sei Muse, scolpite in rilievo su lastre marmoree, che adornavano la base dei simulacri di Latona e dei figli, nel suo tempio di Mantinea (Pausania, VIII, 9, 1: v. XVII, tav. CLXXXII; XXIV, p. 112), benché considerate lavoro di scolari, costituiscono il termine di confronto più usato, pur non mancando chi le ritenga del terzo P. Così fu attribuita al maestro una statua acefala, interpretata come Persefone, del Museo Vaticano, e qualche altra figura simile di copisti romani. L'Atena in bronzo di Arezzo, di cui abbiamo variazioni marmoree, si può dire del pari prassitelica, benché non si possa identificare con quella che faceva il paio con Ebe, a lato di Era in trono, nel tempio di Mantinea (Paus., VIII, 9, 3). E per analoga somiglianza, si crede opera di P. il Bacco barbato, in veste talare e mantello, noto principalmente dalla copia vaticana che reca il nome greco, inciso in antico, di Sardanapallos.
Le divinità eleusine riprodotte in rilievi votivi del tempo convengono allo stile del maestro, e tipi statuarî simili si vedono in qualche variazione o copia: Plinio (XXXVI, 23) ricorda Cora, Triptolemo e Cerere a Roma, Pausania parla delle statue di Atene, menzionate qui trattando del primo P. Il Bacco esaltato da Cicerone (In Verrem, IV, 60) apparteneva forse alla seconda triade.
Di talune statue possiamo farci un'idea, perché furono riprodotte sulle monete, coniate per lo più sotto l'impero, dalle città che le possedevano. Latona ad Argo (Paus., II, 21, 8), con una figura minore, probabilmente il simulacro arcaico, posta come sostegno. La stessa dea con i figli a Megara (Paus., I, 44, 2): il Furtwängler volle identificare l'Artemide col peplo in copie romane. Nella stessa città, Tyche (Paus., I, 43, 6), con gli attributi della corona murale e del cornucopia. L'Artemide di Anticira (Paus., X, 37, 1) vestita da cacciatrice, gradiente, con una face in pugno e un cane a lato.
In Atene, alla "via dei Tripodi", fu trovata una base prismatica, a sezione triangolare, con una figura in rilievo su ciascun lato: Dioniso in lunga vesta con le maniche, probabilmente effigiato come Sabazios, e due Vittorie imitate da motivi del fregio del Partenone, ma con particolari di stile prassitelico. L'epigrafe di un altro monumento coragico, databile poco dopo il 200 a. C., che parla di figure simili collocate da P., è da riferirsi a questa scultura.
Pausania (I, 2, 3) ricorda un monumento funebre poco lontano dalla porta della città, sulla strada che andava al Pireo: un guerriero accanto al cavallo. A Leuttra si rinvenne la base firmata della statua iconica d'un Trasimaco, dedicata in un santuario.
Altre opere sono per noi semplici nomi, o poco più. I dodici dei (Paus., I, 40, 3), Peitho e Paregoros, due divinità minori del seguito d'Afrodite (Paus., I, 43, 6) e un satiro (Paus., I, 43, 5) a Megara; un altro satiro, "il famoso", con Bacco e l'Ebbrezza (Plinio, XXXIV, 69) in bronzo; Trofonio (Paus., IX, 39, 4) a Lebadea, simile ad Asclepio imberbe. Tra i bronzi nominati da Plinio (loc. cit.) v'è pure il ratto di Persefone, certamente un gruppo; la catagusa, soggetto discusso: una donna che tiene una corona; Opóra, dea dell'autunno (altri leggono canephora), oltre la serie di statue femminili prese a Tespie da Mummio, e dette perciò le Tespiadi, perite con la Venere di bronzo già ricordata. Qualcuno pensa che fossero le Muse, specialmente venerate colà, benché Cicerone (In Verrem, IV, 2, 4) affermi ch'erano figure profane.
Tra i marmi Plinio (XXXVI, 23) nomina come esistenti a Roma anche Agathodaimon e Agathetyche, Menadi, Cariatidi, Sileni, un Apollo e un Posidone. Di Danae, Ninfe e Pan parlano epigrammi greci d'epoca romana (Anthol. Palat., VI, 317; Planud., 262), ma è difficile dire quanto siano attendibili, trattandosi di esercitazioni letterarie. Alla medesima stregua si devono considerare le descrizioni declamatorie di Callistrato, retore del sec. III d. C., che fa delle variazioni sul tema del "bronzo che vive", attribuendo a P. un Bacco (Ecphras., VIII), un Eros (V) e un Diadumeno (VI) che sarebbe esistito sull'Acropoli.
Parecchi dei soggetti in parola sembrano più rispondenti al gusto dell'epoca ellenistica, e perciò, salvo il caso di falsificazioni come quelle accennate da Fedro, è probabile che sia stato confuso con il nostro qualche omonimo posteriore.
Attribuzioni erronee non dovettero mancare già in antico: la più evidente è quella dei Tirannicidi di Antenore riferita da Plinio (XXXIV, 70). Vitruvio (De architect., VII, praef.) cita P. come collaboratore del Mausoleo, mentre Plinio (XXXVI, 30) non lo conosce come tale.
L'indirizzo artistico di P. durò a lungo nei secoli seguenti (vedi grecia: Arte). Come discepolo, oltre ai figli, conosciamo Papilo, ricordato da Plinio (XXXVI, 33) per una statua marmorea di Zeus Ospitale (Zeus Xenios) a Roma.
3. Teofrasto nel suo testamento (presso Diogene Laerzio, V, 52) dice d'avere ordinato a un P. una statua, grande al vero, di Nicomaco figlio d'Aristotele. Il committente morì nel 287, di 85 anni circa, ma non conosciamo la data del documento. L'artista doveva essere attivo verso il 300, e si può ritenere ateniese, forse parente dell'omonimo più famoso: può darsi che Plinio e Pausania, o le loro fonti, l'abbiano talvolta scambiato con quello. Qualcuno ritiene che siano da attribuirsi a lui i rilievi della base di Mantinea. Non pare che possa identificarsi con il figlio di Timarco, noto come sacerdote di Asclepio in epigrafi d'Atene.
4. La firma si riconobbe a Pergamo, sopra un frammento, tra quelli delle basi che recavano le statue in bronzo erette per celebrare le vittorie di Attalo I ed Eumene II. Lavorò dunque verso il 220, oppure verso il 170 a. C.: probabilmente era ateniese, come sembra che fosse un altro artista di cui si trovò là un'epigrafe frammentaria. Forse è discendente del grande P., e ciò fa pensare ad altri possibili omonimi, di cui non rimane notizia, accrescendo le probabilità di confusioni per la tradizione scritta.
5. Lavorava ai tempi d'Augusto, e si può credere che fosse d'Atene: là si trovarono tre basi di statue, dedicate dalla città e firmate da un P. Una rappresentava Gaio Elio Gallo, che si ritiene il prefetto d'Egitto dal 27 al 24 a. C., l'altra Gneo Acerronio Proculo, proconsole d'Acaia, che non si può credere l'omonimo console del 37 d. C., la terza, frammentaria, una donna di cui è scomparso il nome. Un'altra base, alla via dei Tripodi, con firma simile, pertinente alla statua di un Lisania, non si può confrontare per la paleografia, essendo andata dispersa: forse era dello stesso scultore.
6. Nel 1828 si trovò presso Crest, nella Francia meridionale, a nord di Valchiusa, un busto di vecchio barbato, grande metà del vero, con iscrizione greca: "Ibico, P. faceva". Lo stile si ritenne del sec. III d. C., e probabilmente si tratta d'un ritratto fittizio del poeta di Reggio, copiato da un esemplare ellenistico. Anche la firma può essere una riproduzione, e forse va riferita a uno scultore vissuto molto tempo prima.
V. tavv. XLV-XLVIII.
Bibl.: Raccolta da M. Bieber, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, XXVII, Lipsia 1933, pp. 354 e 363. Per il 2° P. la migliore illustrazione delle opere, è data nel volume di G. E. Rizzo, Prassitele, Milano 1932; v. anche W. Klein, Praxiteles, Lipsia 1898; id., Praxitelische Studien, Lipsia 1899; G. Perrot, Praxitèle, Parigi 1905, oltre alle opere generali sulla scultura greca.