prameya
Termine sanscr. («conoscibile») che indica ciò che è oggetto di una conoscenza valida. A seconda delle scuole, l’oggetto della conoscenza è ritenuto esterno o interno, reale o concettuale. L’approccio realista è tipico della Mīmāṃsā e del Nyāya, quello concettuale del buddismo Vijñāṇavāda.
Nei sistemi filosofici indiani avviene una frequente sovrapposizione dei livelli linguistici, epistemologici e ontologici. Il termine padārtha («significato della parola») è usato per indicare le categorie con le quali ogni determinato sistema spiega il mondo dei fenomeni e in questo senso tali categorie possono essere considerate i p. di base di quel sistema. Il Vaiśeṣika (➔) di Kaṇāda contempla sei categorie, sostanza, qualità, azione, generalità, specificità e inerenza, alle quali se ne aggiunge più tardi una settima, assenza, con l’implicazione che le prime sei sono forme di presenza. Il Nyāya (➔) ammette sedici categorie, che vengono però assorbite nello schema delle sette catogorie del Vaiśeṣika in seguito alla graduale fusione tra le due tradizioni. L’Advaita Vedānta riduce il mondo a due categorie, coscienza e non-coscienza (cit e acit), quello di Rāmānuja aggiunge a questi due una terza categoria, Dio, e quello dualista di Madhva divide l’esistente in categorie autonome (Dio) ed eteronome (gli altri individui e la materia inerte). Nel Sāṃkhya (➔) e nello Yoga i venticinque elementi si possono ridurre a quattro categorie in base alla loro caratteristica di essere generativi o generati: un elemento generativo (la natura, prakr̥ti), sedici elementi generati (gli elementi primari, gli organi di senso e di azione, il senso interno), sette elementi generati e generativi (gli oggetti di senso, l’intelletto e senso dell’Io), una categoria né generata né generativa (lo spirito, puruṣa). In ambito Mīmāṃsā, la tradizione Bhāṭṭa accetta quattro categorie, sostanza, qualità, azione e generalità, mentre la tradizione Prābhākara a queste ne aggiunge altre quattro, numero, inerenza, somiglianza e capacità (śakti). Nel Nyāyasūtra il p. è elencato come seconda delle sedici categorie in un’accezione più ristretta, cioè come «ciò che è necessario conoscere per raggiungere la salvezza dal mondo fenomenico», ed è di dodici tipi: il sé, il corpo, gli organi di senso, gli oggetti esterni, la cognizione, l’organo interno, l’attività, i difetti, la rinascita, il risultato dell’azione, il dolore, la salvezza dal mondo fenomenico. L’autore del Nyāyabhāṣya («Commento al Nyāya [sūtra]),Vātsyāyana, integra la lista dei dodici p. con altri oggetti di conoscenza tra cui le sei categorie del Vaiśeṣika. Spiega anche che il sé non è oggetto di percezione bensì di un’inferenza fondata sugli altri undici p., che sono utilizzabili come ragioni logiche in tale inferenza.
L’appercezione. La questione della conoscenza come oggetto di conoscenza e la possibile deriva in un regressus ad infinitum da un lato o la necessità di postulare un a priori dall’altro, è un tema di interesse trasversale in molte tradizioni. L’appercezione, per es. nella forma ‘io so che sto avendo la percezione di un vaso’, è chiamata anuvyavasāya in Nyāya. Secondo il Nyāyasūtra uno stesso oggetto può essere al contempo strumento di conoscenza rispetto a una cosa e oggetto di conoscenza (p.) rispetto a un’altra, come esemplificato dalla luce di una lampada che serve a vedere il tavolo e in quanto tale assiste la percezione, ma è al momento stesso percepita essa stessa. Vātsyāyana sostiene che il difetto del regressus ad infinitum sia evitato dal fatto che la conoscenza, come la luce della lampada, ha una posizione relativa di oggetto o strumento, a seconda dei casi, e non assoluta. L’esempio della lampada è usato da altre scuole per provare invece che la conoscenza è autoilluminante: la luce è uno strumento che illumina altri oggetti e anche sé stessa (➔ jñāna). Per Våtsyāyana tale argomento è fallace, perché potrebbe essere usato allo stesso modo per provare che gli oggetti di conoscenza stessi sono autoilluminanti e che quindi non necessitano di strumenti per conoscerli, vanificando quindi l’intero schema dei pramāṇa. Jayanta Bhaṭṭa e Vācaspati Miśra adottano invece una posizione pragmatica ritenendo autovalidante una conoscenza non messa in dubbio.