pramana
Termine sanscr. («mezzo conoscitivo» o «atto cognitivo») che indica uno strumento utile a ottenere conoscenza valida. Il termine è usato in associazione sintagmatica con altri derivati dalla radice pra-mā- («misurare») come prameya (➔), pramā («conoscenza valida»), pramātr̥ («colui che conosce»).
Di teoria del p. si occupano sia tradizioni a orientamento realista come il Nyāya, il Vaiśeṣika, il Sāṅkhya e la Mīmāṃsā, sia tradizioni non realiste come il buddismo, soprattutto Pramāṇavāda (➔). Recenti studi mostrano come logica ed epistemologia si sviluppino nel buddismo a partire da due ambiti diversi, ossia da una parte la successione delle tre prajñā («conoscenza, gnosi», ➔ Pramāṇavāda) nel cammino soteriologico, dall’altra l’uso dei dibattiti, responsabile anche del delinearsi della logica nella scuola Nyāya. Infatti, i trattati di dialettica gradatamente introducono sempre più elementi di epistemologia allo scopo di fondare meglio le argomentazioni da adoperare nelle dispute contro avversari non buddisti (e che quindi non possono essere convinti da argomenti tutti interni al buddismo, quali citazioni di discorsi del Buddha). Le tre prajñā, invece, hanno un preciso legame con il buddismo in quanto cammino soteriologico e corrispondono a tre stadi di questo percorso: l’ascolto della parola del Buddha o del maestro, la riflessione su questa e infine la realizzazione meditativa dei contenuti che sono stati ascoltati e su cui si è riflettuto. Lo stadio intermedio prende le mosse dalla parola del Buddha (āgama), ma prevede poi che su questa si innesti l’applicazione di yukti (ragionamento) e dei pramāṇa.
La discussione sui p. possibili e la stipulazione dei p. accettati, sulla base di obiezioni attribuite a scuole concorrenti e opportune repliche, si trova all’inizio di molti trattati filosofici e teologici dell’India classica. Nel Pramāṇavāda la conoscenza vera di un oggetto deve possedere due caratteristiche fondamentali: essere non-erronea e avere un’efficacia pratica (arthakriyā, ➔ Pramāṇavāda). La Bhāṭṭa Mīmāṃsā si distingue per il peculiare criterio secondo cui una conoscenza è vera quando il conoscitore non conosceva in precedenza l’oggetto della conoscenza. In Nyāyavaiśeṣika si definisce pramā come esperienza (anubhava) corrispondente all’oggetto conosciuto (yathārtha). La Prābhākara Mīmāṃsā ammette esplicitamente all’interno della conoscenza vera anche contenuti di tipo deontico e attribuisce al Veda, in quanto śabda-p. dalla funzione non descrittiva, un ruolo esclusivo per l’ambito deontico. Il contenuto deontico non è appannaggio degli altri strumenti conoscitivi, che dipendono dalla percezione sensibile e di conseguenza possono soltanto descrivere la realtà.
Il numero dei p. contemplati varia a seconda delle tradizioni. Le discussioni più estese sul numero dei p. sono ricorrenti in testi come la Nyāyamañjarī («Infiorescenza del Nyāya» ➔) di Jayanta Bhaṭṭa, dovute all’interesse prettamente epistemologico del Nyāya. Tutte le scuole filosofiche riconoscono un ruolo importante alla percezione (pratyakṣa, ➔), che per i Cārvāka (➔) è l’unica fonte di conoscenza accettabile. Le scuole buddiste e giainiste, il Nyāya, il Vaiśeṣika, il Sāṅkhya, lo Yoga, la Mīmāṃsā e il Vedānta accettano anche l’inferenza (anumāna, ➔). Un ulteriore p. condiviso da giainismo, Nyāya, Vaiśeṣika, Sāṅkhya, Yoga, Mīmāṃsā e Vedānta è la comunicazione linguistica, intesa come testimonianza verbale dal Nyāya (śabda, ➔), che è invece non riconosciuta o ridotta a inferenza da Pramāṇavāda e Vaiśeṣika. Nyāya e Mīmāṃsā accettano come p. indipendente anche una sorta di argomento per analogia (upamāna), che consiste nella possibilità di conoscere un oggetto sconosciuto grazie alla sua somiglianza con uno conosciuto, come nell’esempio classico in cui un parlante x comunica a un parlante y che esiste nella foresta un animale selvatico, chiamato gavaya, che somiglia a una vacca. Il parlante y, quando si troverà a sua volta nella foresta, alla vista del gavaya saprà che questo è un gavaya, pur non avendolo mai visto prima, grazie alla descrizione fattagli da x. Tale conoscenza per analogia è però considerata da altre scuole come un prodotto di testimonianza verbale insieme a inferenza. Un ulteriore p. importante nella Mīmāṃsā, spesso discusso e talvolta usato anche in altre tradizioni, è arthāpatti, affine a un ragionamento abduttivo, in cui un fatto conosciuto q appare inspiegabile e quindi richiede la postulazione (āpatti) di un fatto (artha) non conosciuto r per giustificare q. Si parla di due tipi di arthāpatti, a seconda che il fatto q sia conosciuto tramite pratyakṣa o tramite śabda. La tradizione Bhāṭṭa della Mīmāṃsā è l’unica ad accettare un sesto p., abhāva (➔ Kumārila Bhaṭṭa), come p. indipendente, in quanto necessario per spiegare la conoscenza di un’assenza. In Navyanyāya (➔ anche Vaiśeṣika), invece, l’assenza è una categoria a sé, distinta da tutte le cose esistenti ed è posta in un rapporto antinomico di positivo e contropositivo (anuyogin e pratiyogin), dove un’assenza ha come contropositivo la cosa di cui è l’assenza, così che si danno infiniti casi di assenza, tanti quante sono le cose esistenti. Ogni assenza ha anche un sostrato, un’altra entità positiva, che è qualificato dall’assenza. In «sul pavimento non c’è il vaso» il vaso è il contropositivo e l’assenza è una qualità del pavimento. Sulla base di questa teoria, la conoscenza dell’assenza è quindi rubricata tra i tipi di percezione o inferenza. Sempre a proposito dell’assenza, Udayana discute il caso del possibile referente in casi di conoscenza priva di un referente, come «l’assenza del corno della lepre». In questo caso, siccome il «corno di una lepre» è irreale, «l’assenza del corno di una lepre» è priva di senso perché manca del suo contropositivo.
Tra i fenomeni psichici presi in considerazione nella teoria dei p. c’è la memoria. Nel Vaiśeṣika, Praśastapāda accetta la memoria come conoscenza vera, ma non classifica la funzione mnemonica come p.; Śrīdhara spiega che la memoria non è uno strumento di conoscenza valida perché la memoria è una conseguenza di percezione e inferenza, che in prima istanza producono la conoscenza che viene in seguito ricordata. Nel Nyāya, Jayanta spiega che la memoria non può essere considerata conoscenza valida perché è causato da una traccia psichica (saṃskāra, ➔) dell’oggetto ricordato, non dall’oggetto stesso, e quindi una condizione necessaria per la conoscenza valida, cioè la corrispondenza con l’oggetto, viene meno. Secondo la Mīmāṃsā, invece, è la mancanza di novità che esclude la memoria dallo status di conoscenza valida. Affine alla memoria, ma diverso da essa, è il riconoscimento (pratyabhijñā, ➔ Abhinavagupta). Nel riconoscimento si valuta un oggetto come lo stesso che si conosceva in precedenza. Secondo Jayanta e il Nyāya in genere, questo è soltanto un caso specifico di percezione. Nel Pramāṇavāda, invece, si ritiene per lo più che il riconoscimento sia una conoscenza complessa formata da due tipi di conoscenza, percettiva e mnemonica; ogni forma di conoscenza complessa è necessariamente erronea, perché la realtà è istantanea e non può essere colta se non dalla pura percezione. Secondo Udayana il comunemente accettato fenomeno del riconoscimento è in sé un argomento che confuta la teoria istantaneista e prova invece la continuità temporale della realtà delle cose.