Prabhakara Misra (detto Guru)
(detto Guru) Filosofo ed esegeta indiano (forse 6°-7° sec.).
Esponente della Mīmāṃsā (➔), P. è considerato il fondatore della corrente della Prābhākara Mīmāṃsā, dalle posizioni spesso fortemente divergenti dalla rivale Bhāṭṭa Mīmāṃsā, fondata da Kumārila Bhaṭṭa (➔). La cronologia relativa dei due autori è tema molto dibattuto, giacché nonostante la disputa fra le due scuole sia accesissima già nella generazione seguente (per es., negli scritti di Maṇḍana Miśra, ritenuto allievo di Kumārila), né P. né Kumārila fanno esplicito riferimento l’uno all’altro. È perciò possibile che fossero contemporanei e che non fossero al corrente l’uno dell’opera dell’altro. Di P. ci è pervenuta solo la prima parte del commento (noto come Br̥hatī, «Grande [esplicazione]») allo Śābarabhāṣya («Commento di Samara [ai Mīmāṃsāsūtra]», ➔ Mīmāṃsā).
In modo ancora più netto rispetto a Kumārila e alla tradizione filosofica indiana in genere, P. presenta il proprio apporto alla Mīmāṃsā come un commento al testo fondante per la scuola, che segue da vicino e spesso commenta anche letteralmente. Questo approccio si applica anche alle tesi filosoficamente più originali di P., che sono proposte come derivanti direttamente dalla lettura dello Śābarabhāṣya e non sono collocate esplicitamente sul proscenio del dibattito filosofico fra scuole avverse, come avviene invece negli scritti di Kumārila. Ciò pone serie difficoltà esegetiche, le quali, assieme al linguaggio denso e ricco di impliciti e a edizioni del testo ancora insoddisfacenti, rendono la Br̥hatī scarsamente accessibile. Già gli autori della filosofia indiana classica e poi i loro interpreti contemporanei basano perciò la comprensione di P., come accade anche per molti altri autori della filosofia indiana classica e postclassica, sul suo principale commentatore, Śalikanātha Miśra (9° sec.), che espone le tesi di P. contrapponendole alla scuola epistemologica buddista (Pramāṇavāda), Vyākaraṇa, Bhāṭṭa Mīmāṃsā, Vaiśeṣika e Nyāya. La Prābhākara Mīmāṃsā sembra aver goduto di minore fortuna rispetto alla corrente rivale ed è ancora poco studiata. Il complesso capitolo dell’influenza di P. sul Viśiṣṭādvaita Vedānta, per es., resta tutto da indagare.
P. attribuisce un ruolo fondamentale come mezzo di valida conoscenza (pramāṇa, ➔) al Veda. Questo soltanto è in grado di farci conoscere il kārya, ossia «ciò che deve essere fatto». Tale contenuto deontico è, infatti, inaccessibile agli altri strumenti conoscitivi ed è perciò apūrva, completamente nuovo (letteralmente «non preceduto [da alcun altro strumento conoscitivo]»). Mentre infatti gli altri strumenti conoscitivi dipendono dalla percezione sensibile e quindi possono solo descrivere la realtà come è già data, il Veda può permetterci di conoscere ciò che sarà o – cosa più importante per P. – ciò che dovrebbe essere (l’ambito deontico può essere oggetto di conoscenza perché l’epistemologia indiana non ritiene che il proprio dominio sia riferito solo ai dati percepibili, ➔ pramāṇa). Al contrario, nel caso di un parlante umano la comunicazione linguistica (śabda) non è un mezzo di valida conoscenza indipendente poiché non permette di conoscere qualcosa di prima ignoto. Infatti, nel caso della comunicazione vedica le parole indicano direttamente i propri significati, cui sono secondo la Mīmāṃsā intrinsecamente legate, mentre nel caso di un parlante umano tale processo è interrotto, nella coscienza di chi ascolta, dal dubbio circa la validità di quanto affermato. Prima di poter conoscere qualcosa in base a un’affermazione umana si rende dunque necessario un preliminare accertamento dell’affidabilità del parlante, che si basa sulla corrispondenza fra quanto dice e i dati di fatto. Se tale accertamento ha esito positivo, l’interruzione viene meno e le parole del parlante umano affidabile tornano a comunicare conoscenza valida. Non sono però un mezzo di valida conoscenza indipendente, giacché quanto comunicano è già stato conosciuto durante la fase di accertamento preventivo descritta. Similmente, P. nega che la conoscenza di un’assenza (abhāva) sia un mezzo di valida conoscenza a sé. A partire infatti da un passo troppo breve per essere chiaro dello Śābarabhāṣya e a differenza di Kumārila, P. sostiene che casi quali «sul pavimento non c’è un vaso» siano spiegabili come inferenze basate su quanto viene visto al posto dell’oggetto assente (nell’esempio, la nuda superficie del pavimento). Un punto di contrasto fra la scuola epistemologica buddista (Pramāṇavāda) e la corrente di Kumārila consiste nella natura autoriflessiva (svaprakāśa) di ogni atto cognitivo (➔ jñāna), sostenuta dalla prima e negata dalla seconda. La posizione di P. si distingue da entrambe, poiché riconosce in ogni cognizione tre aspetti (operazione cognitiva, soggetto conoscente e oggetto conoscibile) di cui contemporaneamente si fa esperienza.
P. si distingue nel panorama filosofico indiano per la radicale riduzione dell’errore a un caso di non-conoscenza. La conoscenza erronea è infatti, secondo P., semplicemente una conoscenza incompleta. Nel caso di un pezzo di madreperla scambiato per argento a causa della sua brillantezza (l’esempio di errore spesso citato dagli epistemologi indiani), P. sostiene che assistiamo a una conoscenza valida del pezzo di madreperla, correttamente individuato come qualcosa di brillante seppur non riconosciuto come madreperla, unita a una memoria dell’argento visto in un’altra occasione e correttamente ricordato, ma non riconosciuto come contenuto di un atto di memoria e non di percezione diretta. Dalla somma di queste due conoscenze corrette, ma incomplete, deriva l’errore.
P. guarda al Veda come al linguaggio per eccellenza e di conseguenza sostiene che tutto il linguaggio comunichi essenzialmente significati di carattere prescrittivo – che indicano cioè qualcosa che debba essere realizzato (sādhya) – invece di descrivere dati di fatto (come dato per scontato dalla linguistica occidentale). Le frasi apparentemente descrittive possono essere intese solo come sussidiarie di frasi prescrittive. In ambito vedico ciò si accorda bene al principio esegetico della Mīmāṃsā per cui solo le prescrizioni (vidhi) hanno un significato a sé, mentre i passaggi mitici o poetici del Veda, detti arthavāda, non hanno un significato indipendente e possono essere compresi solo in quanto completano una prescrizione, per es. elogiando il risultato che sarà raggiunto e invitando perciò a intraprendere l’azione prescritta. Ne deriva una lettura del Veda che ha al centro l’ortoprassi e non l’ortodossia. Più in generale, il processo di significazione si basa secondo P. sulle parole (in opposizione alle teorie di Bhartr̥hari), le quali non comunicano però alcun significato finché non vengono collegate in una frase, nell’ambito della quale i significati di ogni parola si completano a vicenda. Il significato di mucca sarà perciò diverso in frasi come «Lega la mucca!», «La mucca è alla base dell’economia della regione» e «La carne di mucca è insalubre». Da questo consegue che il significato di una singola parola equivale a un’entità inafferrabile perché incompleta. Śalikanātha definisce questa teoria anvitābhidhānavāda, ossia «tesi secondo cui [le parole] esprimono [il significato della frase solo] una volta connesse».