povertà (poverta; povertade; povertate)
Il termine p. e i suoi affini sono usati da D. con valori molteplici.
1. Come figura allegorica designa madonna Povertà (Pd XI 74), con riferimento a s. Francesco e all'ordine dei frati minori. Nel cielo del Sole, D. ode per bocca di s. Tommaso la storia di s. Francesco: il suo conflitto con il padre Pietro Bernardone, il matrimonio con madonna P. e la fondazione dell'ordine francescano (XI 55-117). Madonna P., privata del primo marito, Cristo, rimase millecènt'anni e più dispetta e scura (vv. 64-65). Il fatto di esser stata trovata con Amiclate (v. oltre, 4.) e di aver salito la croce con Cristo mentre Maria rimase giuso, non le valse popolarità finché non incontrò Francesco. La loro beatitudine coniugale amore e maraviglia e dolce sguardo / facìeno esser cagion di pensier santi (vv. 77-78), al punto che Bernardo, insieme con Egidio e Silvestro, dilettati dalla grazia della sposa, gettarono i calzari per seguire lo sposo. Ma per tutto questo problema v. FRANCESCANESIMO.
2. Come virtù religiosa è contrapposta specificamente al peccato di avarizia, fonte principale di corruzione nella Chiesa. A questo riguardo va detto che nella visione dantesca la virtù religiosa della p. è tipica dei francescani e del loro tentativo di riforma monastica, mentre questo genere di p. non è unicamente loro. Come è già stato ricordato, lo stesso Cristo condusse una vita di p. (Pd XI 64; cfr. If XIX 90-93). Nel Purgatorio Maria è citata dagli avari come esempio della virtù opposta al loro peccato. Ella infatti fu talmente povera (Pg XX 22) che fu costretta a partorire in una mangiatoia. Ancora, in Pd X 107, la poverella di Luca 21, 1-4 viene paragonata a Pietro Lombardo, che donò i suoi tesori alla Chiesa (cfr. il prologo ai suoi Sententiarum libri); s. Pietro, che cominciò sanz'oro e sanz'argento (Pd XXII 88-90; cfr. Act. Ap. 3, 6) e fu povero e digiuno (Pd XXIV 109), non richiese a Mattia oro o argento quando quest'ultimo fu scelto per sostituire Giuda (If XIX 94-96). Sia s. Pietro che s. Paolo, magri e scalzi, / prendendo il cibo da qualunque ostello (Pd XXI 128-129) secondo le affermazioni di s. Pier Damiano nel cielo di Saturno, condussero vita mendica (cfr. anche XVIII 133-136).
Nel Paradiso è s. Pietro stesso a descrivere vividamente la degenerazione del Papato ai tempi di D., attribuendo in larga misura il suo declino allo sfrenato desiderio ecclesiastico per le ricchezze temporali. Lui e i suoi primi successori, che egli stesso ricorda (Lino, Cleto, Sisto, Pio, Callisto e Urbano), rappresentano illustri esempi di p. papale e di virtù, in contrasto con lo stato attuale di vergognosa corruzione della Santa Sede (Pd XXVII 40-45). Nel paragonare la Roma papale con la figurazione apocalittica della grande puttana di Babilonia, D. riprende in parte questo tema sia nell'acre invettiva scagliata nella bolgia dei simoniaci (la simonia è una figlia del peccato di avarizia, If XIX 90-117), sia nella processione della Chiesa nel Paradiso terrestre (Pg XXXII 109-160).
Al pari dei membri della Chiesa primitiva, anche i grandi riformatori monastici del Medioevo sono per D. modelli della virtù religiosa della povertà. Egli non solo li usa come esempi di virtù ma anche come critici della corruzione monastica ed ecclesiastica di allora. Nel cielo del Sole, s. Bonaventura dichiara che il primo amore di s. Domenico fu per il primo consiglio di Cristo, cioè la p. (Pd XII 73-75; cfr. Matt. 19, 21), é che si distinse dai prelati suoi contemporanei nel non chiedere la dispensa di dare ai poveri meno di quanto dovuto (vv. 88-94). Egli passa poi a denunciare gli abusi interni al suo ordine, il francescano, determinati almeno in parte dal tradimento dell'ideale di p. che fu di s. Francesco (vv. 112-129). Nel canto precedente, e parallelo, s. Tommaso aveva giudicato il lassismo dei domenicani suoi contemporanei prendendo a modello la vita di s. Francesco e il suo matrimonio con madonna P. (Pd XI 118-126). Più oltre s. Benedetto, che cominciò con orazione e con digiuno (XXII 89), connetterà la propria p. con quella di s. Pietro e s. Francesco (vv. 88-90), e si lamenterà che praticando il lusso i benedettini non ascendono più la scala di contemplazione del patriarca Giacobbe (vv. 73-81). In modo analogo s. Pier Damiano ridicolizzarà l'opulenza e l'ostentazione della gerarchia laica (XXI 130-135). Benché in rapporto al tema della p. e della corruzione ecclesiastica s. Bernardo di Chiaravalle non venga menzionato direttamente, è assai probabile che il suo De Consideratione abbia influito sull'atteggiamento dantesco.
La corruzione della gerarchia ecclesiastica, agli occhi di D., fu in larga misura il risultato dell'assunzione da parte della Chiesa di ricchezza e potere temporale conseguenti alla donazione di Costantino (Mn II XI 7, III X, XII 7-9; If XIX 115-117, Pg XVI 109-111, 127-129, Pd XX 55-57). Per rigettare, se non la realtà storica, la validità legale della donazione, D. arreca vari argomenti. Uno è rappresentato dall'insolita opinione secondo cui Cristo non diede mai alla Chiesa il diritto al possesso assoluto di alcuna proprietà. Tale proprietà, egli dice, appartiene non alla gerarchia ma ai poveri ed è tenuta in tutela come patrimonio proveniente dall'Impero (Mn III X 14-17; cfr. II X 1-3). In certo senso D. veniva a estendere la rinuncia francescana della proprietà all'intera Chiesa.
Sicché D. applica con rigore l'ideale della p. apostolica non soltanto agli ordini monastici ma alla Chiesa nel suo insieme, ivi compreso il clero secolare e il Papato, usando poi deliberatamente tale ideale per giudicare la corruzione ecclesiastica dei suoi tempi. Primo e più importante passo verso una riforma ecclesiastica dovrebbe pertanto essere un ritorno alla virtù religiosa della povertà.
Nel Fiore troviamo invece una concezione della virtù religiosa della p. più cinica, che trae origine dal Roman de la Rose. Falsembiante, nonostante la dichiarata ipocrisia, si burla dell'ideale della p. religiosa (CVI-CIX), rigetta il fondamento scritturale della vita mendica (CX-CXV) e accenna alle ingiustizie compiute da Guglielmo di Saint Amour, il principale oppositore dei francescani e dei domenicani in materia di p. apostolica, a Parigi nel sec. XIII (XCII 12-14, CXIX 5-14; cfr. ancora LXXXIX 14, XC 1, CVI 1 e 10, CVIII 10, CIX 2 e 12). È comunque difficile determinare in che misura l'autore del Fiore (sia o no D.) facesse propria questa bassa opinione della p. religiosa.
3. La nozione di p. è usata inoltre per descrivere il povero di Cristo, a vantaggio del quale esiste la proprietà ecclesiastica. S. Bonaventura ricorda come s. Domenico richiese alla Santa Sede che fu già benigna / più a' poveri giusti (Pd XII 88-89) non, come tanti prelati, le decimas, quae sunt pauperum Dei (v. 93), ma l'approvazione del suo ordine. Nella Monarchia, inveendo contro i decretalisti, D. afferma che non hanno pietà dei ‛ pauperes ' Cristi, che essi derubano non solo sottraendo le rendite ecclesiastiche ma depredando quotidianamente il loro patrimonio (II X 1).
Né ciò può sfuggire al giudizio di Dio dal momento che essi non provvedono ai pauperibus, quorum patrimonia sunt Ecclesiae facultates (X 2) e neppure tengono questo patrimonio con graditudine verso l'Impero, da cui pure proviene. Più oltre D. affermerà che il papa può ricevere dall'imperatore il patrimonio ecclesiastico non come possessore, sed tanquam fructuum pro Ecclesia pro Cristi pauperibus dispensator (III X 17).
4. Come virtù civile è contrapposta al peccato di avarizia, fonte principale di corruzione politica. D. applica la virtù della p. non soltanto alla Chiesa ma anche alla società laica. La sua idea di una p. come virtù civile era senz'altro conforme all'adozione della nozione aristotelica di liberalità come virtù media tra i due opposti vizi di avarizia e prodigalità (Cv IV XVII 4; cfr. If VII 25-30 e Pg XXII 40-45), ma più direttamente dipendeva dall'idea romana, stoica in particolare, della p. come virtù civica.
D. aveva familiarità con diverse opere imbevute di pensiero stoico, tra le quali i Paradoxa Stoicorum di Cicerone (Cv IV XII 6) e la Pharsalia di Lucano. Da quest'ultima egli trasse la storia di Amiclate, il povero pescatore così sicuro nella sua p. da non temere Cesare. Nel Convivio D. riferisce questo racconto a sostegno della tesi secondo cui le ricchezze terrene sono dannose in quanto insicure: E ciò vuol dire Lucano nel quinto libro, quando commenda la povertà di sicuranza, dicendo " Oh sicura facultà de la povera vital... "(Cv IV XIII 12, cfr. Phars. V 507-521). Amiclate compare nuovamente nella Commedia come unico amico di madonna P., dopo Cristo e prima di s. Francesco (Pd XI 67-69). Nel Convivio (IV V 11-15) e nella Monarchia (II V 8-17) D. fornisce due liste simili di eroi romani e nel secondo caso per provare che molti Romani sopportarono p., esilio e altre avversità in nome del bene comune. Tra questi eroi è Cincinnato, che abbandonò il suo aratro per divenire dittatore di Roma (cfr. anche Pd XV 127-129), e Fabrizio, che rifiutò i doni di Pirro re dell'Epiro. Nel Purgatorio, insieme con la vergine Maria gli avari invocano Fabrizio, poiché, essi dicono, con povertà volesti anzi virtute / che gran ricchezza posseder con vizio (Pg XX 26).
Alcuni degli esempi di p. civile arrecati da D. sono più aderenti al suo tempo. Così Romeo, il semileggendario servitore di Raimondo Berengario IV conte di Provenza, viene lodato per la sua virtù e descritto come persona umile e peregrina (Pd VI 135) e povero e vetusto (v. 139). Cacciaguida ritrae il buon tempo antico di Firenze come un tempo di notevoli virtù, quando i suoi concittadini erano gente sobria e pudica (XV 99) che non conosceva preziosi braccialetti, corone, cinture, vesti riccamente decorate e doti smisurate (vv. 100-105). Con ogni probabilità anche la descrizione di Drittura, nella canzone Tre donne, come povera... a panni ed a cintura (Rime CIV 36) è un'eco della p. come virtù civile.
Agli occhi di D. il peccato di avarizia fu il maggior responsabile del declino politico posto in luce dalle lotte intestine scoppiate nelle città-stato (specie Firenze) e nei regni (cfr. Pd VIII 77 l'avara povertà di Catalogna), dalle guerre reciproche e dal disaccordo, incoraggiato dal Papato, contro l'Impero. Dal momento che la virtù civile della p. è un diretto antidoto del peccato di avarizia, solo il ritorno a una vita di p. potrà rappresentare il primo, essenziale passo verso una riforma delle città-stato, dei regni e dell'Impero.
5. Della p. D. si serve per descrivere le condizioni del proprio esilio. Nel Convivio egli accenna alle sue peregrinazioni come a una pena d'essilio e di povertate (I III 3), a causa della quale fu costretto a condurre una vita di peregrino, quasi mendicando (§ 4). Egli dipinge sé stesso come un legno sanza vela, gettato qua e là dal vento secco che vapora la dolorosa povertate (§ 5). Cacciaguida profetizza l'esilio di D. come un periodo di amarezza e di p., allorché sarà costretto a dipendere dall'altrui ospitalità (Pd XVII 55-60), e D. stesso affermerà che il faticoso lavoro per il poema lo ha fatto per molti anni macro (XXV 3).
Nelle lettere la p. diviene una giustificazione: la inopina paupertas quam fecit exilium (Ep II 7) è quella che gl'impedì di presenziare alle esequie di Alessandro, conte di Romena; così pure la rei familiaris angustia (XIII 88) lo trattenne dall'esporre i significati particolari della seconda parte del prologo del Paradiso. Se il suo penoso stato di miseria fu spesso per D. una ragione di angustia, fu però anche una ragione di orgoglio interiore, in quanto fece della sua vita un esempio di quella virtù. civile della p. da lui così strenuamente invocata.
6. Come condizione economica, con riferimento alle persone prive di risorse, in Mn II V 25, If XXI 68; cfr. anche Fiore LXXXV 9, CXIV 5, CXV 3 e 10, CXVII 3 e 8, CLIII 1, CLX 8, CLXVII 14, CLXVIII 13, CLXIX 1, 2 e 4. In Fiore LXXXIII 14 e in Detto 318, 331 e 349 dove il consiglio al poeta di Ricchezza contro Povertà prevale, la condizione di p. assume un valore allegorico.
7. In senso generico p. assume valore aggettivale. Così il termine viene usato da D. per qualificare condizioni fisiche o economiche (Pd VIII 77, Mn II X 1-2), la compassione di sé (Vn VII 15), difetti o qualità (Vn XXX, Pg XIV 45, XVI 2, XXIX 117) e la mancanza di doti intellettuali (Cv I I 9, III IV 2, povertà d'intelletto, V 22) o spirituali (Quaestio 24). Nella cornice dei superbi, i peccatori cantano la prima beatitudine (Matt. 5, 3) in lode della virtù dell'umiltà, o p. di spirito (Pg XII 110).
Bibl. - U. Cosmo, Le mistiche nozze di frate Francesco con Madonna P., in " Giorn. d. " VI (1898) 49-82, 97-117; E.G. Gardner, D. and the Mystics, Londra 1913; C. Mariotti, La p. francescana secondo D.A., Quaracchi 1918; U. Cosmo, L'ultima ascesa, Bari 1936; R. Manselli, D. e l'" ecclesia spiritualis ", in D. e Roma. Atti del Convegno di Studi, Firenze 1965, 115-135.
Il concetto di povertà in Dante. - L'atteggiamento di D. nei riguardi della p. in generale e, in particolare, della p. della Chiesa si colloca sulla linea di un lungo processo storico di cui è necessario ripercorrere le tappe fondamentali, se vogliamo renderci conto, con esattezza, delle idee di D. e della loro importanza nell'ambito della spiritualità del suo tempo. D'altra parte queste idee hanno rilievo anche per la formazione e, insieme, per la comprensione della sua psicologia e cioè per la premessa immediata e diretta della sua liricità.
Quanto alla p., D. tende a collegarsi direttamente con il Nuovo Testamento e in particolare con i Vangeli e con l'esemplarità di Cristo, che vi è indicata e prospettata, distaccandosi, perciò, in pieno accordo con la posizione francescana, dall'esempio della Chiesa primitiva, qual era presentata negli Atti degli Apostoli (4).
Va in proposito ricordato che la comunità cristiana di Gerusalemme aveva realizzato una società in cui tutti versavano i propri beni e le proprie entrate in un fondo comune, dal quale poi attingevano secondo le necessità (Act. Ap. 4, 32-37). Anche se ben presto questa forma di comunismo era stata accantonata in relazione alle necessità della vita pratica e per l'inevitabile adeguamento alle forme giuridiche romane vigenti nell'Impero, che le prime, piccole e modeste Chiese cristiane locali non erano davvero in condizione di trasformare o modificare, la comunità di Gerusalemme rimase esemplare, come quella che aveva potuto realizzare, con la maggiore pienezza possibile, l'ideale di vita associata voluta dal Cristo e dagli Apostoli.
Non si deve però dimenticare che contemporaneamente non mancarono mai personalità e gruppi, che nel desiderio d'imitare la vita del Cristo o per intima esigenza di un'ascesi più severa e rigorosa si proposero una p. totale, con rinuncia a qualsiasi tipo e forma di possesso, anche, perciò, a quello di tipo comunitario della Chiesa di Gerusalemme.
Sin dai primi tempi, quindi, il cristianesimo si presenta come rinuncia al possesso egoistico ed esclusivo di beni, ma si articola anche in due direzioni: come rinuncia completa e totale, come rifiuto di ogni possesso sia personale sia comunitario, oppure come rinuncia individuale, che non esclude il godimento di beni, appartenenti tuttavia alla comunità.
Quando, però, i cristiani divennero, via via, più numerosi, accogliendo fedeli di ogni classe sociale, ivi incluse quelle abbienti, mentre s'inserivano nell'apparato statale romano, divenne inevitabile l'accettazione del diritto di proprietà, che, oltretutto, era necessario all'organizzazione della Chiesa cristiana, cone le sue diverse comunità, in seno allo stesso Impero romano: fu, infatti, possibile avere propri cimiteri, luoghi di riunione, centri di beneficenza, edifici di culto solo in quanto singoli fedeli - più tardi anche delle comunità - ne risultavano ufficialmente proprietari.
Proprio in questo momento l'esempio della Chiesa di Gerusalemme e quello stesso della vita di Cristo si vennero presentando allora non più come gl'ideali di tutti i cristiani, ma come ideali di quanti volevano proporsi una forma di vita più profondamente religiosa e rigorosamente ascetica, come fecero appunto i monaci.
In relazione a queste forme di vita si vennero articolando anche due modi di essere monaci, l'uno, quello dei cenobiti, che si proponeva appunto di seguire l'esempio della comunità di Gerusalemme, e l'altro, quello degli eremiti, che, sulla base dei Vangeli, volevano in solitudine e in rinuncia imitare appunto la vita di Cristo. Questi ultimi furono, certo, più severi e duri nella loro pratica ascetica, ma appunto perciò relativamente poco numerosi, anche se divennero celebri come i padri del deserto in Egitto o come s. Girolamo che nella Palestina con durissima penitenza voleva " nudus nudum Christum sequi ", secondo un'espressione ripresa in seguito più volte nel corso dei secoli. Si diffusero, in maniera assai rapida e con successo, in Oriente prima e poi anche in Occidente, gli altri, i cenobiti, in cui il rigore della vita monastica escludeva, però, l'incertezza per il proprio mantenimento; il possesso di beni comuni, consistenti soprattutto in campi, che i monaci stessi provvedevano a coltivare, consentiva una ragionevole sicurezza di vita. Non a caso il più grande monaco dell'Occidente, s. Benedetto, fu cenobita: la sua Regola perciò, se colpisce con durissime parole di biasimo l'egoistico possesso personale, non esclude quello comune dei beni, con preciso ed espresso riferimento all'ideale della Chiesa di Gerusalemme. Certo s. Benedetto non ignora e non trascura gli eremiti, ma tende a presentarli come un momento più severo e più alto, un gradino più perfetto dei cenobiti, e li considera sempre legati al monastero, di cui essi sono soltanto i figli migliori, capaci, perciò, di una vita più perfetta.
Va, in ogni caso, ricordato che se il cenobitismo, nelle sue varie forme, dominò l'Occidente. durante la tarda età imperiale e per tutto l'alto Medioevo, non mancarono mai casi di eremiti che vissero in solitudine, nell'Occidente, soprattutto in selve o montagne, affrontando i rischi e i disagi di una p. totale: rimasero però sempre una minoranza esigua, ammirata molto, ma assai poco seguita.
Questa realtà di fatto che si venne precisando fra i secoli VI e VII non subì modificazioni degne di rilievo nelle epoche successive: le stesse grandi riforme monastiche, come quella di Benedetto di Aniane nell'età carolingia o le altre di Cluny, di Gorze e di Hirsau nel sec. X, ebbero certo grande importanza dal punto di vista organizzativo, culturale e spirituale, ma non modificarono in alcun modo l'atteggiamento assunto dalla Chiesa e dai vari movimenti religiosi relativamente al problema della p., che rimane quindi negli stessi termini che sono stati finora indicati. È, in ogni caso, doveroso ricordare che proprio questa impostazione cenobitica del monachesimo ne rese appunto possibile l'attività sociale e caritativa, che svolse quei compiti che sono oggi propri della pubblica assistenza, sfamando poveri, aiutando ammalati, intervenendo energicamente - e i casi non sono pochi - nelle carestie.
Non dobbiamo, del resto, meravigliarci di questa staticità delle forme di vita monastiche se pensiamo che essa è strettamente legata all'immobilismo di fondo della vita altomedievale: il cenobitismo, infatti, sembra aver risposto egregiamente alle esigenze, sia religiose sia sociali, ai un mondo i cui sviluppi, anche quando furono vistosi, rimasero appunto e a lungo nell'ambito di un'economia agricola.
Questa situazione cominciò a mutare, assai lentamente, quando, dopo il Mille, lo sviluppo demografico, il miglioramento del tenore di vita, e, in modo particolare, l'aumento del numero delle città e il loro progressivo moto di espansione, provocarono un rinnovamento sempre più profondo della società in tutti i suoi aspetti, compreso quello religioso.
Si venne, infatti, sempre più manifestando un'inquietudine - a tutti i livelli - che fu specialmente provocata e mossa dal fatto che il centro della vita economica, sociale, religiosa, venne trasferendosi dalla campagna alla città, provocando così alterazioni e modificazioni notevolissime nei rapporti precedenti fra i vari gruppi partecipi della vita associata.
È caratteristico che in questo processo di evoluzione venga acquistando un peso sempre maggiore proprio la questione della p., che si fa più acuta e presente alla coscienza dei contemporanei, provocando crisi e polemiche rivolte specialmente al monachesimo. Questo, da parte sua, avvertiva il progressivo distacco delle masse - è la cosiddetta crisi del cenobitismo dei secoli XI e XII -, con una presa di coscienza di grande importanza storica, il cui centro focale sembra essere appunto l'esigenza di mantenersi e proporsi come esempio di vita povera.
Contemporaneamente - e ciò ribadiva, se mai, la crisi del cenobitismo - vennero acquistando significato e importanza sempre maggiore proprio gli eremiti, il cui numero crebbe e la cui influenza fu sempre più determinante nelle forme e negli aspetti della vita religiosa; dovunque si attribuirono, con un successo spesso straordinario, l'ufficio della predicazione di terra in terra e di città in città; eremita fu appunto quel Pietro d'Amiens, famosissimo per aver predicato la crociata in Francia all'indomani del concilio di Clermont e per aver capeggiato quella prima massa di crociati, che per inesperienza militare doveva poi finire massacrata in Asia Minore.
Non a caso la crisi del cenobitismo e l'affermazione del fenomeno eremitico si rivolsero, appunto, come si è già detto, allo sforzo di realizzare la p. nel modo più conforme a Cristo. Ne vennero alcuni tentativi di riforma monastica, fra le quali ebbero maggior rilievo quella certosina e quella cisterciense, tra la fine del sec. XI e l'inizio del XII. Nell'una come nell'altra si cercava di recuperare il meglio dell'esperienza eremitica, pur mantenendo alcuni aspetti essenziali del cenobitismo: così alla rigorosa solitudine personale dei certosini si consentiva il mantenimento della proprietà comunitaria, ma si avvertiva che ogni monaco doveva contentarsi del minimo necessario alla sua sopravvivenza, perché tutto il resto, in quanto superfluo, andava ai poveri.
I cisterciensi, a loro volta, isolandosi nei cosiddetti ‛ deserti ', località relativamente lontane dalla folla, erano rigorosamente tenuti al lavoro, in una severa disciplina ascetica quanto al cibo e agli abiti. Eppure sia i certosini che i cisterciensi furono costretti a difendere la loro p. rispetto a quanti ne contestavano l'effettiva validità, rimproverando loro appunto il fatto che, malgrado tutto, essi erano, sia pure in comune, ancora e sempre gente che possedeva.
Questi rimproveri giungevano da più parti, specialmente da eremiti predicatori, che affermavano la necessità del ritorno al Cristo e alla sua rinuncia a ogni bene, con un'accettazione del rischio e dell'incertezza della vita quotidiana del povero, che non sa quel che avrà o non avrà l'indomani; ma poi anche da eretici.
L'inquietudine religiosa, che specialmente nei mondo cittadino aveva trovato un campo favorevolissimo alla sua diffusione, si era rivolta, in un confronto fra le massime dell'Evangelo e la vita effettiva del clero, a una critica spesso dura e severa della p. ecclesiastica: perciò si rimproverava ai monaci e ai canonici di qualunque tipo di essere dei falsi poveri, perché i beni terrieri che essi possedevano in comunità li sottraevano di fatto a ogni rischio di p. vera, mancando essi di ogni incertezza circa il futuro; al clero in genere, ai prelati e ai vescovi si rinfacciava la ricchezza e la potenza mondana, più lontana che mai dall'esempio dato da Cristo e dagli Apostoli. La città in modo particolare, per la ristretta vita in comune e per i frequenti e continui rapporti tra i vari strati sociali, divenne il centro di questi fenomeni pauperistici ortodossi o non.
Senza entrare in ulteriori particolari ci limiteremo a dire che la p. diventa, nel corso del sec. XII, uno dei problemi centrali della vita sociale e, di rimbalzo, di quella religiosa: non vi è fenomeno spirituale, che in vari modi, toni e livelli non prenda posizione nei suoi riguardi. Stefano di Muret, eremita, dopo aver a lungo predicato per la Francia, organizzò un ordine religioso, quello che si disse appunto di Grammont, ove uno dei cardini dei suoi ordinamenti era un tentativo di compromesso fra la p. cenobitica e quella totale. Un altro eremita, Enrico, in un suo lungo itinerario di predicazione che dalla Svizzera, per la Francia settentrionale e centrale, doveva condurlo alla fine a Tolosa, affermava, tra l'altro, l'obbligo della p. per il clero e i prelati, entrando perciò con loro in aspro conflitto. Più di tutti ebbe speciale rilievo un ricco mercante di Lione, Valdo, che nella sua esigenza di p. e nella sua volontà di predicazione, seguendo il consiglio dell'Evangelo, vendette i suoi beni e li distribuì ai poveri, creando un movimento, quello che da lui prese il nome di valdese, condannato dalla Chiesa, ma che ebbe una risonanza, per molti aspetti, anche più ampia e significativa di quanto non risulti dalle testimonianze giunte fino a noi.
In realtà emerge nel sec. XII, e si fa sempre più imperativo, l'ideale della p., come momento più alto ed essenziale del messaggio evangelico in un'esigenza d'incontro e di contatto con le masse più povere delle città, la cui indigenza è assai più grave, i cui bisogni assai più pungenti di quanto non lo fossero stati fra i contadini dell'alto Medioevo. Si afferma perciò contemporaneamente l'esigenza della Chiesa povera, come unica che possa davvero richiamarsi a Cristo, al suo messaggio e all'esempio che egli ci ha lasciato, con una condanna assai facile della Chiesa ricca, potente e sempre più legata a interessi mondani: non a caso, proprio in ambiente valdese, sembra essersi maturata la condanna della donazione di Costantino (v.), e la designazione della Chiesa ricca come Babilonia, la ‛ meretrix magna ' di cui parla l'Apocalisse (19, 2).
Momento conclusivo di quest'affermazione del valore e del significato della p. per la vita cristiana e per la Chiesa è Francesco d'Assisi, in cui la fervida adesione all'ideale pauperistico si accompagna a un consapevole capovolgimento di tutti i valori mondani, in un'imitazione di Cristo e in un'accettazione dell'Evangelo completa e totale. Francesco sa benissimo quanto la sua posizione relativa alla p. sia lontana da quella ufficiale della Chiesa, se nel suo Testamento sente il bisogno di ricordare che nessuno gl'indicava che cosa dovesse fare e che lo stesso Iddio gli rivelò che doveva vivere " secondo la forma del santo Evangelo "; e questo significò per lui appunto vivere in p. completa e assoluta.
Questo sembra, infatti, specifico e caratteristico del Poverello d'Assisi; egli riaffermò l'ideale della p., non per un ripensamento giuridico o teologico, ma in uno slancio spontaneo e immediato d'intuizione spirituale, per un processo d'identificazione col Cristo e nel Cristo: la p. diventa perciò creatura viva da corteggiare e amare nelle forme e nei modi della poesia cavalleresca, da cantare e celebrare come " giullare di Dio " e " araldo del Gran Re ".
Ovviamente, quando il numero dei fratelli, i frati minori, crebbe e si rese necessaria la stesura di una regola, la p. francescana si configurò come un rifiuto non solo del ‛ proprio ', come già avevano fatto per secoli, appunto, i monaci, ma anche del possesso comunitario (del ‛ comune '), che invece i cenobiti avevano sempre mantenuto. I contemporanei sentirono, perciò, la p., proposta e voluta da s. Francesco, come qualcosa di assolutamente nuovo, ma che pur si ricollegava, al di sopra dei secoli, direttamente all'esempio stesso del Cristo: non a caso il Poverello d'Assisi, anche per il fatto delle stimmate, ma non meno per la p., venne detto dai contemporanei " alter Christus ".
La p. totale con la rinuncia di ogni proprietà anche collettiva e comune restò, dunque, caratteristica del francescanesimo; ma ben presto intervennero nuovi fattori, che sembrarono modificarla o, almeno, caratterizzarla diversamente. Francesco, infatti, alla sua morte aveva inteso, nel suo Testamento, indicare sé stesso come modello ed esempio della sua p., bloccando inoltre ogni possibilità di mutamento con il consiglio di evitare ogni richiesta di privilegio, anche per gli scopi più santi, alla Curia romana. Su questo punto si ebbero ben presto difficoltà in seno all'ordine minoritico, prospettando alcuni - ed erano i più vicini al santo nella sua vita mortale - la necessità di rimanere fermi a quanto era stato indicato e insegnato dal loro fondatore e maestro, opponendo altri - ed erano i più, insieme con gran parte della gerarchia dell'ordine stesso - la necessità di avere dal papa direttive e disposizioni utili alla migliore organizzazione dei frati, anche per il fatto del loro straordinario incremento numerico. In questo contrasto, destinato nei successivi decenni nel sec. XIII ad approfondirsi sempre più fino a sfociare nella vera e propria divisione fra comunità e spirituali con durissimi scontri, fu al centro, appunto, il problema della p., che, d'altra parte, era sempre vivamente sentito anche in tutta la restante comunità cristiana.
A render più acuto questo contrasto contribuì l'influenza che esercitarono sugli spirituali - ma anche su molta parte degli altri minori - le idee gioachimitiche (v. GIOACHINO da FIORE; Profetismo), per le quali l'ordine francescano si sentì chiamato a una vera e propria missione provvidenziale con un dovere di esemplarità nel popolo cristiano, in cui grande importanza era attribuita appunto alla povertà.
Quando alla metà del Duecento spirituali e gioachimiti si videro combattuti non solo dalla gerarchia dell'ordine ma anche da quella ecclesiastica, essi trovarono che il motivo fondamentale della lotta contro di loro era appunto l'abbandono della p. da parte delle gerarchie, così che molti frati minori - essi ritenevano - i quali deviavano dal dovere della p., avevano l'appoggio di vescovi e di pontefici. Venne così maturando un aspro atteggiamento di critica verso la gerarchia e la stessa curia papale, che prende le mosse specialmente e soprattutto dall'abbandono della p. anzi dalla ricchezza degli uomini di Chiesa, dall'abuso del diritto canonico (v. DECRETALI) che viene accusato di soppiantare l'Evangelo, dalle continue compromissioni con i potenti e i ricchi del mondo. È questo un atteggiamento che percorre tutto l'ambiente francescano in una serie molteplice di personaggi, da Antonio da Padova a Ugo di Digne, a Giovanni da Parma, prima di esser motivo essenziale delle polemiche, come si è detto, degli spirituali, quali Corrado da Offida, Angelo Clareno e più tardi anche Ubertino da Casale. In costoro la polemica raggiunge toni esasperati e duri, a cui rimase estranea, sostanzialmente, la più grande personalità francescana alla fine del Duecento, Pietro di Giovanni Olivi (v.). Questo, pur condividendo l'ideale di una comunità francescana, stretta al suo fondatore nell'esigenza e nel dovere della p., si manteneva serenamente rassegnato di fronte agli attacchi e alle durezze della comunità, senza mai trascendere a posizioni polemiche o a gesti di ribellione, come fecero invece la più gran parte degli spirituali, soprattutto d'Italia.
È noto che questi ebbero l'appoggio di Celestino V, che del francescanesimo aveva appunto amato la p., mentre furono poi dispersi e perseguitati da Bonifacio VIII, anche perché avevano rifiutato di riconoscere la validità della sua elezione a pontefice, come della precedente abdicazione di Celestino.
Alla fine del sec. XIII, perciò, e all'inizio del successivo, il problema della p. rimaneva scottantemente attuale, anche per i contrasti in seno all'ordine minoritico e per le difficoltà con Bonifacio. Né le cose mutarono con Clemente V, che, anzi, propose questi problemi alla discussione nel concilio da lui convocato a Vienne.
Col suo successore Giovanni XXII e in conseguenza delle lotte sempre più aspre fra comunità e spirituali il problema della p. minoritica venne posto al centro della vita della Chiesa e fu oggetto di un'amplissima discussione teologica in seguito a una vera e propria inchiesta voluta dal pontefice. Questo, a sua volta, prese la sua decisione in una bolla famosa Cum inter nonnullos del 1323 che dichiarava eretica la tesi secondo cui Cristo non avrebbe posseduto nulla, negando con ciò che la p. davvero evangelica fosse soltanto quella francescana. In quest'anno però, giova ricordarlo, D. era già morto.
Da quanto finora si è detto, risulta evidente l'importanza della questione della p. nell'ambito della Chiesa dell'età di D.; da ciò l'interesse a conoscere l'atteggiamento del poeta in proposito, per sottolinearne l'importanza e il significato.
A tal fine è, prima di tutto, opportuno cercare di determinare il punto di vista di D. relativamente alla povertà.
Va precisato, a questo punto, che egli, diversamente da correnti ereticali del suo tempo, non condanna la ricchezza in quanto tale, ma solo i suoi abusi e le sue deviazioni, la prodigalità e l'avarizia, come risulta limpidamente da quanto dice nel c. VII dell'Inferno, ove il tema della ricchezza è affrontato dichiaratamente, mentre è solo accennata la beatitudine dei pauperes spiritu in Pg XII 110. Di un certo sdegnoso dispregio della ricchezza ci sembra, tuttavia, animata la discussione sulla nobiltà, ove si rifiuta appunto la tesi che la base della nobiltà possa essere l'antica ricchezza (Cv IV X 1). Inoltre va sottolineata la divina ispirazione per cui rifiutarono immense quantità d'oro, al tempo della repubblica romana, e Fabrizio e Curio: per quest'ultimo è, anzi, caratteristica la motivazione che li romani cittadini non l'oro, ma li possessori de l'oro possedere voleano (V 13; cfr. Pg XX 25-27), ove ci sembra cogliere, nella sottile distinzione del disinteressato eroe, la riduzione del danaro alla sua funzione strumentale e, quindi, subordinata e secondaria, tale perciò da non tentare un animo bennato. Più oltre, tuttavia, non giunge; né ha mai sostenuto il dovere della p. per il laico, mantenendosi perciò, del resto, sulla linea della società fiorentina del suo tempo.
Profondamente diversa e in netta opposizione con le idee correnti è, invece, la posizione di D. per quel che riguarda la p. della Chiesa: su questo punto egli è su di un piano di radicalità estrema, sì da raggiungere il sottile confine tra ortodossia ed eresia, mentre va aggiunto che su queste posizioni egli si ferma con una coerenza e una continuità assoluta.
È, in questo senso, estremamente significativo l'atteggiamento di D. nei riguardi della donazione di Costantino (v.), che viene indicata ben due volte, nella Monarchia e nella Commedia, come il momento iniziale e gravissimo della compromissione della Chiesa col mondo. La trattazione più ampia si trova senza dubbio in Mn III, ove dopo il ricordo appunto della donazione si discute della legittimità e della validità di tale donazione: ai nostri fini è soprattutto decisivo il passo finale del capitolo X ove, sulla base di un passo di Matteo (10, 9-10), si afferma la Chiesa indisposita... ad temporalia recipienda (Mn III X 14), cioè incapace giuridicamente, moralmente e spiritualmente a essere proprietaria di ricchezze, o almeno di oro e di argento, di danaro, quindi, come lo stesso D. precisa subito dopo. E precisa anche che la Chiesa, per la sua stessa natura voluta dal proprio fondatore Gesù Cristo, non poteva accettar nulla come possesso, mentre del resto l'imperatore non poteva alienare. Al massimo la Chiesa poteva ricevere dei beni, non in possesso, ma in usufrutto per poi distribuire il ricavato ai poveri. La Chiesa è, perciò, a suo giudizio, povera per essenza, in maniera tale da non consentire eccezione; non solo, ma ogni sua eventuale ricchezza è totalmente al servizio dei poveri. Deriva da questo la condanna che nella mistica processione del Purgatorio troviamo della donazione di Costantino, per cui si riprende la tradizione largamente diffusa della dolente voce che si sarebbe udita in Roma, proclamando che la donazione avrebbe immesso veleno nella Chiesa di Dio (Pg XXXII 124-129): D. consacra così un motivo che era stato elaborato in seno alle conventicole ereticali e che era passato poi negli ambienti ortodossi radicali.
Ancor più esplicitamente la donazione, e l'arricchimento conseguitone, vennero messi in relazione coi papi nelle severissime parole che costituiscono l'appassionata apostrofe contro i simoniaci: Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, / non la tua conversion, ma quella dote / che da te prese il primo ricco patre! (If XIX 115-117), ove la collocazione degli aggettivi vuol rendere evidente - in un tono d'indiscutibile condanna - la svolta che la ricchezza, entrata per la prima volta nella Chiesa, comportava per tutta la vita della Chiesa stessa.
Proprio quest'apostrofe del canto dei simoniaci ci consente anche di collocare questa condanna della ricchezza e l'implicita esaltazione della p. per il Papato e, quindi, per tutta la gerarchia, in un contesto storico preciso, che ci consente di meglio comprendere e approfondire le idee di D. sulla povertà. Il poeta, infatti, si richiama all'Apocalisse, alla meretrice che fu vista puttaneggiar coi regi (If XIX 107), alla bestia con le sette teste e le dieci corna: siamo in una linea d'idee ben nota e precisa, quella, appunto, degli spirituali francescani, sia pure con le limitazioni e attenzioni che più oltre indicheremo.
Ciò ci consente, allora, di comprendere e apprezzare in tutta la sua portata l'esaltazione della p., che troviamo nel canto di s. Francesco (Pd XI). Mentre si ricorda di sfuggita, e a conferma di quanto qui si dice, come la stessa inquadratura dei canti di s. Francesco e di s. Domenico è strettamente collegata all'impostazione storiografica e provvidenziale dello spiritualismo francescano, va subito detto che tutta l'esaltazione della p. ribadisce, con piena evidenza, il rapporto col mondo francescano, e sempre ‛ spirituale '. Senza negare possibili reminiscenze dell'anonimo Sacrum Commercium beati Francisci cum domina Paupertate, e dell'Arbor vitae crucifixae Iesu di Ubertino da Casale, è caratteristicamente minoritico nel canto di s. Francesco l'accenno ai millecent'anni e più in cui la p. dispetta e scura / fino a costui [Francesco] si stette sanza invito (Pd XI 65-66): significa il più pieno consenso alla tesi che l'unica e vera p. evangelica è quella di s. Francesco; tale, invece, non sarebbe stata quella che venne praticata dalla comunità di Gerusalemme fino al Poverello di Assisi. Ne viene chiaro e netto proprio il rifiuto della p. monastica, che, dunque, agli occhi di D. non può essere considerata vera povertà. Ma ancor più interessante ci sembra, sempre su questa linea interpretativa, l'accenno al Testamento di s. Francesco, là dove si dice: a' frati suoi, sì com'a giuste rede, / raccomandò la donna sua più cara, / e comandò che l'amassero a fede (vv. 112-114). Se si pensa all'importanza che il Testamento ebbe nel contrasto fra comunità e spirituali e come questi ultimi si sentissero strettamente obbligati a rispettarlo, proprio e soprattutto perché raccomandava l'amore alla p., è giusto ritenere che D. abbia aderito alla concezione della p. quale veniva proposta e sostenuta dagli spirituali. Inoltre, come si è visto, per quel che riguardava la p. della Chiesa, D. accetta posizioni anche più decise e radicali, che fra teologi e canonisti non vennero mai neppur proposte alla discussione. Persino un Ubertino da Casale, che, come ci sembra, vien rifiutato da D. (Pd XII 124-126) per le sue interpretazioni restrittive della regola, in quanto voleva formalmente obbligatorio anche quel che doveva nascere da una libera adesione alla p., non aveva rifiutato al papa o ai vescovi il diritto di possedere.
Questa concezione della p. ha un'importanza notevole per l'approfondimento del cristianesimo di D. nell'ambito della spiritualità del suo tempo. Egli da un lato sembra sdegnare la tendenza, ormai vivacemente affermatasi in Firenze, di procurarsi guadagni e danari mediante i traffici e i commerci, come mostra il gruppo dei canti XV-XVII del Paradiso con la sua esaltazione della Firenze antica e come indicano gli accenni sprezzanti di D. agli arricchimenti facili e subiti di cittadini e più ancora d'inurbati, che ancor mantengono il puzzo (Pd XVI 55) della campagna donde provengono. D'altro lato il suo ideale economico sembra essere, per i laici e per coloro che vivono nel mondo, un guadagno che, provenendo dalle rendite dei possessi terrieri o dal proprio lavoro, consenta una signorile liberalità.
Da ciò nasce lo sdegno, tanto più acceso, contro la cupidigia del clero, condannabile già dal punto di vista ideale ‛ laico ' di vita, che di per sé escluderebbe ogni e qualsiasi bramosia accanita di ricchezza, ma ancor più su di un piano religioso. I chierici, i prelati, gli stessi papi, avidi di denaro, attenti solo a come procurarselo, dimentichi perciò dei poveri e dello stesso Cristo, sono doppiamente e irreparabilmente colpevoli, tanto più che dovrebbero essere la guida dell'umanità per la salvezza eterna dei fedeli, loro affidata.
Dall'amaro contrasto fra realtà della Chiesa e ideale, additato dal Cristo, ricevono forza e trovano la loro ragione il richiamo alla dottrina morale della fede, l'ardore dell'invettiva, l'energia di rappresentazioni poetiche e d'immagini, ma soprattutto si origina la passione profetica, che anima l'opera intera di D. e culmina nella profezia della Commedia.
Bibl. - Il problema della p. nel Medioevo è oggetto di uno studio, comodo per l'utile indicazione dei dati, di Von Dmitrewski, Die christliche freiwillige Armut von Ursprung der Kirche bis zum 12. Jahrhundert, Berlino e Lipsia 1913, al quale vanno affiancati un gruppo di lavori più recenti: M. Mollat, La notion de pauvreté au Moyen Age: position des problèmes, in " Revue d'Histoire de l'Église de France " CXLIX (1966) 5-23; J. Leclercq, Pour l'histoire du vocabulaire latin de la pauvreté, in Mélanges Mgr P. Dib, Kaslik 1967 (= " Melto. Recherches orientales " III [1967] 1-2) 293-308; M. Mollat, Le problème de la pauvreté au XIIe siècle, in Vaudois languedociens et Pauvres Catholiques, Tolosa 1967, 23-47; E. Delaruelle, Le problème de la pauvreté vu par les théologiens et les canonistes dans la deuxième moitié du XIIe siècle, ibid., 48-63. Per il problema della p. in D.: B. Nardi, La " donatio Constantini " e D., in Nel mondo di D., Roma 1944, 107-159; ID., Dal Convivio alla Commedia, ibid. 1960