Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
All’inizio dell’Ottocento un artista ammesso in accademia ritiene di aver raggiunto il culmine della carriera. Perno del rapporto arte-società, l’istituzione accademica concede ai soci prestigio e facilitazioni sulla strada del successo, mentre l’ostilità del potere accademico è una iattura, una minaccia che intralcia anche il cammino dei più dotati e promettenti.
Le accademie nascono nella seconda metà del Cinquecento con finalità corporative, in difesa degli interessi di categoria.
La prima viene fondata a Firenze da Giorgio Vasari nel 1563, seguita a quattordici anni di distanza dall’Accademia romana di San Luca, presieduta da Federico Zuccari e modellata sul prototipo fiorentino. La struttura didattica è basata sulla pratica del disegno, ma l’attività principale è quella onorifica: concorsi a premio, aggregazione di soci eminenti, distribuzione di diplomi e attestati. A imitazione degli istituti italiani, nel 1648 a Parigi nasce l’Académie Royale, presieduta da Charles Le Brun, che adotta una dottrina dogmatica – il classicismo cesareo – per esaltare il ruolo sociale e intellettuale dell’artista: un modello forte ben presto imitato in tutta Europa dove, nel corso del Settecento, si registra una notevole proliferazione delle accademie che alla fine del secolo sono ormai un centinaio. La didattica rimane sostanzialmente immutata, mentre la gestione del potere culturale si sviluppa sino a toccare vertici ritenuti insostenibili da coloro che del sistema non fanno parte e che non possono sfruttarne vantaggi e privilegi.
L’evoluzione intellettuale e sociale dell’artista, e il manifestarsi dei primi fermenti romantici possono giustificare alcuni episodi – isolati ma clamorosi – di contestazione dell’apparato accademico come centro di potere e come struttura didattica.
L’insegnamento accademico è normativo, fondato su una serie di regole vincolanti per l’allievo; canone ispiratore vigente è la mimesi, l’imitazione delle opere del passato classico oppure della natura, nell’ideale ricerca di un assoluto estetico.
Si tratta dunque di una didattica autoritaria, chiusa alle innovazioni e alle alternative, e strutturata in modo da indirizzare verso uno sbocco univoco le tendenze espressive degli studenti. Scesi sul terreno della contestazione, per conquistare il riconoscimento della libertà fantastica, gli artisti romantici mettono in discussione quel sistema concettuale e didattico così restrittivo e soffocante. Ai giovani protesi verso la conquista di nuovi linguaggi espressivi e di nuovi spazi formali la rigida educazione artistica impartita nelle scuole accademiche risulta insopportabile. L’insofferenza traspare nei commenti pungenti e sprezzanti di molti artisti dell’epoca, da Goya a Füssli, da Koch a Friedrich.
Gli artisti non chiedono l’abolizione delle accademie, non ne mettono in dubbio le finalità etico-professionali, ma l’insofferenza che dimostrano è il chiaro sintomo di una crisi evolutiva e di un malessere diffuso che coinvolge la cultura europea nel trapasso da un secolo all’altro.
Il dissenso colpisce due aspetti del funzionamento pratico delle accademie: il metodo didattico e l’allestimento delle mostre annuali, la cui prassi selettiva penalizza molti giovani scalpitanti talenti. L’insegnamento invece non viene mai rifiutato nei suoi principi di fondo: nessuno mette in dubbio che la pratica del disegno dal vero è il migliore esercizio possibile, l’unico in grado di garantire la maturazione tecnica e spirituale. Anche le scuole private e le botteghe d’arte, del resto, sono modellate sugli stessi canoni e il metodo dei docenti esterni all’accademia, alternativi agli istituti ufficiali, è una copia conforme del corso di studi pubblici.
Le correzioni e le riforme ottocentesche non alterano la sostanza, non intaccano il nucleo essenziale della didattica accademica. L’introduzione in Germania delle Meisterklassen per merito dei docenti nazareni Peter Cornelius e Wilhelm von Schadow rende più stretto e funzionale il rapporto tra maestri e allievi, migliora la qualità dell’insegnamento, ma non si pone in dubbio l’essenza di un metodo che da un punto di vista teorico è considerato perfetto e pertanto immutabile.
Nel corso dell’Ottocento l’inarrestabile sviluppo della civiltà industriale stimola la messa a punto di una nuova didattica del disegno, finalizzata alla produzione di oggetti industriali. La Great Exhibition londinese del 1851 mette a nudo la rozzezza del disegno tecnico e gli osservatori più sottili – come il tedesco Gottfried Semper e il francese De Laborde – sollevano il problema dei requisiti estetici del prodotto industriale.
La scuola deve farsi carico della formazione di disegnatori specializzati nella progettazione di oggetti che siano belli e utili allo stesso tempo. Alle accademie d’arte si affiancano allora istituti professionali e l’insegnamento del disegno, prima accentrato nelle accademie, si diffonde su più livelli. Aboliti i corsi di disegno elementare delle accademie, si affida alle classi di prima scolarità l’insegnamento dei rudimenti di tecnica disegnativa, mentre nella fascia superiore le scuole d’arte e mestieri si assumono l’incarico del disegno industriale. Alla fine di questo processo di rinnovamento, le accademie d’arte rimangono un punto di approdo per i giovani più dotati, dei pochi eletti la cui mano lascia presagire una brillante carriera d’artista.
Le accademie dispongono di una serie di strumenti di persuasione manifesta: l’appalto delle committenze ufficiali, occasioni di lavoro ambitissime e remunerative; l’incentivo dei premi annuali (ad esempio, il pensionato romano concesso agli allievi più meritevoli); l’ammissione alle esposizioni che consentono agli artisti di raggiungere una più vasta platea di amatori e collezionisti; il prestigio e i privilegi che il titolo di artista “accademico” – socio benemerito dell’istituto pubblico – assicura all’interno di una società borghese ligia ai valori ufficiali. La pressione dell’opposizione riesce però a strappare gli strumenti di potere dalle mani dell’accademia.
Fino a metà Ottocento l’istruzione artistica viene affidata ai maestri accademici, ma in seguito come afferma Pevsner: “molti Paesi si riscontra la tendenza a distogliere dal lavoro scolastico di routine i corpi accademici, che avevano acquistato carattere rappresentativo e consultivo”. In Francia, dove prima e meglio si è sviluppato il potere dell’istituzione, il ridimensionamento risulta più vistoso: sin dall’inizio dell’Ottocento, per volere di Napoleone Bonaparte, la Scuola di Belle Arti viene separata dall’Accademia, anche se il collegio accademico riesce ancora a condizionarne l’attività. E se nel resto d’Europa sono già stati eliminati i concorsi a premio – occasioni contestate di favoritismi e sopraffazioni – a Parigi le giurie sono invece conservate e tollerate a lungo.
Nel 1863 Napoleone III esclude gli accademici dal controllo dell’educazione artistica e delle esposizioni annuali. Dopo un breve esperimento di gestione statale, il Salon è definitivamente assegnato alle associazioni corporative degli artisti. Il declino del Salon ufficiale dà spazio e vigore a iniziative concorrenti, a gallerie private, ad abili mercanti, a un libero e spregiudicato commercio delle opere d’arte.
La fine delle manifestazioni pubbliche e della dittatura della giuria non è comunque merito esclusivo delle coraggiose iniziative degli artisti d’avanguardia; lo stesso apparato accademico, infatti, è ormai incapace di continuare a svolgere un’opera di mediazione tra le esigenze degli artisti alla ricerca di affermazione – e di vendite – e le richieste dei collezionisti, aumentati a dismisura anche grazie all’opera di diffusione e di propaganda svolta dai Salon.
La didattica è devoluta all’Ecole des Beaux-Arts, istituto statale autonomo e finalmente dopo oltre mezzo secolo di vita autogestito; mentre l’Accademia d’arte sopravvive come settore dell’Institut de France: un’anacronistica struttura onorifica. Nel resto d’Europa, dove accademia e scuola rimangono saldate in un unico blocco, il processo di dequalificazione risulta altrettanto inevitabile: svuotato della polpa e della sostanza del potere, il corpo accademico si prosciuga, si essicca.
A nulla valgono i disperati tentativi di salvaguardia del prestigio sociale dell’istituzione e dei suoi membri.
Morta la vecchia, potente organizzazione oligarchica e assolutista, dalle sue ceneri nasce un fragile apparato didattico specialistico, estraneo alla società e privo di effettiva incidenza culturale, con un presente mediocre e un futuro incerto.