Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La letteratura della postmodernità si confronta con uno scenario globale, con l’Europa delle metropoli e delle reti, con una revisione dell’idea tradizionale di scrittura. In particolare, si rilegge il passato attuando riscritture parodiche, reinvenzioni di temi e generi; si edificano labirintici iper-romanzi; si attinge a un ampio repertorio cinematografico; si riscrivono le storie e i miti della letteratura mondiale a partire da punti di vista nuovi, minoritari; infine, si affrontano le grandi paure individuali e collettive con un senso giocoso della scrittura, in piena libertà creativa.
Antonia S. Byatt
Possessione
“È curioso” disse Maud “se fossimo ossessionati l’uno dall’altra nessuno penserebbe che siamo pazzi”. “Val è convinta che siamo ossessionati l’uno dall’altra. Ha detto anche che comunque è più sano dell’essere ossessionato da Randolph Ash”.
A.S. Byatt, Possessione, Torino, Einaudi, 1992
Lo scenario globale sul quale si muovono la cultura e la letteratura della seconda metà avanzata del Novecento viene racchiuso sotto l’insegna della postmodernità, una reazione alla “pienezza” della fase calante della modernità, contraddistinta da proclami sulla fine della Storia, dei significati, delle grandi istituzioni o “narrazioni” che hanno preteso di spiegare l’andamento del mondo (così secondo l’influente teoria del filosofo francese Jean-François Lyotard). Lo spirito distintivo di quest’epoca, la sua essenza distillata, riceve il nome di postmoderno, un concetto che unifica diverse tendenze, diversi umori nella coscienza di venire “dopo”: dopo la modernità, dopo un’epoca nella quale la supremazia del linguaggio ha saturato il mondo di parole, di immagini, di teorie.
L’arte che esprime una simile coscienza rientra a pieno titolo nella definizione di postmodernista, in quanto dà voce a un senso di “esaurimento storico” (nella celebre definizione del romanziere e critico americano John Barth) delle possibilità creative e a una conseguente volontà di sottoporre a critica gli assiomi precostituiti e ricreare, spesso per mezzo di accostamenti incongrui e paradossali, percezioni nuove, storie alternative rispetto a quelle propagate ufficialmente, personaggi e situazioni spiazzanti quanto a credibilità e riconoscibilità, effetti di sovrapposizione inquietante tra passato e presente. In letteratura convivono due atteggiamenti distinti: avremo a che fare con scrittori inequivocabilmente postmodernisti, ossia nei quali il progetto di critica e di riplasmazione della realtà è perseguito visibilmente, e scrittori ascrivibili al tempo nel quale vivono, l’età postmoderna, volti a mantenere un’autonomia di stile e di interessi tematici. Nelle pagine che seguono ci si riferirà primariamente alla prima ipotesi classificatoria, segnalando i casi nei quali si configura una più spiccata adesione alle linee progettuali postmoderniste.
In ultimo, ragionando di un contesto europeo, occorre leggere lo sviluppo di una letteratura postmoderna partendo dai suoi presupposti in realtà extraeuropee: è negli Stati Uniti che il romanzo postmodernista si afferma, legato primariamente ai nomi di Thomas Pynchon e Don DeLillo, e ai loro rispettivi capolavori, L’arcobaleno della gravità (Gravity’s Rainbow, 1973) e Underworld (1997), ma sono in molti a partecipare di questa definizione critica: si ricordino almeno il già citato Barth, Kurt Vonnegut, Robert Coover, Donald Barthelme, Richard Brautigan, William H. Gass, Edgar L. Doctorow, Stanley Elkin e, tra le generazioni più giovani, David Foster Wallace.
In Europa, oltre agli influssi letterari, è principalmente l’architettura (insieme al dibattito sulle sue forme, i suoi orizzonti, i suoi designer) a convogliare i nuovi segni del tempo, promuovendo riflessioni, dibattiti, antologie tra gli anni Settanta e gli Ottanta. E forse non è un caso che, in questo periodo, un grande romanzo francese tematizzi proprio le forme architettoniche, nello specifico quelle quotidiane di un condominio parigino: in La vita: istruzioni per l’uso (La vie: mode d’emploi, 1978), Georges Perec mette a punto una sofisticata logica aritmetica e scacchistica sulla base della quale procede il narratore del romanzo. Il libro si articola seguendo una progressione descrittiva, mirando a esaurire gli oggetti presenti nei singoli appartamenti, visti come al microscopio, togliendo la facciata all’edificio per potervi leggere le vicende, i vissuti, lo scorrere del tempo nell’intimità avvolgente dell’appartamento. I capitoli si susseguono chiedendo la cooperazione del lettore, invitato a seguire la pianta condominiale acclusa al volume, mentre la descrizione si snoda in un irrefrenabile entralacement di episodi accennati e poi ripresi, secondo la progressione aritmetica citata in precedenza. La riflessione del narratore è oggettiva, quasi un inventario, ma dagli oggetti inventariati promana il fascino della nostalgia (una delle atmosfere-chiave del postmodernismo, in letteratura come nel cinema e nell’architettura), un senso di partecipazione, affettuosa e ironica insieme, alle sorti dei personaggi, mai disgiunti dall’accumulo consumistico che la casa registra e archivia. L’interesse dello scrittore per la società del capitalismo avanzato e le sue contraddizioni emergeva già nel romanzo d’esordio di Perec, Le cose (Les choses, 1966). Protagonisti sono due giovani, Jérôme e Sylvie, di professione psicosociologi: ovvero, attendono i consumatori al di fuori di negozi e supermercati, per intervistarli, attività per la quale sono ben poco remunerati. I due sognano una vita diversa, borghese, piena di comfort – in altre parole, il possesso di quelle cose intorno alle quali conducono indagini di mercato – e nel finale la otterranno, pena la rinuncia alla libertà della giovinezza. Ma forse l’aspetto più propriamente postmodernista dell’autore risiede nella sua adesione all’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle, laboratorio di letteratura potenziale), avvenuta nel 1970, e alle dichiarazioni di intenti condivise dai suoi fondatori, il romanziere e poeta Raymond Queneau e il matematico François Le Lionnais, e dai partecipanti agli incontri del gruppo. La poetica oulipiana elabora un’idea di letteratura basata sulle molteplici possibilità delle combinazioni matematiche. Tra queste, lo scrittore deve imporsi delle contraintes, limitazioni necessarie per produrre effetti virtuosistici e inusitati: Perec compone un’opera, La disparition (1969), caratterizzata, come recita lo stesso titolo, dalla sparizione della vocale “e” dalle pagine, mentre un italiano, assiduo frequentatore degli incontri del gruppo come delle lezioni parigine del semiologo Roland Barthes, Italo Calvino, dà forma all’ampio successo di Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979).
Il romanzo appare una delle forme più compiute e rappresentative di scrittura postmodernista, alimentato da interessi teorici riconducibili alla linguistica e alla teoria del romanzo strutturaliste. In gioco è la funzione del Lettore, un lettore modello che si fa al contempo protagonista attivo, coinvolto in una ricostruzione del senso generale (in questo coadiuvato da una Lettrice) che sfugge. Il libro che non si trova, e che spetta di volta in volta al Lettore rintracciare, mostra, in piena rispondenza all’anarchia costitutiva della letteratura postmoderna, l’assenza al suo interno di uno sviluppo lineare, un ordine e una trama identificabili: è uno stupefacente collage di citazioni, di rifacimenti di diversi stili narrativi, una sciarada di tracce, inizi lasciati in sospeso che affermano la crisi della conoscenza tradizionale, la relatività di quanto sappiamo del mondo in cui viviamo, e che la letteratura ha contribuito a chiarire. L’occhio postmoderno di Calvino sembrerà alla fine ripiegare verso soluzioni più intime, minimali, con l’ultimo libro narrativo, Palomar (1983), tutto incentrato sull’esile signor Palomar che osserva e cataloga il mondo intorno a sé. Se viene meno la vertigine combinatoria di Se una notte d’inverno, non è meno postmoderna, però, nel libro, la tensione a fuoriuscire dai confini della letteratura per assumere una prospettiva quasi cinematografica – l’occhio-dispositivo che registra in soggettiva le cose e le persone, gli altri. E, lo sappiamo dalle esperienze del romanzo americano, il cinema e la televisione divengono temi fondamentali per il postmoderno, a tal punto che gli stessi personaggi romanzeschi vengono ossessionati da pellicole del passato, o si rivelano a loro volta frammenti di celluloide, elementi dell’immaginario sospesi tra vita reale e fantasticheria, ricordi del cinema classico americano: esempi di questa tendenza possono essere riscontrati in Comiche (1970) di Gianni Celati, Lago (Lac, 1989) del francese Jean Echenoz, Il mistero di Shanghai (El embrujo de Shanghai, 1993) del catalano Juan Marsé, Cinema (1999) del francese Tanguy Viel. Ma si potrebbe aggiungere il nome dello spagnolo Javier Marías, che inaugura Domani nella battaglia pensa a me (Mañana en la batalla piensa en mí, 1996) con la morte improvvisa di una donna sposata tra le braccia del protagonista, da lei conosciuto e invitato a cena poco prima. Le vicende si concentreranno sulla ricerca della verità da parte dell’uomo, accusato di omicidio, convincendo il lettore di trovarsi in una trama di noir hollywoodiano e rivelando inoltre affinità con le situazioni di un film convulso e interrogativo come Fuori orario (After hours, 1985) di Martin Scorsese, spesso letto come specimen della filmografia postmodernista.
Se tale presenza cinematografica permea in profondità l’immaginario postmoderno, suggerendo un rapporto libero e nostalgico con la fascinazione del passato, risulta amplissima la sfera degli influssi esercitati dall’immaginario storico. A dispetto delle generiche accuse di superficialità e di assenza di una prospettiva storica, il postmoderno mette in atto nuove, personali strategie di decodifica e riscrittura del passato, interrogandosi sul significato dell’evento storico come sulle aporie, sugli spazi lasciati in bianco dall’interpretazione storiografica. Ne viene al lettore un’impressione spesso disorientante, la sensazione di fronteggiare un prisma colorato dove la vulgata storica – le letture ufficiali, unitarie, della storia – viene spiazzata, per aprirsi in direzione di interpretazioni ambigue e controverse, se non vere e proprie riletture in chiave politica, parodica o più semplicemente aggiornata dell’evento o del periodo in questione. Un esempio eloquente è fornito dall’ungherese Agota Kristof, operaia trasferitasi in Svizzera dove scrive in francese, con i libri che compongono la Trilogia della città di K. (Le Grand Cahier, 1987; La Preuve, 1990; Le Troisième Mensonge, 1991). Nel romanzo convivono una chiara allegoria nazionale (un Paese diviso, come l’Ungheria dalla quale l’autrice è fuggita in seguito alle vicissitudini del 1956) e il tema del doppio, qui incarnato nei due gemelli Claus e Lucas (le loro esistenze appaiono complementari, forse ricomponibili in un’unità, come l’anagramma che lega i loro nomi suggerisce), allevati da una nonna-strega: uno dei due rimarrà in patria, l’altro emigrerà. La guerra, la scoperta della sessualità, le capacità prodigiose dei due gemelli e l’infinita gamma di personaggi simbolici che li circondano segnano una narrazione che segue solo apparentemente le classiche vicende del romanzo di formazione per farsi prosa quasi fiabesca, dai contenuti spesso lirici, allucinati, in un’acuta riflessione sul tragico.
Un’altra eminente voce femminile legata a una visione postmodernista del racconto storico è quella dell’inglese Antonia S. Byatt. Con Possessione. Una storia romantica (Possession: A Romance, 1990; – ma un riuscito tentativo di ridare vita al mondo vittoriano in un romanzo contemporaneo era già stato intrapreso da La donna del tenente francese – The French Lieutenant’s Woman, 1969, di John Fowles), la scrittrice dà forma a un romanzo dove i piani della finzione e della realtà, della vita vissuta e della letteratura, del presente e del passato paiono intrecciarsi di continuo. La vicenda ruota intorno alle ricerche del giovane e squattrinato critico letterario Roland Mitchell, il quale si imbatte in alcune lettere che il poeta vittoriano Henry Randolph Ash avrebbe scritto, rivolte a un’ignota poetessa, Christabel LaMotte. La sua frenetica ricerca della verità, storica e filologica, lo porta a incontrare e a richiedere l’aiuto della superba Maud Bailey: l’intreccio romantico tra Roland e lei riverbera quello storico, tutto da ricostruire, tra Ash e LaMotte. Il romanzo, salutato da uno straordinario successo di critica e di pubblico, gioca sulla forza dell’allusione al passato e delle citazioni letterarie: attraverso un chiaro gioco di riferimenti a Il carteggio Aspern di Henry James (Aspern Papers, 1888) e una molteplicità di effetti tesi a ricreare le atmosfere dell’epoca, Byatt ricrea un passato plausibile, rivelando una minuziosa capacità di costruzione degli scenari narrativi, la stessa che assiste anche la tetralogia dedicata al personaggio di Frederica Potter (The Virgin in the Garden – La vergine nel giardino, 1978; Still Life – Natura morta, 1985; Babel Tower – La torre di Babele, 1996; A Whistling Woman – Una donna che fischia, 2001). Quasi in un effetto trompe-l’oeil, l’autrice immette il lettore nella storia recente attraverso la descrizione di un mondo di stravolgimenti e di nuovi colori (dal dopoguerra di una cittadina inglese nel primo romanzo agli anni della swinging London in Babel Tower, fino a giungere alla contestazione giovanile e al trionfo del mezzo televisivo descritti nel giro del triennio 1968-1970 in A Whistling Woman) dove gli abiti, gli interni, il design, i cibi restituiscono intatti i momenti e i dettagli della formazione e dell’emancipazione personale di Frederica.
Chi ha forse legato maggiormente la propria ricerca narrativa a un coerente impegno nel genere letterario del romanzo storico è Umberto Eco, a partire da un best seller che ha rivoluzionato il panorama delle lettere contemporanee, Il nome della rosa (1980). In un’epoca di proclami ansiosi sulla cosiddetta “morte del romanzo”, il Medioevo fantasioso e ricchissimo di dettagli di Eco irrompe sulla scena letteraria recando con sé un ritrovato gusto per il raccontare, per le peripezie caratteristiche del romanzo giallo. È intorno a un chiaro prestito da Arthur Conan Doyle e alle avventure della sua celebre creazione romanzesca, Sherlock Holmes, che l’autore assembla il personaggio di Guglielmo da Baskerville (la località di provenienza allude appunto a un romanzo di Conan Doyle, The Hound of Baskerville), un monaco che si trova a investigare sui misteriosi omicidi avvenuti in una oltremodo realistica abbazia situata ai piedi delle Alpi, coadiuvato dal personaggio che si fa narratore, a decenni di distanza, delle vicende, il novizio Adso da Melk. L’impianto segnatamente postmodernista del romanzo è stato rilevato da più parti: in particolare, seguendo le ricche Postille al Nome della rosa, pubblicate da Eco nel 1983, si può accedere a diversi registri di lettura dell’opera.
Accanto a un piacere della lettura per così dire disinteressato, il romanzo postula un lettore colto, capace di decifrare le continue citazioni disseminate nel testo, chiamato così a compiere un gesto investigativo speculare rispetto all’inchiesta di frate Guglielmo. Il nome della rosa è allora leggibile come un romanzo che celebra una pratica di scrittura al centro del postmoderno: l’intertestualità. Il romanzo postmodernista attua la scelta consapevole di strutturare un testo per mezzo di prestiti e aperte citazioni, di altri testi che l’autore introduce sullo sfondo della propria opera, richiedendo una cooperazione attiva, come si è visto, da parte del lettore. Sempre nell’ambito della narrazione storica, Eco dà vita a romanzi che indagano il passato sotto l’aspetto di una grande cospirazione che lega insieme culti misterici, civiltà scomparse e l’attuale civiltà informatica (Il pendolo di Foucault, 1988), o sotto le forme di un divertito travestimento alla Robinson Crusoe (L’isola del giorno prima, 1994), incentrato sulle scoperte del naufrago piemontese Roberto de la Grive o ancora attraverso l’adozione del punto di vista di un avventuroso personaggio del Piemonte medievale (Baudolino, 2000), fino a indagare le memorie d’adolescenza perdute di un antiquario in La misteriosa fiamma della regina Loana (2004), romanzo illustrato, dove tutta un’atmosfera, le figure ritratte, i fumetti, le canzoni d’epoca si fondono alla ricostruzione biografica.
Ancora nel solco di una ricerca sulle forme della narrazione storica si collocano alcune tra le opere del portoghese José Saramago, premio Nobel nel 1998. Introdotti da narratori infaticabili, i quali non esitano a ricorrere a una retorica ampollosa, alla sentenziosità dei proverbi, o a intervenire spesso con precisi giudizi morali, i suoi romanzi indagano con un occhio non di rado ironico mondi che ricompaiono dal passato recando intatto il loro fascino e la loro inquietudine, in virtù di uno studio accurato e minuzioso da parte dell’autore, come il Portogallo di inizio Settecento rappresentato in Memoriale del convento (Memorial do Convento, 1982), dominato dalle figure del sovrano e dalle trame dell’Inquisizione; un divertito gioco letterario sulla figura del poeta Fernando Pessoa e su uno degli alter ego da lui stesso congegnati, Ricardo Reis, sullo sfondo della Lisbona dei primi anni del Novecento (O Ano da Morte de Ricardo Reis – L’anno della morte di Ricardo Reis, 1984); l’estenuante ricerca del signor José tra due mondi, quello dei vivi, la Conservatoria, e quello dei morti, il Cimitero, rivolta a rintracciare una donna amata e perduta, la Sconosciuta, in Tutti i nomi (Todos os Nomes, 1997).
L’impresa narrativa che forse installa in maniera più certa il nome di Saramago all’interno delle poetiche postmoderniste è quella legata a un romanzo di rara forza ideologica e descrittiva, Cecità (Ensaio sobre a ceguiera, 1995). Un’improvvisa epidemia di cecità “bianca”, una malattia che, senza presagi apparenti, si impossessa della popolazione, proiettando un mare incolore di fronte agli occhi di chi si accorge di non vedere più, precipita una nazione (il Portogallo?) nell’anarchia e nella paura. A poco a poco tutte le attività cittadine si interrompono, traffico, operazioni di vigilanza, anche le più semplici forme di vita quotidiana. Una donna coraggiosa, la moglie dell’oculista che per primo ha verificato un caso di “mal bianco” per poi esserne contagiato, non si arrende al dilagare della follia: mentre il marito e alcuni suoi pazienti, prima, e un numero sempre più ampio di persone, poi, vengono internati in un vecchio manicomio, isolati e sottoposti a vessazioni inumane da parte della polizia e di alcuni ciechi prepotenti, finge di essere divenuta cieca anch’essa, divenendo la sola coscienza che vede e porta in salvo i compagni di sventura, in mezzo a un mondo nel quale trionfa la logica dell’homo homini lupus. Si è parlato del romanzo come di una grande “metafora” oppure “simulazione”, come lo definisce Luciana Stegagno Picchio: provare a immaginare cosa accadrebbe se un male improvviso si impadronisse del mondo, le reazioni, le paure, le prevaricazioni che ne verrebbero. Di certo Cecità condensa nel suo intreccio un tema fondamentale del postmodernismo: la contaminazione, la proliferazione ossessionante di malattie che si propagano incolori e inodori, sopraffacendo le facoltà sensitive. È un tema, questo, che si riconnette a svariate esperienze cinematografiche e narrative americane: su tutte, Rumore bianco (White Noise, 1985) di Don DeLillo, un romanzo dominato dalla fuoriuscita inquietante, benché non priva di risvolti comici, di una nube radioattiva. Se la prospettiva storica di Saramago include in sé la possibilità di riscrivere il corso degli avvenimenti evidenziando le storture e le ingiustizie a essi connesse, come in Memoriale del convento o nella parabola al di là del tempo di Cecità, allo stesso tempo prevede l’opportunità di una lettura alternativa della storia ufficiale – nella riscrittura, da una visuale laica, dei Vangeli dalla parte delle sofferenze di un Cristo deluso, umanissimo, in Il Vangelo secondo Gesù Cristo (O Evangelho segundo Jesus Cristo, 1991). Di nuovo, Saramago incrocia qui le forme della letteratura postmodernista, la quale predilige le storie che sottendono punti di vista periferici, la messa in discussione di una narrazione unica e legittimata della verità nel tempo, a favore di una molteplicità di racconti individuali, soggettivi, vere e proprie trame narrative che “raccontano” il momento storico (per queste nozioni, resta primario l’apporto dello storico americano Hayden White). In un simile quadro di riferimento, le testimonianze parziali ripudiano una vulgata storica condivisa una volta per tutte; l’Europa, nella sua centralità storica in termini di produzione culturale e letteraria, viene messa in questione, assediata dalle voci dell’Altro sinora relegato nelle periferie, il diverso, il migrante. Sono tutte figure che la critica letteraria studia oggi con rinnovata attenzione (nello specifico, nelle branche dell’imagologia o della xenologia), e che la scrittura ha tematizzato con particolare vigore lungo la postmodernità. Casi eloquenti di critica dell’eurocentrismo provengono da voci non-europee che si confrontano con la migrazione, e la convivenza con un Paese estraneo, spesse volte intollerante: è l’Inghilterra della pienezza economica e delle contraddizioni descritta dall’anglo-pakistano Hanif Kureishi in romanzi, racconti e sceneggiature (si ricordi almeno Buddha of Suburbia – Il Buddha delle periferie, 1991), dove la difficoltà dell’integrazione convive con l’incapacità di comunicare tra generazioni diverse: padri che vorrebbero ritornare in Asia e figli dediti alla vita occidentalizzata (nei film di Stephen Frears My Beautiful Laundrette, 1985, e Sammy and Rosie Get Laid – Sammy e Rosie vanno a letto, 1987, sceneggiati entrambi da Kureishi) o, al contrario, padri perfettamente integrati e rispettosi del modo di vivere britannico che non comprendono l’integralismo religioso dei figli: così l’intenso racconto My Son the Fanatic – Mio figlio il fanatico, incluso in Love in a Blue Time, 1996. Ma la rabbia degli esclusi, lo sguardo livoroso di chi osserva un modo di vita superficiale e arrogante, può provenire anche dai confini dello stesso impero occidentale: e proprio Frontiera (1993) si intitola il romanzo del lituano Emil Tode (pseudonimo di Tõnu Õnnepalu), la confessione dell’omicidio, avvenuto quasi per noia, di un agiato professore francese da parte del suo amante, il giovane narratore emerso da una terra di buio e povertà – un assassinio che sa di rappresaglia storica.
Ancora a Est, c’è chi ha esteso la nozione di postmoderno a opere russe (in maniera un po’ paradossale, se si pensa che, fino a pochi anni fa, la Russia non ha mai vissuto una vera e propria postmodernità), descrivendo sia opere scritte negli anni della dominazione comunista, e dunque rigidamente separate dall’immaginario europeo e americano eppure dotate di caratteri, tecniche, motivi comuni alla letteratura occidentale che definiamo postmodernista, sia opere che elaborano temi conseguenti alla caduta del Muro di Berlino, o comunque scritte in tale luce. Al primo gruppo si può ascrivere un romanzo ironico imperniato sulla ricerca scientifica e sulle manipolazioni ai danni del protagonista, Nikolaj Nikolaevic: il donatore di sperma (viaggio illuminato all’interno dell’oscuro letamaio della biologia sovietica), di Juz Aleskovskij, uscito lo stesso anno, il 1970, del più noto Moskva-Petuski di Venedikt Erofeev, un poema in prosa o romanzo dai tratti lirici che parodizza i testi e i riti fondativi della Russia. Nel secondo gruppo converge invece l’opera di un giovane scrittore originale ed eversivo quale Viktor Pelevin, che in Generation P (1999) riproduce il mondo globale delle merci attraverso il protagonista, Vavilen Tatarskij (il cui nome di battesimo sta per Babilonia, la città che abita), dedito a forme diverse di “stimolazione” o droghe. Nel personaggio coincidono l’attività professionale – creare pubblicità – e l’essere un marchio, un oggetto, egli stesso, della rete di vendita per la quale lavora .
La storica metafora del rapporto tra il centro e le periferie andrà letta non solo in senso strettamente geografico, ma anche nei termini di una autopromozione da parte delle voci considerate laterali dal punto di vista sessuale, in particolar modo testimoniata dall’emergere, anche in Europa, di una letteratura della differenza di genere. In seguito alle rivendicazioni femministe, la scrittura delle donne prende coscienza della propria autonomia e autorevolezza (e la tetralogia di Byatt ne è un esempio affascinante), e così pure personaggi e storie omosessuali, che infrangono la distinzione normativa tra “maschile” e “femminile”, tentano di riscrivere il corso della storia letteraria ufficiale. È quello che avviene (e di cui si discute in avvio di romanzo) nella stravagante residenza universitaria inglese di Ashdown, ritratta tra gli anni Ottanta e i Novanta (quando diverrà una clinica per curare i disturbi legati al sonno) da Jonathan Coe in La casa del sonno (The House of Sleep, 1997), dove il narratore concerta un valzer di figure intorno alla sensibile coscienza di Sarah: una lesbica seducente e combattiva, Veronica; un timido studente, futuro transessuale, Robert/Cleo; altre figure maschili prese dentro a sogni e sonni rivelatori o ambizioni eccessive, tutti personaggi colti nella loro fragilità, come riflesso della crisi delle identità e dei ruoli sessuali prefissati.
La grazia narrativa di Coe, aperta qui a suggestioni dei grandi quadri familiari e sociali del romanzo americano contemporaneo, viene contrappuntata, nel decennio precedente, dal tema della malattia, l’Aids, dalla metafora di tutta una società dell’epoca in preda a paure apocalittiche. Uno scrittore racconta con agghiacciante onestà e precisione il proprio calvario: il francese Guibert Hervé, in libri come Le regole della pietà (Le protocol compassionel, 1991) e Citomegalovirus. Diario d’ospedale (Cytomégalovirus. Journal d’hospitalisation, 1992), interseca una linea più propriamente sentimentale con la durezza del reportage ospedaliero, suggerendo una riflessione sul rapporto tra l’uomo, le macchine e le medicine, la cura e la perdita della speranza. Gli stessi anni di Guibert sono percorsi dall’altrettanto breve parabola di Pier Vittorio Tondelli, allievo all’Università di Bologna di Celati ed Eco, forse il primo a sperimentare in Italia una forma compiuta di romanzo postmodernista sul modello di quello americano, con il noir Rimini (1985) e una sua raccolta di saggi e conversazioni, una mappa-bilancio degli anni Ottanta alle spalle, che si intitola proprio Un weekend postmoderno (1990). La matrice del desiderio omosessuale permea in profondità le opere ad avvio e conclusione della sua produzione narrativa, i racconti, in parte autobiografici, di ribellione, diversità e amaro bilancio sulla fine dei libertari anni Settanta di Altri libertini (1980), come il ritratto ancora autobiografico di Leo, il protagonista di Camere separate (1989), uno scrittore che riallaccia i fili della sua formazione e insieme elabora il lutto per la morte del proprio compagno, Thomas. Nei toni scanzonati o pungenti di Altri libertini e in quelli elegiaci di Camere separate, lo scrittore si incarica di rappresentare personaggi giovani, nuove figure che si affacciano alla ribalta di fine secolo, con il loro gergo distintivo, i loro modi di comportarsi e consumare freneticamente la vita. Non è, quella di Tondelli, la prima generazione giovanile in Italia a essersi rappresentata in letteratura, né l’ultima: un modello è da riconoscere in AlbertoArbasino che, con Fratelli d’Italia (1963), L’Anonimo lombardo (1966), ha riscritto su base volutamente trasgressiva e colta un modo d’essere italiani, dando forma a romanzi intessuti di citazioni, rimandi a opere liriche e teatrali, film, avvenimenti culturali che, ricordati e descritti dal narratore, finiscono per divenire la materia viva dello stesso romanzo insieme alle peripezie picaresche e omosessuali dei protagonisti. Con La bella di Lodi (1972), Arbasino delinea un racconto dettagliato del passaggio dall’Italia agricola al nuovo mondo industrializzato dove i giovani (e, in primo luogo, le donne) prendono in mano le redini dell’azienda familiare – il tutto sorretto da una divertente quanto movimentata trama sentimentale. Ancora in Italia, la diversità sessuale si salda al classico genere del romanzo di formazione, raccontando vicende ai limiti dell’autobiografico in maniera stralunata e impietosa (Aldo Busi, Seminario sulla gioventù, 1984), o sofisticatamente cinica e spassosa (Walter Siti, Scuola di nudo, 1995).
Restano aperte, per l’Europa, molteplici altre strade, tradizioni letterarie dove, se non è possibile, come afferma Remo Cesarani, rintracciare uno stile unitario, distintivo del postmoderno, è senz’altro lecito leggere le metamorfosi dei generi e il lavoro su temi e tecniche narrative comuni: il nostro percorso allora non potrà concludersi senza accennare alla persistenza della fiaba e del mito nella scrittura contemporanea, rappresentata dall’inglese Angela Carter e dai suoi racconti terribili, rifacimenti in chiave neogotica della tradizione fiabesca, de La camera di sangue (The Bloody Chamber and Other Stories, 1979), influenzati dalla stessa visione femminista che sorregge un romanzo come La passione della nuova Eva (The Passions of the New Eve, 1977), imperniato sulle trasformazioni, anche sessuali, della protagonista in una cupa New York del futuro. Quanto al riuso del mito, si possono citare due voci tedesche: Christoph Ransmayr e il suo Il mondo estremo (Die Letze Welt, 1988), romanzo che ingaggia un serrato confronto con le Metamorfosi di Ovidio reinventando un’idea di classicità, e il malinconico e arguto recupero dell’evento che sconvolse un’epoca, costituito dal poema La fine del Titanic (Der Untergang der Titanic, 1978) di Hans Magnus Enzensberger.