Possidenti e bonificatori ebrei: la famiglia Sullam
Furono molti gli ebrei che parteciparono alla «corsa all’investimento fondiario»(1) realizzata dai nuovi ceti emergenti nei primi decenni dell’Ottocento: alcuni di loro fecero della terra il loro campo d’azione principale e quasi esclusivo, mediante investimenti produttivi e l’impianto di aziende agricole efficienti e redditizie. I Sullam furono fra questi: la terra, in particolare la grande tenuta della Gnocca, nel Delta del Po, coltivata a risaia stabile fino a Novecento inoltrato, costituì l’oggetto fondamentale delle loro cure e la fonte principale delle loro risorse.
Lo studio di una famiglia o di un’azienda non permette di elaborare conclusioni di carattere generale(2). Tuttavia il caso dei Sullam, famiglia veneziana che realizza una rilevante ascesa sociale, è certamente assai significativo e consente da un lato di cogliere alcuni tratti della nuova borghesia, in particolare di quella ebraica, che si viene formando a Venezia e nel Veneto fra il periodo napoleonico e quello asburgico, dall’altro di individuare alcune delle caratteristiche dello sviluppo capitalistico dell’agricoltura nel basso Veneto, in particolare nelle vaste zone di bonifica. Permette, inoltre, di arricchire le conoscenze sulla composizione interna della comunità ebraica veneziana e sulla sua articolazione sociale.
L’ascesa dei Sullam s’inserisce nel vasto processo di ridefinizione delle élites in atto fra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, con l’emergere di uomini nuovi e il costituirsi come ceto egemone di un inedito blocco nobiliare-borghese che trova il suo fondamento principale nella proprietà della terra(3).
Renzo Derosas ha documentato con indagini ampie e rigorose, anche se non ancora esaustive, che nel Veneto, a differenza di altre zone, ha assunto dimensioni assai vaste e portata decisiva il ricambio nel possesso dei beni fondiari verificatosi nel primo quarto del secolo: esso ha avuto certo origine, in parte, dalle vendite dei beni nazionali, ma è da imputare in misura assai più rilevante al collasso di molte grandi fortune del patriziato veneziano (che dalla crisi politica vedeva accelerata quella economica già in corso) e alle conseguenti acquisizioni operate sul mercato libero da parte di borghesi e nobili nuovi(4).
Gli acquisti immobiliari, di edifici urbani e soprattutto di fondi agricoli, furono molto consistenti: vi parteciparono quasi tutti coloro che, in un modo o nell’altro, avevano accumulato e andavano accumulando denaro o crediti. Le categorie dei compratori erano assai varie: fittanzieri, agenti e amministratori di famiglie nobili, specialmente patrizie (Salvagnini, Viviani, Vanni); commercianti, mediatori e sensali (Fellisent, Rosada); appaltatori di dazi e imposte, forniture militari, lavori pubblici (Camerini, Manfrin); grandi mercanti, finanzieri, armatori e assicuratori (Papadopoli, Comello, Treves); anche nobili, ma in misura assai più contenuta rispetto ad altre aree regionali, e qualche patrizio veneziano sopravvissuto alla crisi (Giovanelli, Erizzo). Fra tutti costoro è possibile individuare una componente ebraica che si rivelò particolarmente attiva, anche se per molti aspetti non si differenziò dal resto della borghesia e dalla nobiltà arrivata da poco al titolo (i veneziani Treves, Vivante, Lattis, Malta, Sullam, Curiel; i veronesi Pincherle, Calabi, Fortis; i padovani Da Zara, Levi; il rodigino Salomon Luzzatto)(5).
Il grande dinamismo manifestatosi sul mercato immobiliare non trovò nel Veneto riscontro, almeno nell’immediato, per quanto riguarda il piano degli investimenti produttivi, della trasformazione delle colture, della modernizzazione delle tecniche e dei sistemi di conduzione. Alcuni operatori erano intervenuti negli acquisti come semplici prestanome; altri come puri speculatori che compravano per rivendere, finendo quindi per assumere un ruolo di mediatori; altri ancora non sarebbero riusciti a far fronte agli impegni e sarebbero scomparsi dalla scena; i più si sarebbero accontentati di riscuotere una rendita, certo limitata ma abbastanza sicura.
Il periodo non era dei migliori. Pesavano sull’agricoltura veneta le conseguenze delle guerre combattute sul territorio regionale, con le molte campagne militari che si erano susseguite portando devastazioni di ogni genere; pesavano l’imposizione fiscale enormemente cresciuta rispetto al periodo veneziano e le cattive annate che si erano succedute culminando nella gravissima carestia degli anni 1816 e 1817; influiva anche la congiuntura generale sfavorevole, con i prezzi dei grani che non volevano saperne di riprendere quota(6).
Tuttavia le trasformazioni avvenute a cavallo del secolo, e principalmente la massiccia redistribuzione della proprietà fondiaria, avevano posto alcune precondizioni indispensabili per uno sviluppo che, benché tardo e limitato ad alcune zone, si verificò a partire dalla seconda metà degli anni Trenta(7), quando anche altri settori dell’economia si rimisero in movimento a Venezia e nel Veneto(8). È fra i grandi acquirenti di terre di quel periodo che si trovano gli artefici dei maggiori interventi in opere di bonifica e di miglioramento agrario, a cominciare da Papadopoli e Treves, che avevano grandi possessi fondiari ovunque ma anche interessi enormi in ogni campo e quindi disponibilità di capitali del tutto eccezionali.
Gli ebrei forse più di altri avevano svolto un ruolo di mediatori negli acquisti immobiliari, ma anche fra loro alcuni si legarono alla terra, collocandosi fra gli innovatori più attivi(9). Per quanto riguarda i veneziani, a parte Treves, particolare dinamismo dimostrarono i Sullam e i Lattis, che parteciparono in pieno alla prima fase della bonifica del litorale adriatico (i primi a sud di Venezia, nel Delta del Po; i secondi soprattutto a nord, nei terreni vallivi di Altino e di Caorle): una prima fase fondata sulla rapida e massiccia espansione della risaia, dato che la produzione del riso, prodotto capitalistico per eccellenza, immesso sul mercato nella quasi totalità, consentiva ingenti profitti, in un periodo di prezzi sostenuti che durò assai a lungo.
Chi era Benetto Sullam, il capostipite del ramo veneziano della famiglia, e su quali disponibilità finanziarie poteva contare quando cominciò i suoi acquisti di terre? Ben poco conosciamo di lui prima degli ultimi anni del Settecento: sappiamo che, originario di San Daniele nel Friuli, dove era nato nel 1740 (o 1742) da Moisè e da Lea di David Luzzatto e vissuto fino al 1757, si era poi trasferito a Venezia; sappiamo pure che nel 1771 risulta impegnato in attività commerciali e che le cose dovevano andargli abbastanza bene se per la bottega che aveva preso in affitto dal nobile Lorenzo Grimani in Ghetto vecchio pagava un canone assai elevato (80 ducati)(10).
Negli anni a cavallo del secolo, come spesso accade nei momenti di crisi e di transizione politica, s’intensificava la produzione di documentazione scritta: possiamo disporre perciò di fonti più abbondanti e diversificate, da cui ricavare informazioni più ampie.
Una prima fonte di carattere demografico, l’ormai ben nota Anagrafi degli abitanti del Ghetto compilata nel settembre 1797 da Saul Levi Mortera, ci fa conoscere professione e collocazione sociale di Benetto (inserito, come i suoi due primi figli, fra i «benestanti, commercianti e bottegaj», la categoria considerata economicamente e socialmente più elevata), indirizzo (campiello delle Scuole al numero 11), nome ed età dei membri della famiglia (la moglie Diamante Namias, la sorella Annetta, i figli Moisè, Costante, Annetta, Marco, Regina, Giuseppe, compresi fra i 26 e i 9 anni)(11).
Due fonti di natura fiscale ci forniscono indicazioni, per quanto indirette e approssimative, sulla consistenza del patrimonio dei Sullam (o almeno sulla sua valutazione da parte dei contemporanei). Nell’elenco dei 110 «negozianti ebrei» che dovevano contribuire con 223.100 ducati (più di un quarto del totale) al pagamento della «tansa» imposta dalla Municipalità democratica sui «mercanti ed esercenti», essi occupavano il 47° posto della graduatoria, pagando 150 ducati (meno dell’1 per mille): cifra ben modesta se rapportata ai 68.000 ducati dei Vivante, ai 47.000 dei Treves e ai 21.000 dei Bonfili(12). Salivano invece al 30° posto, tassati per 6 carati sui 1.200 complessivi (5 per mille), nella lista di 135 contribuenti compilata nel 1801 dai «tansadori» dell’Università degli ebrei di Venezia, che forse conoscevano meglio la situazione all’interno del mondo ebraico. Questa volta, unitesi le due famiglie col matrimonio di Iseppo Treves e Benedetta Bonfili, esse conducevano con 207 carati (172 per mille), seguite da Lazzaro Vivante con 188 (157 per mille): sul versante opposto, assommano a quasi 300 le famiglie tanto povere da esser ritenute non tassabili(13).
Una quarta fonte è costituita dai registri dell’esaminador (magistratura sopravvissuta per quasi un decennio alla caduta della Repubblica), contenenti le notificazioni dei titoli di proprietà e di credito: vi troviamo registrazioni di crediti effettuate da Benetto Sullam nel 1797 per una somma complessiva di oltre 22.000 ducati, in prevalenza a carico di patrizi veneziani(14).
I Sullam, in sostanza, alla fine del Settecento erano negozianti affermati e avevano accumulato un piccolo patrimonio: certo nemmeno lontanamente paragonabile a quelli posseduti dai vertici del mondo ebraico veneziano, dove la ricchezza era fortemente concentrata in poche mani (di grandi armatori, banchieri, mercanti: i Vivante, i Treves, i Bonfili), e notevolmente inferiore anche a quelli di altri membri della comunità (Curiel, Angeli, Luzzato, Malta, Motta)(15). Ma si trattava di crediti, lo strumento principale in mano alla borghesia ebraica per iniziare la penetrazione nel mercato immobiliare, una volta caduto con la fine della Repubblica il divieto di acquisire proprietà immobiliari, sfruttando la condizione di grave indebitamento in cui erano venuti a trovarsi molti patrizi e la possibilità da loro acquisita di disporre dei propri beni con l’abolizione dei fedecommessi ad opera della Municipalità provvisoria.
Mediante transazioni su crediti avvennero i primi acquisti di Benetto Sullam: egli agì con molta tempestività (dall’ottobre 1797), ma con prudenza, limitandosi al mercato urbano (una decina di unità immobiliari, fra case e botteghe, parte in Ghetto e parte fuori, per un totale di 7.580 ducati) a differenza di altri che iniziarono subito l’acquisizione di terre(16). Nel frattempo continuava a concedere prestiti, ponendo ulteriori premesse per altri acquisti. Superato il periodo d’incertezza e di nuove restrizioni della prima dominazione austriaca, durante il quale poté accrescere soltanto di qualche unità il suo ancor esiguo patrimonio edilizio, con l’avvento del Regno d’Italia Benetto si sentì abbastanza sicuro per riprendere le operazioni su vasta scala comprando decine di case e alcune botteghe, tutte a Venezia: dal 1808 poi, ormai consolidatosi il nuovo regime, imboccò con decisione, assieme ai figli, la via degli acquisti fondiari, tutti nella terraferma veneta. Questi continuarono anche dopo il ritorno dell’Austria, dato che ormai il nuovo regime politico non poneva più in discussione, pur con alcuni limiti, i diritti civili degli ebrei: anche perché fra loro c’erano molti di quei detentori della ricchezza che il governo asburgico, come già Napoleone, considerava uno dei pilastri fondamentali dello Stato(17).
Una fonte di natura giudiziaria, l’inventario dei beni della fraterna Sullam(18) fatto compilare nel 1826 dal tribunale civile di prima istanza, ci consente di conoscere fin nei dettagli le caratteristiche e la natura dei beni acquistati(19). Complessivamente si tratta di una sessantina di appartamenti e sette negozi nella città lagunare, costati circa 75.000 lire austriache e quindi quasi tutti di modesto valore, e di circa 800 ettari di terreno: 300 comprendenti «chiesure», «campagne» e «possessioni» di estensione variabile da meno di 1 fino a 55 ettari sparse nella pianura padovana e veneziana, 200 di valle salsa in laguna (valle Grassabò), 300 costituenti la tenuta di Santa Maria delle Grazie, in sinistra del Po di Gnocca, composta di terreni pascolivi e vallivi e per un decimo coltivata a risaia.
Il patrimonio fondiario, per la cui costituzione vennero sborsate circa 240.000 lire austriache, era assai eterogeneo: gli acquisti erano stati occasionali, spesso guidati dall’esistenza di un credito o di un livello affrancabile, non ispirati ad un progetto preciso ma effettuati allo scopo di avere terra in proprietà e trarne sicurezza, prestigio e una rendita certa dalla conduzione in affitto(20).
Soltanto in seguito, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, nacque nella mente di Giuseppe Sullam, ultimogenito di Benetto, un progetto di vaste dimensioni, finalizzato alla messa a risaia di estesi territori del Delta approfittando della congiuntura favorevole e delle alte rese che le nuove terre consentivano di realizzare. Ora da solo, ora insieme al fratello Costante per conto della famiglia, ora mettendosi in società con altri operatori e particolarmente con Felice Ravenna di Adria, Giuseppe condusse un’attività intensa e quasi frenetica per conseguire lo scopo, anche se andando avanti per tentativi e subendo parziali insuccessi. Da un lato procedette a nuove acquisizioni ampliando la tenuta già in proprietà della famiglia, acquistando terreni alluvionali di nuova formazione posti all’incanto dallo Stato, comprando altre tenute già in parte coltivate a riso; dall’altro investì capitali rilevanti in opere di arginatura a difesa dalle acque del mare e del fiume, di piantagione di alberi a decine di migliaia, di livellamento e canalizzazione del terreno per consentirne l’irrigazione e lo scolo, di infrastrutturazione del territorio con aie, granai, barchesse, osteria e negozio, case padronali («palazzi») e abitazioni per la manodopera fissa e avventizia. In breve tempo alcune centinaia di persone si insediarono stabilmente nelle tenute dei Sullam prima quasi deserte, provenendo dai villaggi situati ai margini del Delta (Contarina, Donada, Taglio di Po), mentre altre centinaia vi si recavano ogni anno nel periodo della coltivazione del riso. Il popolamento della zona procedeva rapidamente, nonostante le condizioni di vita vi fossero difficilissime per diversi fattori: isolamento quasi totale dal resto del mondo, pericolo continuo di rotte e allagamenti, retribuzioni a livelli di mera sussistenza, malattie di ogni genere e soprattutto malaria generalizzata, abitazioni ristrette, precarie e malsane trattandosi quasi sempre ancora di «casoni» in tutto o in parte di canna.
I dati relativi agli acquisti di terreni e agli investimenti fissi, come pure quelli sulla conduzione, si possono ricavare dalle carte aziendali, contenute nell’archivio privato Sullam(21). Nel complesso Giuseppe, assieme al socio Ravenna, impiegò circa 140.000 lire austriache in acquisti e 180.000 in miglioramenti, senza tener conto delle spese correnti, mentre la famiglia ne sborsò quasi 100.000 per dotazioni fisse nella tenuta di propria spettanza(22). Sono cifre considerevoli, che documentano un impegno non comune e una grande determinazione nel concentrare gli sforzi per rendere produttive queste terre, sottraendole alle acque, al fine di ricavarne profitti considerevoli. È infatti questo l’obiettivo essenziale: risulta ben chiaro che si tratta di un «affare», termine ricorrente nelle carte dell’archivio, non di una iniziativa ispirata a progetti di matrice illuministica volti alla costruzione di una tenuta modello che fosse insieme città ideale, come quella perseguita fra fine Settecento e inizio Ottocento da Alvise Mocenigo con la fondazione di Alvisopoli in un’altra zona semipaludosa del litorale(23).
L’impianto di risaie nel Delta del Po era iniziato già verso la fine del Settecento ad opera di alcuni dei proprietari di allora. Pietro Garzoni, Girolamo e Leonardo Venier, Tommaso Mocenigo Soranzo, Giovanni Battista Mora, Alvise Tiepolo avevano ottenuto dai provveditori sopra i beni inculti le concessioni d’acqua per irrigare i terreni, dimostrando che i patrizi non erano poi del tutto sprovvisti di volontà e talora capacità d’impegnarsi in innovazioni di un certo rilievo(24). Ma si era trattato di iniziative tutto sommato modeste, di portata limitata, di esito incerto. Rilevanza ben maggiore ebbero queste nuove intraprese, che richiedevano disponibilità di capitale, assunzione di rischio, conoscenza del mercato, capacità imprenditoriale.
Giuseppe Sullam, assieme a Felice Ravenna, venne premiato con medaglia d’oro nel 1856 dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, che seguiva con attenzione e incoraggiava le «bonificazioni agrarie» e in particolare le iniziative nel campo della coltivazione del riso(25), nonostante le critiche che contro di essa da varie parti si alzavano per motivi sia economici che igienico-sanitari: negli anni precedenti già tre volte aveva conferito lo stesso massimo riconoscimento ai fratelli Aron e Girolamo Lattis per l’impianto delle risaie nelle paludi di Altino e in quelle di Caorle, gratificando anche di una menzione onorevole l’agente Giuseppe Querengo che ne era stato l’artefice (come lo era stato di quelle del conte Giovanelli)(26).
Mentre i Lattis scomparvero dalla scena durante il biennio rivoluzionario, sostituiti nell’Altinate da Giuseppe Reali e a Ca’ Corniani dalle Assicurazioni Generali(27), i Sullam rimasero per molto tempo una delle maggiori ditte proprietarie nel Delta del Po: separatisi nel 1865 da Felice Ravenna, che alienò poco dopo i terreni avuti in proprietà esclusiva nella divisione, la loro azienda sopravvisse alle gravissime difficoltà che misero in ginocchio molti altri possidenti, spesso costretti a vendere le loro tenute, rendendo assai dinamico il mercato fondiario della zona. Il rapido esaurimento del suolo coltivato a risaia stabile, le ripetute rotte delle arginature con l’inondazione dei fondi, le rilevanti spese necessarie per la conduzione causarono il fallimento di molte aziende e indussero i proprietari a disfarsi di terreni troppo difficili da gestire: in particolare le ditte ebraiche, che nel Delta risultavano iscritte nel catasto austriaco attivato negli anni Quaranta per oltre un quarto del totale, si ridussero alla sola famiglia veneziana(28).
Dal 1865, quindi, i Sullam, che prima avevano costituito nel Delta del Po un elemento fortemente dinamico, diventarono fattore di stabilità. Le terre loro spettanti nella divisione coprivano un’estensione di 1.258 ettari, che salirono progressivamente ad oltre 1.700 (ma soltanto per effetto di revisioni di confini o dell’aggiunta di nuovi tratti di terreno emersi dal mare). L’azienda prese il nome di Gnocchetta e comprendeva tre tenute, poste a cavallo del Po di Gnocca: Cassella ed Ìvica in sinistra e Gorino in destra. Essa restò in proprietà comune e amministrazione unitaria anche quando i due rami della famiglia, discendenti dai figli di Benetto che si erano sposati (Moisè e Marco), divisero gli altri beni comuni.
Se il capostipite (Benetto) aveva saputo cogliere l’occasione offerta dai tempi per rivolgersi alla terra e i suoi figli (soprattutto l’intraprendente Giuseppe) erano stati capaci di dar vita ad una grande azienda capitalistica dimostrando spirito d’iniziativa e capacità imprenditoriale, la terza e la quarta generazione puntarono essenzialmente al consolidamento dell’opera, all’insegna della continuità con l’operato dei loro «vecchi», cui costantemente si richiamavano.
Le difficoltà non mancarono, e furono anzi assai rilevanti. Alla prima gravissima crisi, dovuta all’esaurirsi del suolo, che investì le risaie stabili dell’area litoranea già dalla fine degli anni Sessanta per prolungarsi poi molto a lungo, si aggiunse a partire dal 1880 quella provocata dal crollo dei prezzi dei cereali, compreso il riso, sul mercato internazionale: conseguenza, quest’ultima, della rivoluzione nel campo dei trasporti e, in particolare, del diffondersi della navigazione a vapore e dell’apertura del canale di Suez. La rilevantissima diminuzione dei noli marittimi fece riversare in Europa grandi quantità di riso asiatico, che portò una concorrenza spietata ai prodotti locali: particolarmente a quelli coltivati nelle risaie stabili, dove i costi erano certo minori che in quelle a vicenda, ma le rese erano assai più basse e lo diventavano sempre di più per l’esaurimento del suolo.
Anche nelle risaie dei Sullam i rendimenti unitari si ridussero drasticamente, passando da quasi 20 a meno di 14 quintali per ettaro e toccando addirittura i 10 nel 1882. A questo punto era già cominciata anche la diminuzione dei prezzi: quello del risone venduto dall’azienda da quasi 25 lire al quintale era crollato a 20, per poi ridursi ancora fino alle 17 lire degli anni 1892-1894.
La situazione diventava grave, ma la famiglia veneziana riuscì a farvi fronte, adattandosi ai tempi, mentre tanti altri possidenti fallivano ed erano costretti a vendere la terra.
In un primo momento la crisi venne affrontata mediante l’ampliamento della superficie coltivata, ponendo a coltura terre vergini e lasciando a riposo parte del terreno. Ma tali rimedi si rivelarono ben presto insufficienti: occorreva ben altro per garantire la sopravvivenza dell’azienda. Il risultato fu raggiunto grazie ad un processo di ristrutturazione, realizzato in fasi successive: esso puntò anzitutto su trasformazioni tecniche di rilievo, mediante l’utilizzazione sempre più ampia di macchine (particolarmente le locomobili a vapore, che azionavano sia le trebbiatrici che le idrovore per l’irrigazione e per lo scolo delle acque), l’introduzione su vasta scala di concimi artificiali (essenzialmente i perfosfati) e l’acquisto di sementi selezionate; in secondo luogo su una più rigida organizzazione del lavoro mediante una revisione dei rapporti contrattuali con i coltivatori, ancora privi di qualsiasi organizzazione di tipo sindacale; in terzo luogo sull’attenzione al mercato, col quale i Sullam seppero confrontarsi adeguando la produzione alla domanda e quindi scegliendo le varietà di riso più richieste dai consumatori.
Questo insieme di interventi, fra cui quello essenziale fu probabilmente l’uso del perfosfato (introdotto alla metà degli anni Ottanta e poi generalizzato) perché senza di esso il terreno non produceva più nulla, consentì di riportare a fine secolo i rendimenti unitari ai livelli precedenti e di raggiungere i 25 quintali di risone per ettaro in media nel decennio precedente la guerra(29). Siamo lontani dalle rese delle risaie avvicendate di altre zone dell’Italia settentrionale, ma tale risultato permise all’azienda di sopravvivere e ai proprietari di continuare a percepire utili non disprezzabili(30).
Mancavano però garanzie per l’avvenire: ormai il tempo della risaia stabile era finito e soltanto l’asciugamento integrale della tenuta avrebbe potuto costituire un rimedio radicale.
I Sullam della terza e quarta generazione seppero dunque operare su vari versanti, riuscendo a gestire nel miglior modo possibile l’esistente, ma non imboccarono la via della grande trasformazione, del salto di qualità verso la coltivazione in asciutto e l’avvicendamento delle colture, verso una bonifica vera e propria: da un lato perché, anche per adesione alla tradizione familiare, si consideravano essenzialmente risicoltori, dall’altro per conservare l’indipendenza da ogni condizionamento esterno. Ma anche per incapacità o paura di intraprendere nuove strade, cosa che richiedeva senso del rischio, nuovi rilevanti investimenti di capitali, superamento dell’isolamento e partecipazione sia ai consorzi di bonifica, sia alle nuove forme di associazionismo padronale che negli anni a cavallo del secolo si andavano diffondendo. L’autoesclusione da tutto questo condannava alla segregazione e faceva perdere buone opportunità, come nel caso della bonifica dell’isola di Ariano, realizzata nei primi anni del Novecento da un consorzio di proprietari al quale i Sullam rifiutarono ostinatamente di partecipare(31).
Con la quinta generazione le cose cambiarono. Negli anni precedenti la guerra Angelo Sullam, appassionatosi al ruolo di possidente illuminato e di bonificatore benché non avesse ancora la direzione dell’azienda, andò assumendo piena consapevolezza del fatto che esperienza e buon senso non erano più sufficienti, che occorrevano un maggior dinamismo e nuove iniziative: anzitutto imboccando con decisione la strada della bonifica vera e propria e sperimentando su vasta scala nuove colture, fra cui la barbabietola da zucchero; poi servendosi di personale qualificato e utilizzando in pieno gli strumenti posti a disposizione dall’evoluzione scientifico-tecnica; infine puntando sull’associazione fra i proprietari e sulla costituzione di lobbies in grado di premere sugli organi dello Stato, al fine di influenzarne le scelte a favore dei risicoltori contro i pilatori, dei bieticoltori contro gli industriali dello zucchero, dei bonificatori (quando si rese necessario elettrificare gli impianti idrovori) contro il monopolio di Giuseppe Volpi e della S.A.D.E. (Società Adriatica di Elettricità).
Pur restando legatissimo alla tradizione familiare e pur ponendo sempre l’azienda al centro dei suoi interessi, Angelo avviò più tardi, nel primo dopoguerra, iniziative anche in altri settori, in assonanza coi tempi e con il ruolo dinamico che la borghesia veneziana da un lato e il mondo ebraico dall’altro andavano assumendo in campo nazionale e internazionale, in particolare nel Mediterraneo orientale: anche qui entrando in rotta di collisione con Volpi quando cercò di dar vita ad una società commerciale italo-mediterranea, con finalità sia economiche che culturali, da finanziare con capitale ebraico e cercando l’appoggio del Credito Italiano (dato che la Banca Commerciale era legata a Volpi). Non a caso Angelo nel dopoguerra fu vicepresidente della Federazione sionistica italiana e anche presidente della comunità ebraica di Venezia (ancora denominata Fraterna generale di culto e beneficenza degli israeliti), subentrando nel 1919 a Giuseppe Musatti con l’intento, fallito, di comporre i profondi contrasti esistenti al suo interno, a causa dei quali il predecessore si era dimesso(32).
Angelo consacrava, con l’assunzione della massima carica, un senso di appartenenza alla comunità ebraica veneziana che non era mai venuto meno nella famiglia, o almeno in parte dei suoi membri, manifestandosi in alcuni casi con la partecipazione ad incarichi nelle diverse istituzioni e più spesso con donazioni e lasciti testamentari di una certa consistenza(33).
Questo legame con la tradizione non fu di ostacolo all’integrazione nella società civile veneziana, anche se avvenne seguendo percorsi propri, con caratteri specifici. Si sottolinea in genere l’intensa partecipazione degli ebrei alla vita pubblica, quando ciò era loro possibile, come nella parentesi rivoluzionaria del 1797, al tempo del Regno d’Italia napoleonico, nella Repubblica di Daniele Manin; ed anche la loro presenza attiva negli spazi concessi dall’Austria (che ancora vietava loro di coprire pubblici impieghi e li escludeva da alcune attività come l’esercizio dell’arte farmaceutica), occupando i vertici delle Camere di commercio o degli organismi di borsa.
Benché tutto questo sia innegabile ed abbia certamente un significato di rilievo, il caso dei Sullam consente di articolare il giudizio e di cogliere una differenziazione di atteggiamenti e di ruoli. Essi infatti per tutto l’Ottocento si tennero lontani dalla scena pubblica, occupandosi dei loro affari e soprattutto della loro azienda risicola. In particolare nel ’48, quando molti furono gli ebrei che sostennero con decisione la Repubblica di Manin, che parteciparono in prima persona al governo, che si svenarono per finanziare la resistenza all’Austria, i Sullam non furono fra questi. Certo contribuirono ai vari prestiti nazionali: ma quasi sempre perché costretti, protestando vivamente e inoltrando ripetute istanze di esenzione, ricorsi e suppliche insistenti in cui sottolineavano, non senza un qualche fondamento, la diversità della loro posizione economica rispetto a quella di mercanti e banchieri(34).
Non solo restarono assenti, anche in seguito, dalla vita politica e amministrativa (a parte la partecipazione ai consigli comunali: però nei Comuni del Delta del Po, per poter difendere gli interessi della tenuta e dei suoi abitanti), ma rimasero estranei anche alle iniziative dei possidenti, che pure in quell’epoca cercavano strumenti e modi per la diffusione delle conoscenze e la circolazione delle idee attraverso giornali specializzati, associazioni agrarie, mostre e premi. È significativo, per fare un esempio, il fatto che, quando nel 1856 Giuseppe Sullam e Felice Ravenna ottennero la medaglia d’oro nel concorso bandito dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, non avessero presentato la domanda spontaneamente, ma solo perché sollecitati a farlo dalle autorità politiche(35).
Il tenersi lontani dalla vita pubblica e da forme associative non significa che non entrassero a far parte della borghesia veneziana assumendone e condividendone comportamenti e valori di riferimento. Un indicatore significativo sia dell’integrazione nella società cittadina che dell’ascesa sociale è ritenuto, soprattutto per la prima metà dell’Ottocento, quello dell’uscita dal Ghetto e delle scelte abitative. Anche per i Sullam, come per altri ebrei veneziani, il processo fu assai lento e graduale. All’acquisto di immobili effettuato negli anni a cavallo di secolo in varie zone della città non si accompagnò il trasferimento della residenza che, nonostante la scomodità di dover salire 200 gradini, rimase per Benetto, sua moglie e i figli non sposati (Costante e Giuseppe) un appartamento situato al sesto e settimo piano di un edificio del Ghetto vecchio, in campiello delle Scuole.
Soltanto i figli sposati, Moisè e Marco, abbandonarono il Ghetto abbastanza presto, ma per insediarsi, seguendo una tendenza più generale, nelle immediate vicinanze (il primo alla Maddalena e il secondo in salizzada S. Geremia), come fecero del resto gli altri due figli quando lasciarono alfine anch’essi l’antico quartiere ebraico, ma spostandosi di poche decine di metri (entrambi in rio Terrà S. Leonardo).
Nella seconda metà del secolo le cose cambiarono sensibilmente. La parsimonia e la frugalità, la sobrietà e la riservatezza quasi ostentate da Benetto e dai suoi figli, tanto da indurre la gente del vicinato a ritenere che nella loro casa in Ghetto nascondessero ingenti ricchezze, almeno in questo campo furono abbandonate dai Sullam, che come parecchi altri ebrei andarono a vivere in due palazzi veneziani(36). I due rami della famiglia vennero identificati in base alle rispettive parrocchie di residenza: i discendenti di Moisè, abitanti in palazzo Fontana, sul Canal Grande vicino alla Ca’ d’Oro, divennero i «Sullam di S. Felice»; quelli di Marco, trasferitisi in uno dei palazzi Donà, i «Sullam di S. Maria Formosa». Si riproponeva anche in questo caso, come in altri, l’antica consuetudine posta in essere a Venezia per distinguere i diversi rami delle famiglie patrizie.
L’assunzione da parte della nuova borghesia, compresa quella ebraica, di caratteri e comportamenti che erano stati propri dell’aristocrazia fu nel Veneto particolarmente diffusa. Possiamo riscontrarlo anche per altri aspetti: a parte l’unione in fraterna dei figli di Benetto dopo la morte del padre, cui già si è accennato, i Sullam avevano già acquisito in terraferma una sede per la villeggiatura, pur dovendosi accontentare di un «casino dominicale» a Spinea, certo assai più modesto delle ville patrizie. Significativa è anche la conservazione nella loro tenuta di rapporti di produzione e sociali di tipo tradizionale(37), come avveniva spesso nelle campagne venete, pur con gli aggiornamenti introdotti dalla borghesia ottocentesca(38): è da sottolineare, infatti, l’apparente contraddizione che esisteva fra molte connotazioni prettamente capitalistiche della loro azienda (investimenti consistenti, iniziativa imprenditoriale, innovazioni tecniche) e la permanenza di rapporti di produzione decisamente antiquati.
Tornando alla realtà veneziana, è stato posto o riproposto di recente il problema della composizione sociale della comunità ebraica cittadina. Con riferimento al periodo asburgico Gadi Luzzatto Voghera ha sottolineato l’esistenza di una netta spaccatura sociale, poco considerata dalla storiografia, che si è polarizzata sullo studio delle élites: concentrazione massiccia di ricchezza in pochissime mani e povertà diffusa nel resto della popolazione, per la quale l’emancipazione civile non ebbe effetti significativi. Da un lato le poche famiglie di armatori, mercanti, banchieri che già prima della caduta della Serenissima erano fra le più doviziose della città, già allora autorizzate ad abitare fuori del Ghetto, e che avevano poi ulteriormente consolidato le loro fortune acquisendo vasti patrimoni terrieri; dall’altro quasi i due terzi delle famiglie, ancora residenti in un Ghetto in progressivo degrado e con redditi tali da essere considerate incapaci di contribuire anche con poco alla tassa per il culto della comunità(39).
La questione merita senza dubbio di essere approfondita mediante ricerche mirate, non omettendo di confrontare la situazione degli ebrei con quella della restante popolazione di Venezia, una larga fascia della quale viveva, come è noto, in condizioni assai precarie e non di rado disastrose(40). Il caso dei Sullam, assieme ad altri, sembra comunque rendere possibile l’individuazione nel mondo ebraico veneziano, fra i pochi assai ricchi e la massa dei poveri, di una componente intermedia che, partita da posizioni modeste, nel corso del secolo andò accrescendo la sua fortuna, pur rimanendo lontana dalle posizioni di vertice.
1. Marino Berengo, L’agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica all’unità, Milano 1963, p. 168.
2. Witold Kula, Problemi e metodi di storia economica, Milano 1972, p. 179.
3. Renzo Derosas, Dal patriziato alla nobiltà. Aspetti della crisi dell’aristocrazia veneziana nella prima metà dell’Ottocento, in Les noblesses européennes au XIXe siècle. Atti del convegno, Roma 1988, pp. 362-363 (pp. 333-363). Cf. anche Paolo Gaspari, Terra patrizia. Aristocrazie terriere e società rurale in Veneto e Friuli: patrizi veneziani, nobili e borghesi nella formazione dell’etica civile delle élites terriere (1797-1920), Udine 1993, pp. 75-192; Giovanni Zalin, Assetto fondiario e ceti sociali nel Veneto durante le dominazioni straniere (1797-1848), «Archivio Veneto», ser. V, 146, 1996, pp. 61-103. Per l’inserimento in un ambito territoriale e temporale più vasto: Alberto M. Banti, I proprietari terrieri nell’Italia centro-settentrionale, in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, a cura di Piero Bevilacqua, II, Uomini e classi, Venezia 1990, pp. 45-103. Più in generale sulle classi sociali nobiliare e borghese a Venezia e nel Veneto in periodo napoleonico e asburgico, in mancanza d’indagini organiche, cf. fra l’altro Paul Ginsborg, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49, Milano 1978, pp. 15-60; Alvise Zorzi, Venezia austriaca (1798-1866), Roma-Bari 1985, pp. 239-284; Marco Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, Torino 1987 (Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XVIII/2), pp. 107-176; Adolfo Bernardello, Burocrazia, borghesia e contadini nel Veneto austriaco, «Studi Storici», 16, 1976, nr. 4, pp. 127-152, ora in Id., Veneti sotto l’Austria. Ceti popolari e tensioni sociali (1840-1866), Verona 1997, pp. 9-42; Andrea Zannini, Vecchi poveri e nuovi borghesi. La società veneziana nell’Ottocento asburgico, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 169-194.
4. Renzo Derosas, Aspetti del mercato fondiario nel Veneto del primo Ottocento, «Quaderni Storici», 22, 1987, nr. 65, pp. 549-578; Id., I Querini Stampalia. Vicende patrimoniali dal Cinquecento all’Ottocento, in I Querini Stampalia. Un ritratto di famiglia nel Settecento veneziano, a cura di Giorgio Busetto-Madile Gambier, Venezia 1987, pp. 43-87; Id., Aspetti economici della crisi del patriziato veneziano tra fine Settecento e primo Ottocento, in Veneto e Lombardia tra rivoluzione giacobina ed età napoleonica. Economia, territorio, istituzioni, a cura di Giovanni Luigi Fontana-Antonio Lazzarini, Roma-Bari 1992, pp. 80-132; Id., Riflessi privati della caduta della Repubblica, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 271-303; Id., Regime agrario e proprietà fondiaria nella provincia di Rovigo nella prima metà dell’Ottocento, in Rovigo e il Polesine tra rivoluzione giacobina ed età napoleonica. 1797-1815, a cura di Filiberto Agostini, Rovigo 1999, pp. 335-375.
5. Oltre ai saggi citati nella nota precedente cf. Mirella Calzavarini, La vendita dei beni nazionali nei dipartimenti veneti dal 1806 al 1814, in Veneto e Lombardia tra rivoluzione giacobina ed età napoleonica. Economia, territorio, istituzioni, a cura di Giovanni Luigi Fontana-Antonio Lazzarini, Roma-Bari 1992, pp. 133-163; Giovanni Zalin, L’economia veronese in età napoleonica. Forze di lavoro, dinamica fondiaria e attività agricolo-commerciali, Milano 1973, pp. 234-250, 270-272; Giorgio Scarpa, L’economia dell’agricoltura veneziana nell’800, Padova 1972, pp. 88-124.
6. Gino Luzzatto, L’economia veneziana dal 1797 al 1866, in La civiltà veneziana nell’età romantica, Firenze 1961, pp. 85-100 (pp. 85-108); Giorgio Renucci, Brevi notizie sulla agricoltura veneta ai primi dell’Ottocento (documenti inediti o rari), «Rivista Italiana di Studi Napoleonici», 9, 1970, pp. 3-10 (pp. 3-39); Giulio Monteleone, La carestia del 1816-1817 nelle province venete, «Archivio Veneto», ser. V, 136-137, 1969, pp. 23-86; Giuseppe Gullino, I patrizi veneziani e la terra (1796-1814). L’esempio di Chiara Pisani Barbarigo e di Pietro Pisani: due fratelli, tremila campi, «Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea», 31-32, 1979-1980, pp. 265-294.
7. In quegli anni e in quelli immediatamente successivi riprese la circolazione delle idee in campo agronomico grazie anche ai congressi degli scienziati italiani, nacquero i primi giornali specializzati, cominciarono gli acquisti di attrezzi perfezionati, si sperimentarono nuove macchine per l’asciugamento dei fondi vallivi, si avviarono dibattiti sull’istruzione agraria, si promossero le prime associazioni agrarie di tipo nuovo (Antonio Lazzarini, Fra tradizione e innovazione. Studi su agricoltura e società rurale nel Veneto dell’Ottocento, Milano 1998, pp. 25-30, 82-91).
8. Kent R. Greenfield, Commerce and New Enterprise at Venice, 1830-1848, «The Journal of Modern History», 11, 1939, pp. 313-333; Giovanni Zalin, Aspetti e problemi dell’economia veneta dalla caduta della Repubblica all’annessione, Vicenza 1969, pp. 131-169; Massimo Costantini, Dal porto franco al porto industriale, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti-Ugo Tucci, Roma 1991, pp. 879-914; Adolfo Bernardello, La prima ferrovia fra Venezia e Milano. Storia della imperial-regia privilegiata strada ferrata Ferdinandea lombardo-veneta (1835-1852), Venezia 1996.
9. M. Berengo, L’agricoltura veneta, pp. 167-170.
10. Giacomo Carletto, Il Ghetto veneziano nel ’700 attraverso i catastici, Roma 1981, p. 258.
11. A.S.V., Scuole piccole e suffragi, b. 736.
12. Ivi, Democrazia 1797-1798, b. 58 «Registro alfabetico Mercanti ed esercenti con quoto di tansa loro imposta».
13. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 14 «Squarzi».
14. A.S.V., Esaminador, Notificazioni, regg. 206-207. Si tratta di Angelo Maria Renier fu Andrea (un vitalizio per lire venete 1.206 di piccoli), Vincenzo Dolfin fu Lunardo (una cessione per ducati 4.000 da lire 6:4), Gerolamo Zen di Vincenzo (un livello affrancabile per un capitale di ducati 800), Zorzi Grimani Zustinian fu Marc’Antonio (un livello per un capitale di ducati 11.000 e quattro pagherò rispettivamente per lire 4.308 di piccoli, 350 zecchini veneti, 437 talleri da lire 10 l’uno, ducati 600).
15. Sugli ebrei a Venezia a cavallo del 1800 cf. Gino Luzzatto, Sulla condizione economica degli ebrei veneziani nel secolo XVIII, in Scritti in onore di Riccardo Bachi, «Rassegna Mensile di Israel», 16, 1950, pp. 161-172; Id., Un’anagrafe degli ebrei di Venezia del settembre 1797, in Scritti in memoria di Sally Mayer (1875-1953). Saggi sull’ebraismo italiano, Gerusalemme 1956, pp. 194-198; Id., Armatori ebrei a Venezia negli ultimi 250 anni della Repubblica, «Rassegna Mensile di Israel», 28, 1962, pp. 160-168; Marino Berengo, Gli ebrei veneziani alla fine del Settecento, in Italia Judaica, III, Roma 1989, pp. 9-30; Riccardo Calimani, Gli ebrei a Venezia dopo l’apertura del Ghetto, nel secolo dell’emancipazione, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 729-748; Michele Gottardi, L’Austria a Venezia. Società e istituzioni nella prima dominazione austriaca (1798-1806), Milano 1993, pp. 113-117. Per contesti territoriali più ampi: Pier Cesare Joli Zorattini, Gli ebrei nel Veneto durante il Settecento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 459-486; Maddalena Del Bianco Cotrozzi, Gli ebrei dell’area alto-adriatica nell’età delle riforme e della prima emancipazione. Istituzioni, cultura e religione, in L’area alto-adriatica dal riformismo veneziano all’età napoleonica, a cura di Filiberto Agostini, Venezia 1998, pp. 271-305.
16. A Venezia in periodo democratico furono registrati però soltanto tre passaggi di proprietà fondiarie in mani ebraiche (quelle di Gabriel e Benedetto Malta, Isach Davide Morpurgo, Lazzaro e Jacob Vita Vivante), benché per un importo complessivo notevole (45.865 ducati). Del resto anche sul mercato edilizio urbano gli operatori ebrei furono molto pochi e gli investimenti ancor più limitati: i Sullam vi contribuirono per quasi la metà (M. Berengo, Gli ebrei veneziani, pp. 18-20). In terraferma l’israelita più attivo, anche dopo l’avvento dell’Austria, fu probabilmente Aron Vita Lattis che, già qualificatosi come «agricoltore» nell’anagrafe del Mortera, andava acquistando vaste estensioni di terreno lungo tutto il litorale, dal Delta del Po (la tenuta di Ca’ Lattis) al retroterra veneziano (le paludi di Altino) e fino al basso Friuli, aprendo numerose vertenze col governo austriaco, cui avanzava nel contempo progetti di ogni tipo per la soluzione dei grandi problemi economico-finanziari: vendita dei beni comunali, riduzione a coltura dei terreni palustri lasciati incolti dai proprietari, accumulo di ingenti capitali per il ripristino della Zecca e del Banco giro (A.S.V., Commissione camerale 1798, b. 5, fasc. 22; cf. M. Gottardi, L’Austria a Venezia, pp. 116-117; M. Berengo, Gli ebrei veneziani, pp. 19-20; Furio Bianco, Nobili castellani, comunità, sottani. Accumulazione ed espropriazione contadina in Friuli dalla caduta della Repubblica alla Restaurazione, Udine 1983, p. 75).
17. Marino Berengo, Gli ebrei veneti nelle inchieste austriache della Restaurazione, «Michael», 1, 1972, pp. 9-37; Id., Gli ebrei dell’Italia asburgica nell’età della Restaurazione, «Italia», 6, 1987, nrr. 1-2, pp. 62-103; Gadi Luzzatto Voghera, Cenni sulla presenza ebraica a Venezia durante la dominazione austriaca, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 195-212.
18. Dopo la morte di Benetto, avvenuta nel 1820, i figli maschi rimasero uniti in fraterna, secondo un’usanza diffusa a Venezia: conservarono cioè la comunione dei beni e la gestione unitaria del patrimonio, pur avendo ciascuno anche qualcosa di proprio, derivante dai 2.000 ducati ricevuti dal padre quando era in vita e da altre attività. Non vivevano però tutti nella stessa abitazione.
19. A.S.V., Tribunale civile di prima istanza, rubrica II, fasc. 1243. In seguito alla morte del primogenito di Benetto, Moisè, per garantire gli interessi dei suoi cinque figli minorenni data la mancanza di testamento, il tribunale, agendo come giudice pupillare, nominò due tutori (la madre Regina Hanau e lo zio Giuseppe) e un curatore, dispose l’inventario dei beni costituenti il patrimonio della fraterna e lo mise sotto il proprio controllo, che esercitò in modo accuratissimo fino al 1837, anno in cui l’ultimo dei figli raggiunse la maggiore età. Ciò bloccò ogni possibilità di ulteriori acquisti da parte della fraterna (peraltro assai diradatisi già da alcuni anni), ma non dei suoi singoli membri.
20. Dai beni di terraferma nel periodo 1826-1836 si ricavavano i due terzi della rendita lorda complessiva della famiglia, che si aggirava sulle 33.000 lire annue: da essa vanno detratte spese per ben 22.000 lire circa, restando un utile di sole 11.000.
21. L’archivio privato Sullam è conservato presso l’Archivio di Stato di Venezia, nella sede sussidiaria della Giudecca (e quindi non consultabile da una decina d’anni): è composto di 107 buste, 65 copialettere, 40 registri e libri contabili, mappe e disegni in numero imprecisato. Per un inventario di massima: Antonio Lazzarini, Fra terra e acqua. L’azienda risicola di una famiglia veneziana nel Delta del Po, I-II, Roma 1990-1995: II, pp. 602-608.
22. Per una più ampia trattazione degli interventi effettuati, dei capitali investiti, dei primi risultati raggiunti cf. ibid., I, pp. 95-110.
23. Giandomenico Romanelli, Alvisopoli come utopia urbana, «L’Abaco», 2, 1983, pp. 9-25; Lorenzo Bellicini, La costruzione della campagna. Ideologia agraria e aziende modello nel Veneto, 1790-1922, Venezia 1983, pp. 11-146.
24. Antonio Lazzarini, L’organizzazione del territorio nel Delta del Po. Proprietà, insediamenti, utilizzazione del suolo, in Rovigo e il Polesine tra rivoluzione giacobina ed età napoleonica. 1797-1815, a cura di Filiberto Agostini, Rovigo 1999, pp. 313-323. Per un singolare esempio d’imprenditorialità femminile in questa zona, quello di Elena Dolfin, moglie intraprendente ed energica dell’inetto e dissoluto Tommaso Mocenigo Soranzo, fortemente impegnata nella gestione della risaia nella tenuta di Sant’Andrea di Marina alla Gnocca (che mai sarebbe passata in mano ai Sullam, come viene invece affermato a p. 333), cf. Lorenza Perini, La proprietà fondiaria dei Pesaro e dei Soranzo Mocenigo nel Polesine tra XVIII e XIX secolo, ibid., pp. 325-334.
25. Venezia, Archivio dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, b. 108, 1856, fasc. 15. Vi si trovano sia la relazione, ampia e particolareggiata, allegata alla domanda dai concorrenti, sia il rapporto della commissione, formata da Ferdinando Cavalli, Agostino Fapanni e Gustavo Bucchia.
26. Atti della distribuzione de’ premj d’agricoltura e d’industria fatta in Venezia il 16 ottobre 1838 in presenza delle loro Maestà II. e RR. da sua eccel. il Sig. Conte Giovanni Battista di Spaur, Venezia 1838, p. 43; Atti della distribuzione de’ premj d’industria seguita in Venezia il giorno 30 maggio 1844 onomastico di Sua Maestà I.R.A., Venezia 1844, pp. 27-29; Atti della distribuzione de’ premj d’industria seguita in Venezia il giorno 30 maggio 1846 onomastico di Sua Maestà I.R.A., Venezia 1846, pp. 33-34.
27. Atti della distribuzione dei premj di agricoltura e industria seguita il giorno 30 maggio 1854, Venezia 1854, pp. 31-33 (anche a Giuseppe Reali viene conferita la medaglia d’oro); L. Bellicini, La costruzione della campagna, pp. 256-257; Id.-Daniele Rallo, Ca’ Corniani 1851-1981: note sulla persistenza agraria delle Assicurazioni generali di Venezia e Trieste, in Storia sociale e cultura popolare nel Veneto orientale dal secondo Ottocento all’ultimo dopoguerra, a cura di Bruno Anastasia, Portogruaro 1984, pp. 129-158.
28. Rovigo, Archivio di Stato, Camera di commercio, b. 252, fasc. 26 «Notizie sui maggiori possidenti della provincia», 1887, Comuni di Porto Tolle e Taglio di Po; A.S.V., Archivio privato Sullam, b. 67, fasc. 7 «Elenco dei proprietari di fondi rustici nel comune di Porto Tolle (1912)».
29. La risaia effettivamente posta in coltivazione ogni anno si estese da circa 350 ettari intorno al 1870 ad oltre 610 un decennio più tardi, per oscillare poi fra i 500 e i 600 ettari, mentre la produzione aziendale, nonostante le fasi di crisi, aumentava in proporzione assai maggiore, passando da meno di 4.000 quintali di risone nei primi anni ad oltre 14.000 intorno al 1910. Per l’analisi dei bilanci aziendali e per le innovazioni tecniche e organizzative introdotte a Gnocchetta cf. A. Lazzarini, Fra terra e acqua, II, pp. 293-343, 431-444.
30. Il tasso di rendimento annuo del capitale si aggirava sul 6%, omettendo di computare l’interesse sul capitale fondiario, come si usava fare se la terra, come nel nostro caso, era da molto tempo di proprietà della famiglia.
31. Antonio Zecchettini, Cenni storici e statistici sull’Isola di Ariano e sull’omonimo consorzio, Ariano Polesine 1910, pp. 6-16; Antonio Bononi, Le bonifiche del Polesine, «Almanacco Veneto», 2, 1913, pp. 447-451 (pp. 429-451); Gustavo Cristi, Storia del comune di Ariano Polesine, Padova 1934, pp. 173-183; Giorgio Porisini, Bonifiche e agricoltura nella bassa valle padana (1860-1915), Milano 1978, pp. 104-105.
32. Queste indicazioni sono tratte dalle lettere contenute in A.S.V., Archivio privato Sullam, bb. 84-85. Sugli ebrei veneziani in questo periodo cf. Emilio Franzina, La Società, in Venezia, a cura di Id., Roma-Bari 1986, pp. 308-316 (pp. 301-322); Giannantonio Paladini, Politica e cultura a Venezia tra Ottocento e Novecento: i Musatti, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 431-448.
33. Basti qualche esempio. Giuseppe, l’ultimogenito di Benetto, era presidente della scuola Levantina: alla sua morte, avvenuta nel 1858, lasciò ad essa una lampada d’argento e 2.000 lire per mantenervi l’olio in perpetuo, oltre a 500 lire alla Fraterna di misericordia e pietà, di cui era confratello, 5.000 alla Fraterna generale di culto e beneficenza, 1.000 al rabbino maggiore per distribuirle ai poveri (A.S.V., Tribunale provinciale di Venezia, Sezione civile, E.22.58). Analoghe le disposizioni contenute nel testamento di Benedetto, figlio di Moisè, morto nel 1869, salvo per un lascito (di 300 lire) al Sovvegno israelitico, di cui era confratello, invece che alla Fraterna di misericordia e pietà (Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 248, fasc. 49). Fu invece una donazione quella effettuata nel 1891 dal fratello di Benedetto, Costante, alla Scuola spagnola, cui cedette la vecchia casa di famiglia, contigua alla sinagoga stessa (ivi, b. 551).
34. A.S.V., Governo Provvisorio, 1848-1849, bb. 610-612 e regg. 1226, 1227, 1250, 1258; Archivio privato Sullam, bb. 24, 27. Ai diversi prestiti deliberati dal governo provvisorio i Sullam contribuirono complessivamente con circa 35.000 lire austriache, contro le cifre massime di oltre 1 milione di lire sborsate dalle ditte Angelo Papadopoli, Pietro e Andrea Giovanelli e, fra gli ebrei, Giacomo e Isacco Treves. Se nel prestito dei 10 milioni furono collocati oltre il 150° posto, in quelli successivi vennero a trovarsi intorno al 50°, sulla base di una stima che valutava il loro patrimonio pari a circa 1 milione e mezzo di lire austriache: ma in realtà esso, compresi i beni personali di Giuseppe, arrivava forse soltanto alla metà di tale cifra (A. Lazzarini, Fra terra e acqua, I, pp. 54-70; cf. P. Ginsborg, Daniele Manin, pp. 246-248, 314-319).
35. A.S.V., Archivio privato Sullam, b. 9, fasc. «Concorso al premio d’industria».
36. Per alcuni esempi: A. Zorzi, Venezia austriaca, p. 260.
37. La risaia era campeggiata, cioè suddivisa in piccoli lotti fra le famiglie dei coltivatori; i lavoratori non erano braccianti avventizi, ma obbligati ad anno e ricevevano sovvenzioni per poter sopravvivere; il controllo sociale rimaneva largamente ispirato a forme di tipo paternalistico.
38. I margini di autonomia dei coltivatori vennero progressivamente ristretti; il meccanismo delle sovvenzioni acquistò per il proprietario rilevanza economica tutt’altro che limitata; il controllo sul territorio venne generalizzato e quello sulla popolazione diventò sempre più rigido, estendendosi ad ambiti del tutto nuovi come il comportamento elettorale.
39. G. Luzzatto Voghera, Cenni sulla presenza ebraica, pp. 195-199.
40. Per una recente sintetica messa a punto sulla dibattuta questione del pauperismo a Venezia cf. A. Zannini, Vecchi poveri e nuovi borghesi, pp. 174-180 e la bibl. ivi citata.